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La Corte proscioglie per tenuità del fatto applicando lo jus superveniens

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 2 DICEMBRE 2016, N. 51615 - PRES. IPPOLITO; REL. BASSI

In tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., quando la sentenza impugnata è anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità presuppone che le condizioni di applicabilità dello stesso non siano state escluse dal giudice di merito, in termini espliciti o impliciti, nella ricostruzione della fattispecie e nelle valutazioni espresse in sentenza.

 

[Omissis]

 

 

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con il provvedimento in epigrafe, in parziale riforma dell’impugnata sentenza del Tribunale di Cagliari del 23 giugno 2012 - in relazione alla coltivazione di piante di cannabis ed alla detenzione di analoga sostanza -, la Corte d’appello del capoluogo sardo ha ridotto la pena inflitta in primo grado a C.R. a mesi sei di reclusione e 1000 Euro di multa, con conferma nel resto della decisione impugnata.

2. Ricorre avverso la sentenza l’Avv. Scarparo Maurizio, difensore di fiducia di C.R., e ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:

2.1. violazione di legge processuale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125, 192 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. e), per avere la Corte d’appello eluso l’obbligo di motivare, là dove si è limitata a riprodurre in copia la motivazione della sentenza di primo grado;

2.2. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere il Collegio di merito errato nel ritenere configurabile nella specie una "coltivazione" penalmente rilevante, trattandosi invece di una semplice coltivazione domestica, riportabile alla ampia nozione di detenzione per uso personale;

2.3. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 49 c.p., comma 2, e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere la Corte errato nel ritenere punibile il fatto, sebbene si tratti di una coltivazione domestica priva di offensività in quanto finalizzata al mero uso personale;

2.4. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 110 c.p., art. 192 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere il giudice d’appello errato nel ritenere punibile il fatto, nonostante la coltivazione domestica fosse destinata a fare fronte al fabbisogno giornaliero di un gruppo di persone, con relativa condivisione della responsabilità;

2.5. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 49 c.p., comma 2, e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 nonché in relazione all’art. 25 Cost., artt. 2 e 131-bis c.p., sussistendo nella specie i presupposti della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto contestato;

2.6. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 42 e 43 c.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere la Corte omesso di motivare in merito alla integrazione dell’elemento soggettivo;

2.7. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 62-bis c.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 nonché in relazione all’art. 25 Cost., artt. 2 e 131-bis c.p., per avere il Collegio del gravame irragionevolmente negato all’imputato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in considerazione delle modalità del fatto, mentre risulta inverosimile che i coinquilini del C. non condividessero i prodotti della coltivazione della marijuana, visto il forte odore emanato dalla coltura.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il ricorso va accolto per la fondatezza della censura dedotta con il primo motivo, avente natura processuale e, come tale, assorbente i rilievi enunciati con il secondo e terzo motivo di impugnazione.

2. Nel caso in esame la Corte di Campobasso aveva proceduto in udienza camerale a norma del combinato disposto degli artt. 443, comma 4, e 599 cod. proc. pen. (atteso che, in primo grado, il processo si era svolto col rito abbreviato), il quale a sua volta rinvia alle forme previste dall’art. 127 cod. proc. pen. Il difensore di fiducia non era intervenuto all’udienza, deducendo un legittimo impedimento dovuto ad una grave malattia. L’istanza di rinvio, poiché non accompagnata dalla nomina o dall’indi­cazione dei motivi della mancata nomina di un sostituto processuale, considerato un onere dall’organo giudicante, era stata rigettata.

3. Le questioni che le Sezioni Unite devono affrontare sono due.

3.1. In primo luogo si deve esaminare “se, ai fini del rinvio dell’udienza, il difensore abbia l’onere di nominare un sostituto quando l’assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, prontamente comunicato al giudice e documentato, derivi da serie ragioni di salute o da altre cause di forza maggiore”.

