belluta

home / Archivio / Fascicolo / L'acquisizione e l'elaborazione dei tabulati telefonici riferibili a membri del Parlamento: ..

indietro stampa articolo fascicolo


L'acquisizione e l'elaborazione dei tabulati telefonici riferibili a membri del Parlamento: vecchie questioni di diritto sostanziale e nuove querelles processuali

di Donatella Curtotti

Nel caso di acquisizione ed elaborazione di tabulati telefonici relativi ad utenze intestate a membri del Parlamento, il p.m. ed il suo consulente tecnico rispondono in concorso del reato d’abuso d’ufficio se, al momento dell’emis­sione del decreto di acquisizione, la direzione degli atti d’indagine consentiva di ritenere che le utenze fossero riferibili a soggetti coperti da tutela costituzionale. L’Autrice sottolinea la coerenza della pronuncia della Corte di cassazione rispetto alla giurisprudenza espressasi, sull’argomento, in tema di intercettazioni telefoniche ed evidenzia le caratteristiche processuali, oltre che tecniche, della prova fornita dai tabulati telefonici.

 
Collection and analysis of telephone records concerning Members of Parliament: old questions of substantive law and new procedural querelles

According to for the Court of Cassation, failure on the part of the prosecuting judge to ask for authorization from Parliament for the acquisition of telephone records relating to appliances registered in the name of Members of Parliament or Senators is to be deemed as an abuse of office. The same applies to IT technical consultants who have elaborated the data. Besides these substantive issues, the judgment analysed here deals with new procedural que­stions connected to the use of telephone records.

I PRINCIPI DI DIRITTO SOSTANZIALE

L’ultima tappa di una lunga e complessa vicenda processuale (conosciuta dai più per la notorietà dei suoi protagonisti che, in questa sede, si preferisce non richiamare per non spostare l’attenzione dal dato giuridico a quello meta giuridico [1]) si conclude con un ripensamento della Corte di cassazione rispetto alla decisione assolutoria dei giudici di secondo grado in merito alla responsabilità per abuso d’ufficio di un p.m. e del suo c.t. informatico che, nell’acquisire i tabulati telefonici di utenze rivelatesi intestate a parlamentari senza avere richiesto l’autorizzazione alle Camere di appartenenza così come imposto dall’art. 4 della l. 20 giugno 2003, n. 140, avevano agito (secondo i giudici d’appello) senza l’intenzione né di violare una disposizione di legge né di cagionare un danno ingiusto.

La Corte di cassazione accoglie il ricorso delle parti civili e rigetta quello dell’imputato riconoscendo il difetto della motivazione impugnata posta la puntuale ricostruzione offerta dalla Corte d’Appello sulla conoscenza pregressa che p.m. e c.t. hanno avuto della appartenenza delle schede a soggetti coperti da guarentigie costituzionali (art. 68 Cost.). Non potendo rinviare al giudice penale per l’interve­nuta prescrizione del reato, la Corte rinvia al giudice civile «affinché accerti … se sussista l’elemento psicologico del reato in contestazione».

La querelle offre molti spunti di interesse, tanto da aver indotto la stessa Corte di cassazione a riassumere in plurime massime i principi di diritto cui è giunta.

Intanto, la motivazione si concentra sui profili di diritto sostanziale che, a primo acchito, sono quelli maggiormente coinvolti dal caso di specie.

Vengono additati i due elementi costitutivi della fattispecie del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), ossia la violazione della norme di legge (condotta) ed il danno ingiusto arrecato (evento). In entrambi i casi, la Corte non ha difficoltà a richiamare l’ampia e pacifica giurisprudenza di legittimità espressasi sul punto per, poi, adattarla al fatto contestato ai due imputati, che non ha precedenti nel panorama ermeneutico italiano.

Recuperando il concetto di “doppia ingiustizia” del reato d’abuso d’ufficio [2], i giudici ricordano in motivazione che per integrare la fattispecie in esame occorre dimostrare l’antigiuridicità sia della condotta della violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio di norme di legge o di regolamento che del danno ingiusto; e che tale concetto postula una distinta ed autonoma valutazione dei due elementi costitutivi.