3.2. In secondo luogo si deve valutare “se il suddetto principio di diritto si applichi anche nel giudizio camerale di appello di cui all’art. 599, comma 1, cod. proc. pen.”.

4. Innanzitutto, si deve precisare che l’impedimento ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. viene qualificato come “legittimo”, cioè conforme alla legge o da questa costituito. Nonostante tale precisazione, il legislatore non ha concretamente individuato le cause idonee ad integrare il legittimo impedimento, necessitando l’intervento suppletivo della giurisprudenza di legittimità. La Corte di cassazione, al fine di riempire di contenuto il dettato normativo e dirimere le controversie ad essa sottoposte, ha ricercato nei parametri costituzionali le linee guida a cui ispirarsi. Alcune tra le principali cause giustificatrici della legittima impossibilità di comparire sono costituite o da un precedente e concomitante impegno professionale ovvero da altra causa che impedisce la presenza del difensore dovuta ad ostacoli di carattere fisico o sanitario o eventi imprevisti. Nel caso di specie l’impedimento a comparire del difensore in udienza era stato indicato nella situazione di malattia in cui quest’ultimo versava.

5. Sul tema della nomina di un sostituto processuale ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen., in caso di impossibilità a comparire del difensore per legittimo impedimento, si contrappongono due differenti filoni giurisprudenziali.

6. La giurisprudenza prevalente, in tema di impedimento a comparire del difensore (art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen.), afferma che, ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen., l’onere di nominare un sostituto processuale o di indicare le ragioni dell’omessa nomina, ricade sul difensore solo nel caso in cui quest’ultimo deduca un impedimento dovuto a concomitanza con altro impegno professionale, non sussistendo invece, in quanto non previsto da alcuna disposizione di legge, quando l’impedimento, non prevedibile e non evitabile, sia costituito da serie ragioni di salute, comunicate all’organo giudicante e debitamente documentate (Sez. 6, n. 7997 del 17/06/2014, dep. 2015, Seck, Rv. 262389; Sez. 5, n. 29914 del 01/07/2008, Trubia, Rv. 240453; Sez. 6, n. 32699 del 11/04/2014, R., Rv. 262074; Sez. 1, n. 47753, del 09/12/2008, Fettah, Rv. 242489).

7. Solo recentemente si è affermato che l’obbligo di nominare un sostituto ex art. 102 cod. proc. pen. sussiste anche quando l’impedimento dedotto sia costituito da serie ragioni di salute dello stesso difensore (Sez. F, n. 35263 del 22/07/2014, Gaggiano, Rv. 260152; Sez. 4, n. 49733 del 13/11/2014, Pezzetta, Rv. 261182), così assimilando l’impedimento per concomitante impegno professionale a quello per malattia ed estendendo correlativamente la disciplina del primo al secondo.

8. La Corte di appello di Campobasso, aderendo a questo secondo orientamento, ha rigettato l’istan­za del difensore di fiducia non motivando circa la natura dell’impedimento, serio e tempestivamente dedotto, ma in ragione della mancata indicazione, da parte del difensore di fiducia affetto da grave malattia, dei motivi determinanti l’impossibilità di nominare un sostituto processuale.

9. Nel vigente codice di rito è prevista la partecipazione dell’accusa e della difesa, su un piano di parità e in ogni stato e grado, al fine di garantire un “processo di parti”. L’intervento del difensore costituisce una attività di “partecipazione” e non di mera “assistenza”, essendo egli impegnato, al pari del pubblico ministero, nella ricerca, individuazione, proposizione e valutazione di tutti gli elementi probatori e nel­l’analisi della fattispecie legale. L’effettività della difesa non può essere pertanto ridotta ad una mera formale presenza di un tecnico del diritto che, per mancanza di significativi rapporti con le parti o per il ridotto tempo a disposizione, non sia in grado di padroneggiare adeguatamente il materiale di causa.