Quanto al primo requisito, non si richiede che il danno derivi da una violazione normativa diversa da quella inficiante la condotta [3]. Quanto al danno ingiusto, si richiama l’ampia giurisprudenza di legittimità secondo cui è rilevante ai fini del reato di abuso d’ufficio anche il danno attinente la sfera dei diritti o anche solo degli interessi non patrimoniali di un soggetto, quali ad esempio la sfera della propria personalità per come tutelata dai principi costituzionali [4]. Ciò in particolare anche quando detta aggressione derivi dall’esercizio di poteri investigativi o coercitivi [5].

Particolare cura è stata messa in motivazione sulla descrizione dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 323 c.p. Non può configurarsi come dolo eventuale, essendo necessario che l’agente, nel momento in cui si attiva “contra legem”, abbia la consapevolezza dell’esistenza dei presupposti di fatto da cui dipende l’applicazione della norma trasgredita, in quanto la situazione di dubbio sulla correttezza della condotta è incompatibile con l’intenzione di procurare un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto [6].

Traslando i principi di diritto sostanziale sul fatto per cui si è proceduto, la Corte statuisce che «in tema di abuso d’ufficio, integrano il requisito della violazione di legge sia l’acquisizione sia la successiva elaborazione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze che, alla luce degli atti di indagine, risultano riferibili a deputati o senatori, in assenza della preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza di questi ultimi» [7]. In presenza di tali presupposti, il danno ingiusto è configurabile nella «lesione delle prerogative parlamentari» [8].

Entrando ancor più nello specifico, e valicando forse il perimetro della “legittimità”, la Corte puntualizza che la condotta contra ius va valutata sulla base del “momento” in cui l’autorità giudiziaria viene a conoscenza del ruolo pubblico ricoperto dagli intestatari delle schede telefoniche analizzate dal c.t. Come si vedrà meglio in seguito, la difficile collocazione temporale di tale “momento” all’interno della fase investigativa è agevolata da parametri elaborati dalla giurisprudenza in tema di intercettazioni telefoniche. Sulla base di questi parametri, puntualmente richiamati in motivazione, pare emergere che la Cassazione non condivida la soluzione della Corte d’Appello secondo cui la paternità sarebbe stata attribuibile solo dopo l’inizio delle attività tecniche condotte sui tabulati telefonici, ben potendo averla desunta sin dal principio sulla scia del quadro probatorio (soggetti, intercettazioni, intestatari di schede) entro il quale le indagini si stavano svolgendo.

In questa prospettiva, il p.m. avrebbe dovuto richiedere l’autorizzazione ancor prima di consentire al c.t. di indagare sulle comunicazioni intercorse tra i parlamentari incorrendo, non facendolo, nella violazione dell’art. 4 della l. n. 140/2003.

L’ARTICOLATO ITER PROCESSUALE

Da una prima lettura della motivazione sembra che la decisione tocchi soprattutto nodi critici di diritto sostanziale, sui quali peraltro la dottrina di settore si è già ampiamente espressa con una condivisione quasi unanime della necessità di dotare il reato di abuso d’ufficio della prova del dolo intenzionale e di configurare il danno ingiusto anche nella lesione delle prerogative parlamentari [9].

Meno evidenti, invece, ma altrettanto importanti, sono le questioni di tipo processuale emerse; questioni “di ultima generazione”, prodotte dall’ingresso dirompente del progresso tecnico e scientifico nell’accertamento del fatto di reato, che richiedono uno sforzo dell’interprete nell’inquadrarle tra le categorie classiche del diritto processuale penale. Su queste, si sceglie di fare alcune riflessioni.

Per comprendere appieno i molteplici risvolti della motivazione, è utile ricostruire brevemente l’in­tero procedimento penale dovendo soffermarsi anche sul “fatto” senza il quale l’analisi - soprattutto per i risvolti tecnico-scientifici - sarebbe monca.

Il processo penale al p.m. e al suo c.t. informatico si conclude in primo grado con la sentenza di condanna a carico di entrambi per essere stati ritenuti colpevoli di concorso in abuso d’ufficio relativamente all’acquisizione, elaborazione e trattamento dei tabulati delle utenze telefoniche in uso a otto parlamentari senza preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza.

Secondo la motivazione della sentenza dei giudici del Tribunale di Roma, tale condotta avrebbe arrecato agli stessi parlamentari un danno ingiusto consistente nella “conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni”. Le utenze telefoniche erano intestate a segretari, collaboratori e familiari dei parlamentari o a società ed enti pubblici a cui la procura era risalita attraverso le annotazioni contenute nelle agende - sia digitali che cartacee - del principale soggetto indagato nel famoso procedimento “Why Not”, ritenuto responsabile di un sistema illecito dedito all’indebita percezione e gestione di fondi pubblici in Calabria.

L’iniziale ipotesi accusatoria, accolta dai giudici di primo grado, era che i due imputati avessero avuto contezza dell’attribuibilità ai parlamentari delle utenze “tracciate” sin dal momento della richiesta dei tabulati ai gestori telefonici; così facendo, «avevano proceduto all’acquisizione del materiale pur essendo consapevoli dell’inutilizzabilità processuale di tali risultanze investigative» e, pertanto, avevano perpetrato con dolo intenzionale la scelta di rendere noto il traffico telefonico contenuto nei tabulati determinandone un danno ingiusto a carico dei parlamentari.

In particolare, si evince dalla motivazione della sentenza di primo grado che il consulente tecnico - al momento di conferimento dell’incarico da parte del p.m. - avesse preso in consegna l’agenda e i cellulari sequestrati all’indagato; da questi avesse estratto le utenze telefoniche segnalando successivamente al p.m., con specifiche relazioni, i tabulati da acquisire. L’acquisizione era stata disposta senza preventiva richiesta autorizzativa alla Camera o al Senato, pur essendo facilmente intuibile (sulla scorta di documentazioni fornite dalla difesa delle parti civili) che le utenze telefoniche su cui si stava indagando fossero collegate a parlamentari.

La Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione di condanna, assolve i due imputati dai reati di abuso di ufficio perché il fatto non costituisce reato, con caducazione delle statuizioni in favore delle parti civili. Più precisamente, non ritiene configurabile la prova del dolo intenzionale posto che l’autori­tà giudiziaria non ha avuto piena consapevolezza della riconducibilità delle utenze a deputati e senatori. Si osserva, ad esempio, che alcune schede anagrafiche relative agli intestatari delle utenze non fossero ancora pervenute al momento della richiesta dei tabulati telefonici, che le intestazioni conosciute o conoscibili delle utenze non fossero comunque «compiutamente riferibili a soggetti coperti da guarentigie costituzionali» e, infine, che l’individuazione dei soggetti da approfondire fosse stata determinata proprio dall’interrogazione del sistema TESEO effettuata dal consulente tecnico (sistema di analisi dei tracciati telefonici, programmato in via originale dal consulente tecnico e non in uso nei reparti specializzati della polizia giudiziaria).

La sentenza d’appello non esclude che le indagini furono condotte «accettando consapevolmente il rischio che ... le utenze ... fossero effettivamente in uso a soggetti tutelati dalla guarentigie parlamentari e che l’elaborazione degli stessi dati avrebbe potenzialmente comportato per i parlamentari coinvolti un danno ingiusto». Tuttavia, esclude ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, la sufficienza del dolo eventuale in ordine alla violazione di legge.

La sentenza di seconda istanza viene impugnata sia da alcune delle parti civili che da uno dei due imputati (il consulente tecnico). Le prime, con ricorsi pressoché analoghi, lamentano la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., con riferimento all’affermata insussistenza della fattispecie di abuso di ufficio. Ciascuno per il suo, elenca un nutrito numero di elementi probatori - esposti già nella sentenza di primo grado - dai quali desumere la consapevolezza degli imputati in ordine alla riferibilità delle singole utenze ai parlamentari impugnanti.