10. Ditalché, la Corte di cassazione, stimando necessario garantire all’imputato il diritto alla difesa e all’effettivo contraddittorio, ha più volte precisato che, quanto al diniego dell’istanza di rinvio, solo in relazione ai casi di impedimento del difensore, ex art. 420-ter cod. proc. pen., determinati da concomitanti impegni professionali si rende necessaria l’indicazione della impossibilità, assoluta o relativa, della nomina di eventuali sostituti processuali. Le Sezioni Unite condividono questo orientamento e, conformemente a quanto sostenuto dal Procuratore generale, ritengono che la disciplina del concomitante impegno professionale non possa essere trasposta nel diverso ambito di impedimento per malattia, salvo che lo stato patologico sia prevedibile. D’altra parte, tale garanzia viene sottoposta a rigorosi criteri di controllo affinché la tutela del diritto alla salute del difensore non venga strumentalizzata per finalità dilatorie.

11. A sostegno dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento, dovuto a malattia, o altro evento imprevedibile, il difensore deve provare con idonea documentazione la sussistenza dell’impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione. L’impedimento deve essere giustificato da circostanze improvvise e assolutamente imprevedibili, tali da impedire anche la tempestiva nomina di un sostituto che possa essere sufficientemente edotto circa la vicenda in questione. Resta fermo, ai fini del differimento dell’udienza, l’apprezzamento riservato al giudice di merito circa la serietà, l’imprevedibilità e l’attualità del dedotto impedimento, e la relativa valutazione deve essere sorretta da una motivazione adeguata, logica e corretta.

12. Va dunque affermato il seguente principio di diritto: “Il difensore impedito a causa di serie ragioni di salute o da altro evento non prevedibile o evitabile non ha l’onere di designare un sostituto processuale o indicare le ragioni dell’omessa nomina”. è quindi illegittimo il provvedimento di rigetto dell’istanza di differimento dell’udienza, presentata per l’impedimento del difensore di fiducia a parteciparvi a causa di grave malattia o altro impedimento non prevedibile, dovuto a forza maggiore, se motivato con esclusivo riguardo alla mancata nomina da parte del difensore impedito di un sostituto processuale o dell’omessa indicazione delle ragioni dell’impossibilità di procedervi.

13. Rilevante nel caso in esame è poi la questione circa l’applicabilità o meno del legittimo impedimento di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. nei procedimenti camerati disciplinati dall’art. 127 cod. proc. pen., compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria. Nel caso in esame, infatti, la Corte di appello ha proceduto in udienza camerale, ex art. 443, comma 4, cod. proc. pen., che rinvia, per le forme dell’appello relativo a giudizio abbreviato, all’art. 599, cod. proc. pen., il quale a sua volta rinvia a quelle previste dall’art. 127 cod. proc. pen.

14. L’art. 420-ter cod. proc. pen., introdotto dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, la quale ha abrogato l’art. 486 cod. proc. pen., sull’impedimento a comparire dell’imputato o del difensore all’udienza dibattimentale, estende la regola del rinvio per assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento del difensore, purché prontamente comunicato, anche alla fase dell’udienza preliminare. L’art. 486 cod. proc. pen., abrogato, era inserito nel Libro VII “Giudizio”, Titolo II “Dibattimento”. L’art. 420-ter cod. proc. pen. è collocato invece nel Libro V “Indagini Preliminari e udienza preliminare”, Titolo IX “Udienza preliminare”. Con tale modifica, il legislatore ha inteso assicurare, sia nel procedimento camerate che nella fase dibattimentale, l’effettività del contraddittorio e il diritto di difesa dell’imputato, in coerenza con il novellato art. 111 Cost.