Il ricorso dell’imputato, articolato in tre motivi originari e in motivi aggiunti, può riassumersi nel dolersi del rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato, dell’eccezione di incompetenza territoriale, e infine nell’essere stato assolto da tutti i capi d’imputazione in grado d’ap­pello con la formula meno favorevole de “il fatto non costituisce reato” anziché “il fatto non sussiste”. Il ricorrente riscontra, in tutti i casi, la mancanza dell’elemento psicologico dell’operare contra ius «e, conseguentemente, della coscienza e volontà di arrecare un danno ingiusto alle persone offese» incidendo sulla mancanza dell’elemento materiale del reato di abuso d’ufficio, così come strutturato a seguito della novella legislativa del 1997 [10].

La sesta sezione della Corte di Cassazione ammette tutti i ricorsi, con una specifica motivazione sulla sussistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile dell’imputato (assolto in secondo grado), il quale «contesta una sentenza il cui esito assolutorio è determinato esclusivamente dalla affermata insussistenza dell’elemento psicologico e che, avendo ritenuto accertato il fatto di un comportamento commesso in violazione di legge e produttivo di un danno ingiusto, potrebbe determinare in suo danno conseguenze negative» in futuri processi civili, amministrativi o disciplinari [11].

Non si può non approcciarsi alle singole decisioni della Corte senza spiegare - sotto il profilo tecnico e per quanto desumibile dalla lettura delle sole motivazioni - che il consulente tecnico in occasione dell’incarico di consulenza aveva preso in consegna l’agenda cartacea ed i telefonini sequestrati all’im­putato. Dall’ispezione informatica effettuata, il c.t. aveva acquisito un elenco di utenze ritenuti utili alle indagini (circa 2000) formulando richiesta al p.m. di ottenimento dei tabulati telefonici di 167 utenze e 14 apparati IMEI, puntualmente inoltrata ai gestori telefonici. I tabulati, poi, sono stati inseriti dal c.t. in un programma di sua ideazione, c.d. sistema TESEO, col quale sono stati verificati gli “incroci” telefonici tra le varie utenze. Dalle motivazioni del Tribunale di Roma, si evince che tanto nelle prime richieste del c.t. quanto nello scambio di conversazioni telematiche con il p.m., entrambi fossero già in grado di attribuire le utenze a personalità politiche per le quali sarebbe stato necessario richiedere l’autorizza­zione alle Camere di appartenenza.

LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO A TUTELA DELLE PREROGATIVE COSTITUZIONALI DEI MEMBRI DEL PARLAMENTO

Se la sentenza in esame rappresenta una novità sul fronte della contestazione del reato di abuso d’uf­ficio per mancata richiesta di autorizzazione ad acta in danno di membri delle Camere, il tema più ampio delle intercettazioni a carico di parlamentari è stato esaminato più volte dalla Corte e dalla dottrina, tanto che - allo stato - può dirsi che sussistono alcuni punti fermi dai quali neanche il procedimento in esame sembra discostarsi.

In attuazione dell’art. 68 Cost., così come modificato dalla l. cost. 29 ottobre 1993, n. 3 [12], gli artt. 4 e 6 della l. n. 140/2003, prevedono rispettivamente un’autorizzazione preventiva, da richiedersi «quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento (…) intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni» (art. 4), ed un’autorizzazione successiva quando si versi «fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 4» e si «ritenga necessario utilizzare le registrazioni formate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento» (art. 6, commi 1 e 2).

La magmaticità delle due previsioni, incomplete rispetto al caso in cui le intercettazioni riguardino un parlamentare non immediatamente identificato, è stato risolta dalla Corte costituzionale nel 2007 nel senso di assegnare all’alveo dell’art. 4 le intercettazioni dirette ed indirette, ossia quelle che hanno di mira il parlamentare, indipendentemente sia dalla immeditata ed univoca attribuibilità allo stesso delle utenze indagate che dalla titolarità del procedimento penale in cui le intercettazioni sono chieste. L’art. 6, invece, copre le cc.dd. “intercettazioni casuali”, ossia quelle in cui la presenza del parlamentare è del tutto imprevedibile [13].