15. La giurisprudenza maggioritaria di legittimità è orientata nell’escludere l’applicazione della disciplina del legittimo impedimento nei procedimenti camerali diversi dall’udienza preliminare, anche ove si tratti di procedimenti a contraddittorio necessario, risultando quest’ultimo regolato secondo le speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, appositamente predisposta dal legislatore. Si è affermato, con riferimento ai riti alternativi, che il contraddittorio, che in sede di gravame si svolga in forma meramente cartolare, non vanifica l’esercizio di difesa o lede il principio di eguaglianza, allorché tale possibilità consegua all’opzione, liberamente privilegiata dallo stesso imputato, di consentire l’acce­lerazione del procedimento in cambio di consistenti benefici sostanziali (Sez. 5, n. 9249 del 15/10/2014, dep. 2015, Motta, Rv. 263029; Sez. 5, n. 16555 del 06/04/2006, Verbi, Rv. 234451). Sicché si è ritenuta l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. ai procedimenti camerali - che si svolgono con le forme previste dall’art. 127 cod. proc. pen. - ivi compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria (Sez. U, n. 7551 del 08/04/1998, Cerroni, Rv. 210796; Sez. U, n. 15232 del 30/10/2014, Tibo, Rv. 263022). L’art. 443, comma 4, cod. proc. pen. dispone che il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall’art. 599 cod. proc. pen., il quale a sua volta richiama l’art. 127 cod. proc. pen. che disciplina il procedimento in camera di consiglio, per il quale il p.m., gli altri destinatari dell’avviso di udienza nonché il difensore sono sentiti solo se compaiono. Sicché, come affermato da recenti decisioni (Sez. 5, n. 25501 del 12/05/2015, Corona, Rv. 264066; Sez. 4, n. 25143 del 18/12/2014, dep. 2015, Piperi, Rv. 263852; Sez. 5, n. 9249 del 15/10/2014, dep. 2015, Motta, Rv. 263029; Sez. 1, n. 6907 del 24/11/2011, dep. 2012, Ganceanu, Rv. 252401), una volta espletate le rituali co­municazioni e notifiche, non è prevista, per ragioni di speditezza e concentrazione intrinseche alla natura del procedimento, la partecipazione necessaria del p.m. e del difensore; con la conseguenza che l’e­ventuale impedimento di quest’ultimo non costituisce motivo di rinvio, sempre che non si debba procedere a rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. In appello, seguito da giudizio di primo grado svoltosi nelle forme del rito abbreviato, ciò che rileva sarebbe esclusivamente il legittimo impedimento dell’imputato e non quello del difensore il quale viene ascoltato solo se compare.

16. In contrasto con la giurisprudenza largamente maggioritaria, poc’anzi delineata, una recentissima pronuncia della Sesta Sezione penale (Sez. 6, n. 10157 del 21/10/2015, dep. 2016, Caramia, 266531) afferma l’operatività dell’istituto del legittimo impedimento del difensore, di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen., anche nei procedimenti in camera di consiglio e, in particolare, nel giudizio camerale di appello ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado, pena la concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa. Trattandosi di fase decisoria in cui si discute del merito e della fondatezza dell’imputazione, appare necessaria un’interpretazione costituzionalmente orientata che estenda la disciplina del legittimo impedimento, già prevista per l’udienza preliminare, anche al procedimento camerale, ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di giudizio di primo grado svoltosi con il rito abbreviato. D’altra parte la Corte europea dei diritti umani ha, più volte, sottolineato la necessità di assicurare all’imputato, nell’ottica delineata dall’art. 6 CEDU, un processo equo e di garantire il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, indipendentemente dal modulo procedimentale prescelto e dalla fase processuale, e, in particolare, nella fase del giudizio, in cui si discute della fondatezza dell’imputazione; e, pertanto, anche nel giudizio abbreviato nel quale si attribuisce al giudice, sia in primo grado che in appello, la piena cognizione del merito dell’accusa, con conseguente necessità di esaminare approfonditamente, sottoponendole ad adeguato vaglio dialettico, nel contraddittorio tra le parti, le risultanze acquisite. Sarebbe altrimenti palese la contraddizione con la disciplina prevista per l’udienza preliminare, la quale, pur avendo natura camerale ed essendo preordinata ad una decisione in rito, è garantita con la partecipazione necessaria del difensore (ex art. 420, comma 1, cod. proc. pen.). Il richiamo effettuato dall’art. 599, comma 1, cod. proc. pen. all’art. 127, comma 3, cod proc. perì, a norma del quale i difensori sono sentiti “se compaiono”, riconosce il diritto del difensore di perseguire la propria strategia difensiva, favorendo l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore, pur facoltativa, lascia comunque possibilità di scelta se comparire o non. Orbene, la scelta del difensore di comparire all’udienza camerale, aderendo ad una specifica linea difensiva, non può essere vanificata da un evento imprevisto e imprevedibile o da forza maggiore che gli impedisca concretamente di partecipare all’udienza. In questo caso si avrebbe una limitazione del diritto di difesa e delle garanzie fondamentali dell’imputato, del tutto indipendenti dalla strategia processuale perseguita, non giustificabile con riferimento alle subvalenti esigenze di celerità e snellezza proprie del rito camerale.