Relativamente all’art. 4, la Corte costituzionale precisa che il criterio discretivo tra le due norme è dato dalla c.d. “direzione dell’atto d’indagine” che, nel primo caso, induce a prevedere la presenza del parlamentare nel flusso di comunicazioni.

Purtroppo, sin da subito la chiarificazione ermeneutica ha destato dubbi [14], vista la difficoltà nella pratica di distinguere agevolmente la prima situazione dalla seconda e riuscire a provare se e quando il p.m. o il giudice acquistino contezza della futura presenza di un parlamentare tra i soggetti captati. Il problema non è di poco conto; non solo per comprendere quale tipo di autorizzazione richiedere, se preventiva o successiva, ma anche per dimostrare un eventuale abuso d’ufficio, come nel caso in esame.

Nel 2010, con due pronunce successive, la Corte costituzionale declina, almeno a titolo esemplificativo, un elenco di indici sintomatici al fine di individuare l’una o l’altra ipotesi. Richiede che si tenga conto del numero delle conversazioni avvenute tra il parlamentare ed il soggetto “terzo”, dei rapporti intercorrenti tra loro (da collegare al tipo di reato per cui si procede), dell’arco di tempo nel quale è avvenuta la captazione così come di eventuali proroghe, anche in relazione al sorgere degli indizi a carico del parlamentare. Se la verifica di questi elementi dovesse far accrescere la prospettiva di un coinvolgimento del parlamentare nel flusso di comunicazioni intercettate, la captazione diverrebbe “mirata”, cioè non causale, e richiederebbe l’applicazione dell’art. 4 (C. cost. n. 114). Qualora, invece, tale prospettiva dovesse emergere solo successivamente, anche nelle stesse intercettazioni effettuate, non si potrebbe escludere che, dopo l’inizio delle intercettazioni nei confronti di terzi, vi possa essere stato nell’attività investigativa un mutamento di obiettivi, tali da trasformare le captazioni da causali a mirate (C. cost. n. 113) [15].

Al di là dei dubbi sollevati in dottrina [16] sulla utilità di siffatti criteri a costituire la trama dell’ideale setaccio con cui dovrebbero separarsi le captazioni fortuite da quelle indirette, e sui quali non si ritiene di poter soffermarsi per esigenze di economia espositiva, rimane un punto fermo [17]. Per ravvisare la violazione di legge, gli inquirenti sono chiamati a dimostrare sulla base degli atti d’indagine che dalle captazioni effettuate nell’entourage del parlamentare non si potesse occultare il suo coinvolgimento. Secondo la Corte di cassazione, tale punto continua a rimanere fermo anche nel caso al nostro esame.

I TABULATI TELEFONICI: PECULIARITÀ PROCESSUALI

Come detto ormai più volte, la vicenda in commento non si discosta dalla giurisprudenza espressasi sino ad ora su questa tematica. In motivazione, la Suprema Corte è molto chiara nel precisare che «la garanzia prevista dall’art. 4 l. n. 140/2003 trova il suo fondamento nell’art. 68, comma 3, Cost., ed è funzionale alla tutela dell’autonoma esplicazione dell’attività istituzionale del parlamentare da indebite invadenze del potere giudiziario e, pertanto, ai fini della sua operatività, ciò che rileva non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza monitorata, quanto piuttosto la circostanza che l’atto di indagine sia volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposto a controllo appartengano a terzi» [18].

Al di là del presupposto c.d. soggettivo, però, la vicenda in esame presenta profili di novità rispetto alle precedenti decisioni sul tema.

Intanto, è di tutta evidenza che l’abuso abbia ad oggetto non l’uso delle intercettazioni di comunicazioni bensì l’acquisizione dei tabulati telefonici [19], ossia documenti ottenuti dai gestori di telefonia, in forma intellegibile, relativi ai flussi informatici dei dati esterni al contenuto delle comunicazioni telefoniche [20]. L’art. 4 della l. n. 140/2003, li contempla esplicitamente nel novero degli atti per cui è necessario acquisire l’autorizzazione: «Quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento perquisizioni personali o domiciliari, ispezioni personali, intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, sequestri di corrispondenza, o acquisire tabulati di comunicazioni, ovvero, quando occorre procedere al fermo, all’esecuzione di una misura cautelare personale coercitiva o interdittiva ovvero all’esecuzione dell’accompagnamento coattivo, nonché di misure di sicurezza o di prevenzione aventi natura personale e di ogni altro provvedimento privativo della libertà personale, l’autorità competente richiede direttamente l’autorizzazione della Camera alla quale il soggetto appartiene».

Facendo una doverosa incursione nel mondo della digital forensics, la Suprema Corte amplifica ancor di più la omogeneità della disciplina offerta dall’art. 4, arrivando a specificare quali siano, per i tabulati telefonici, le attività tecniche coperte da tutela. In via del tutto originale, ed apprezzabile, afferma che: «in tema di abuso d’ufficio, integrano il requisito della violazione di legge sia l’acquisizione, sia la successiva elaborazione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze che, alla luce degli atti di indagine esistenti al momento del provvedimento, risultano riferibili a deputati o senatori, in assenza della preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza di questi ultimi» [21]. Aver ricompreso nelle attività legate ai tabulati telefonici per le quali è necessaria l’autorizzazione del Parlamento tutte le operazioni previste nella c.d. catena di gestione dei dati telefonici (dalla acquisizione alla successiva elaborazione ed analisi) consente di massimizzare la tutela costituzionale accordata dalla l. n. 140/2003, evitando di limitare l’interesse del legislatore al momento iniziale di appropriazione dei dati, la cui invasività nella privacy del parlamentare non è maggiore rispetto all’esame - elettronico e non - degli stessi dati; esame all’interno del quale quasi sempre (come nel caso di specie) si nascondono le vere insidie probatorie, in termini di informazioni ottenibili. In altri termini, bene ha fatto la Corte a sottolineare per i tabulati telefonici la necessità di una valutazione olistica delle attività esperibili nel­l’ambito di una stessa prova tecnico-scientifica che, sempre più spesso, si compone di operazioni plurime e successive che vanno dal repertamento del dato o della traccia alla sua valutazione in laboratorio [22].

A proposito del confronto con le intercettazioni telefoniche a carico di parlamentari, sovvengo altre considerazioni. Per un verso, nel caso dei tabulati telefonici, è meno difficile che l’autorità giudiziaria incorra in un atto in cui la presenza del parlamentare sia casuale e fortuita in ragione della cospicua mole di informazioni che un tabulato contiene. Tale mole aumenta esponenzialmente la possibilità (nonché la prevedibilità) che, nelle maglie dei dati telefonici su cui si investiga, entri anche un soggetto coperto da garanzie costituzionali. Per altro verso, è più alto il rischio di abusi da parte di chi indaga poiché la richiesta di tabulati telefonici non impone l’intervento autorizzativo del giudice ma la sola istanza motivata del pubblico ministero [23]. La mancanza di un corredo garantista come quello previsto per le intercettazioni dagli artt. 266 ss. c.p.p. impedisce, di fatto, un “doppio controllo” (p.m. e giudice) sulla natura mirata o casuale del materiale investigativo richiesto [24]. Peraltro, il comma 2 dell’art. 4 l. n. 140/2003, non impone che l’autorizzazione alle Camere sia richiesta dal giudice, bensì dalla «autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire».