17. Le Sezioni Unite, mutando così il precedente orientamento, ritengono che il combinato disposto degli artt. 127, comma 3, 443, comma 4, e 599 cod. proc. pen. implichi, anche nei procedimenti di appello in camera di consiglio (a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado), la rilevanza del legittimo impedimento del difensore di fiducia, che abbia deciso di parteciparvi ma sia stato impossibilitato a comparire per causa di forza maggiore, evento o malattia imprevisti e imprevedibili.

18. Va dunque enunciato il seguente ulteriore principio di diritto: “È rilevante nel giudizio camerale di appello (conseguente a processo di primo grado celebrato con rito abbreviato) l’impedimento del difensore determinato da non prevedibili ragioni di salute”.

19. Nel caso in esame la Corte di appello non ha affatto esaminato la serietà, l’imprevedibilità e l’at­tualità dell’impedimento per ragioni di salute dedotto dal difensore. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata per nuovo giudizio, con rinvio alla Corte di appello di Salerno, la quale si atterrà ai principi di diritto enunciati.

20. Resta assorbito l’esame degli ulteriori motivi di ricorso.

1. Il ricorso deve essere respinto.

2. È inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo di ricorso col quale il ricorrente denuncia il difetto assoluto di motivazione per avere la Corte d’appello riprodotto nel provvedimento impugnato la sentenza di primo grado (v. punto 2.1 del ritenuto in fatto).

Dalla lettura della decisione in verifica, risulta di tutta evidenza come il Collegio di merito, dopo avere dato conto del compendio argomentativo sviluppato dal Giudice di primo grado nonché dei motivi d’appello, abbia svolto specifiche ed autonome considerazioni in risposta (v. pagine 9 e seguenti della sentenza).

3. Sono privi di fondamento il secondo e terzo motivo, con i quali il ricorrente declina sotto diversa prospettiva la medesima doglianza, lamentando il difetto dei presupposti fattuali della "coltivazione" punita dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 (v. punti 2.2 e 2.3 del ritenuto in fatto).

3.1. Le censure mosse nel ricorso si pongono in evidente disarmonia rispetto al consolidato insegnamento di questa Corte, affermato anche dalle Sezioni Unite, alla stregua del quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale, ma spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 e 239921; Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata).

Detto principio è stato di recente autorevolmente ribadito dalla Corte costituzionale, con la pronuncia del 9 marzo 2016, n. 109, là dove - nuovamente investita della questione già sollevata in passato - il Giudice delle Leggi ha ribadito l’infondatezza della dedotta incostituzionalità del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, con riferimento all’art. 3 Cost., art. 13 Cost., comma 2, art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., comma 3, nella parte in cui, secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via esclusiva al­l’uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione di piante di cannabis.

A sostegno della decisione, i Giudici della Consulta hanno rilevato, per un verso, come non sussista una disparità di trattamento tra il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente "raccolto" e il coltivatore "in atto", poiché entrambi sono chiamati a rispondere penalmente delle loro condotte; per altro verso, come non sia ravvisabile la violazione del principio della necessaria offensività del reato, là dove la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti, presentando l’attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica - la quale non è che la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui - oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico. Rimane, dunque, affidata alla discrezionalità del legislatore la previsione di un trattamento sanzionatorio più rigoroso per la condotta, dotata di maggiore pericolosità, di coltivazione di stupefacenti rispetto a quella di sola detenzione, in quanto la prima, non solo ha la capacità di accrescere la quantità di stupefacente esistente e circolante, ma - a differenza delle altre condotte "produttive" - non richiede neppure la disponibilità di "materie prime" soggette a rigido controllo, ma normalmente soltanto dei semi.

3.2. Di tali coordinate ermeneutiche hanno fatto corretta applicazione i Giudici della cognizione. A tenore di contestazione, nel caso in oggetto, si tratta della coltivazione di sette piantine di cannabis già poste a dimora e di altri diciannove pronte per essere impiantate, mediante utilizzo di micro impianti di irrigazione e di illuminazione, nonché della detenzione, ad evidente fine di spaccio, di complessivi 300 grammi di infiorescenze e foglie di marijuana essiccata, contenuti in diversi barattoli di vetro e contenitori. Dalle sostanze si sarebbero potuto ricavare, rispettivamente, 90 dosi medie singole, dalle piante coltivate, e 250 dosi medie singole, dalla sostanza stupefacente essiccata.

Secondo la ricostruzione in fatto compendiata nelle sentenze di merito, le modalità motivazione delle piantine erano indubbiamente domestiche, ma presentavano un certo grado di organizzazione, in considerazione della predisposizione di due piccole serre attrezzate con l’impianto di irrigazione, ventole, lampade, filtri e termometri, così da consentire il mantenimento di un microclima favorevole della crescita delle piantine; inoltre le piante venivano coltivate "a rotazione", modalità in grado di massimizzare il prodotto (v. pagine 9 e 10 della sentenza).

Alla stregua della ricostruzione in fatto della vicenda, ineccepibile si appalesa allora la conclusione cui è pervenuta la Corte in punto di offensività del fatto, trattandosi di una coltivazione - con allestimento di due serre domestiche e a rotazione - potenzialmente idonea a produrre nel tempo, ove non interrotta dalle forze dell’ordine, di costanti e significativi quantitativi di sostanza stupefacente di buona qualità (v. pagina 11 della sentenza).

4. La deduzione mossa nel quarto motivo (v. punto 2.4 del ritenuto in fatto) non sfugge ad una preliminare ed assorbente censura di inammissibilità, posto che essa, per un verso, non si confronta con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della cognizione e, dunque, omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838); per altro verso, è volta a sollecitare una rilettura delle emergenze processuali, non consentita in questa Sede (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

4.1. Del tutto congruamente la Corte ha ritenuto che il fatto che i coinquilini potessero agevolmente rendersi conto della presenza della droga nella stanza del C. non costituisca circostanza di per sé idonea a dimostrare il loro concorso nel reato (v. pagina 10 della sentenza).

Secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato più volti ribaditi da questo Giudice di legittimità, la circostanza che taluno sia a conoscenza della circostanza che altri detenga nella medesima abitazione della sostanza stupefacente non è sufficiente a ritenere provato il concorso nel reato - che postula un contributo partecipativo, morale o materiale, alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito -, dovendo piuttosto ricondursi, allorché si riduca ad un comportamento meramente passivo, alla c.d. connivenza non punibile (ex plurimis Sez. 6, n. 44633 del 31/10/2013, Dioum e altri, Rv. 257810; Sez. 4, n. 4948 del 22/01/2010, Porcheddu e altro, Rv. 246649).

5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. (motivo riassunto sub punto 2.5 del ritenuto in fatto).

5.1. Occorre premettere che detto istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento con D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ed è entrato in vigore il 2 aprile 2015, successivamente alla pronuncia dell’impugnata sentenza.

Come ha chiarito questa Corte pronunciandosi nel suo più ampio consesso, l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131-bis c.p., avendo natura sostanziale, è applicabile, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione e per solo questi ultimi la relativa questione, in applicazione dell’art. 2 c.p., comma 4, e art. 129 c.p.p., è deducibile e rilevabile d’ufficio ex art. 609 c.p.p., comma 2, anche nel caso di ricorso inammissibile (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593). Le Sezioni Unite hanno, inoltre, chiarito che, quando la sentenza impugnata è anteriore alla entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilità, la dichiara d’ufficio, ex art. 129 c.p.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594).

Ne discende che la diretta applicazione dell’istituto da parte di questa Corte presuppone la possibilità di riconoscerne i relativi presupposti ("se riconosce la sussistenza della suddetta causa di non punibilità") sulla base della ricostruzione dei fatti e delle valutazioni compiute dai giudici della cognizione. Diversamente, la decisione deve essere demandata al giudice di merito, non potendo espletarsi nella sede di legittimità - giusta la specifica natura del sindacato rimesso a questa Corte - apprezzamenti di fatto tesi alla ricostruzione ed alla valutazione dei fatti (in senso conforme alle Sez. U sul punto, Sez. 6, n. 168, del 10/02/2016, Zuccato).

Occorre aggiungere che il riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. - pur possibile nella sede di legittimità per le ragioni già sopra esposte -, presuppone nondimeno che le condizioni dell’istituto non siano già state escluse dal giudice di merito, in termini espliciti o impliciti nella ricostruzione della fattispecie storico-fattuale e nelle valutazioni espresse in sentenza.

5.2. In applicazione del principio fissato dalle Sezioni Unite, non è revocabile in dubbio che, nel caso sottoposto al vaglio di questo Collegio, non sussistano le condizioni per l’applicazione dell’istituto.

Ed invero, la Corte territoriale, nell’argomentare l’insussistenza dei presupposti per ritenere - in concreto - non offensiva la coltivazione di marijuana e per negare la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, ha congruamente evidenziato una serie di circostanze (modalità organizzative della coltivazione, quantità di sostanza detenuta e particolare ardire nel coltivare in un appartamento abitato anche da altre persone), tutte distoniche con la causa di non punibilità invocata.

6. Del tutto generico e, dunque, inammissibile è il sesto motivo (punto 2.6 del ritenuto in fatto), con il quale il ricorrente denuncia l’omessa motivazione in merito alla integrazione dell’elemento soggettivo, in ogni caso implicitamente motivato in sentenza alla luce della descrizione delle stesse modalità del fatto e dell’espresso richiamo alle dichiarazioni del C., il quale ha ammesso di avere coltivato e detenuto marijuana nella propria stanza (v. pagina 5 della sentenza).

7. Incensurabili in questa Sede sono anche le considerazioni svolte dal Collegio d’appello in punto di negatoria delle circostanze attenuanti generiche, decisione contestata dal ricorrente col settimo motivo (2.7 del ritenuto in fatto). La Corte ha invero rilevato, per un verso, che si tratta di motivo generico e pertanto inammissibile (con una decisione perfettamente in linea con quanto di recente sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza del 27 ottobre 2016, ric. Galtelli). Per altro verso, che non ricorre alcun concreto elemento positivamente valutabile, non potendosi valorizzare la mera incensuratezza dell’imputato, in conformità al consolidato insegnamento di questa Corte (ex plurimis Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini e altri, Rv. 260610).

8. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

 

[Omissis]