Si ricordi che la stessa giurisprudenza di legittimità consente che la motivazione del decreto con cui il p.m. fa richiesta dei tabulati telefonici, «stante il modesto livello di intrusione nella sfera di riservatezza delle persone, può essere soddisfatto anche con espressioni sintetiche, nelle quali si sottolinei la necessità dell’investigazione, in relazione al proseguimento delle indagini ovvero all’individuazione dei soggetti coinvolti nel reato, o si richiamino, con espressione indicativa della loro condivisione da parte dell’autorità giudiziaria, le ragioni esposte da quella di polizia» [25].

Venendo ad altra questione processuale, la Corte condivide il rigetto da parte del Tribunale di Roma della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato ad una delle udienze del processo, nonostante sia stato documentato un impegno nello stesso giorno come consulente del p.m. davanti ad altro Tribunale. L’imputato, peraltro, richiama il reato di “Rifiuto di uffici legalmente dovuti” (art. 366 c.p.) in cui sarebbe incorso non presenziando al procedimento nella veste di consulente tecnico.

La posizione dei giudici di legittimità sul punto è categorica [26]. Tra i due impegni processuali, come consulente tecnico e imputato, «non può non ritenersi prevalente l’impegno di quest’ultimo a presenziare al processo a suo carico … né può essere rimessa alla volontà dell’imputato la decisione su quale dei due processi debba avere la precedenza, trattandosi di scelta che attiene all’interesse sopraindividuale della ordinaria amministrazione della giustizia. Il richiamo all’art. 366 c.p. risulta inappropriato perché la previsione incriminatrice non è applicabile se il rifiuto è dovuto ad impedimenti legittimi» [27].

La questione offre spunti di originalità, non essendo mai stata sollevata in seno alla Corte di cassazione. Nel caso di specie, la legittimità dell’impedimento sarebbe riferita, secondo la prospettiva del­l’imputato, all’impegno concorrente e non compatibile dell’esame in altro procedimento in qualità di consulente tecnico; impegno ritenuto, perciò, ostativo sotto il profilo sia materiale che giuridico tanto da far richiamare l’ipotetico reato di Rifiuto di uffici legalmente dovuti.

Si ha ragione di condividere la posizione dei giudici di legittimità. Tutte le volte in cui la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto dell’imputato di non comparire all’udienza, determinando la sospensione del procedimento, le situazioni legittimanti sono state ricollegate al riconoscimento di una evidente e irreparabile lesione del suo diritto di essere presente lì dove minato da condizioni «effettive, assolute e legittime» [28] capaci di inficiare la piena esplicazione delle guarentigie difensive [29]. Tali condizioni sono state declinate in vario modo dalla Cassazione, come nel caso di contemporanea citazione davanti a più autorità giudiziarie [30], nell’ipotesi di detenzione [31]o di malattia [32]. A tale ultimo proposito, la stessa Corte in commento rigetta la seconda ipotesi di legittimo impedimento addotta dall’imputato statuendo che «non costituisce legittimo ed assoluto impedimento a partecipare al processo la necessità dell’im­putato di sottoporsi ad un accertamento medico certificato come indifferibile a causa delle esigenze organizzative della struttura sanitaria presso cui deve essere eseguito e non in ragione delle specifiche ed impellenti condizioni di salute del medesimo» [33].

Se è condivisibile la soluzione cui approda la Cassazione, non altrettanto può dirsi per la motivazione addotta nella quale si invoca il prevalente interesse dell’«ordinaria amministrazione della giustizia». Tale interesse, al pari di quello (volendo, anche più “forte”) del buon andamento della giustizia”, è pur sempre un valore di rango costituzionale ma soccombente rispetto a quello insito nel diritto di difesa. Come già ampiamente ribadito [34], la giurisdizione è il luogo di affermazione dei diritti dei singoli e delle pretese di tutela di beni protetti dalla Costituzione, non il luogo nel quale possono entrare in gioco esigenze organizzative e finanziarie. Bene, perciò, avrebbe fatto la Corte a evidenziare il prevalente diritto di difesa, che nel caso di specie non subisce alcuna lesione per la scelta dell’imputato-consulente tecnico di svolgere il proprio incarico professionale e di non presenziare al “suo” processo. La concomitante funzione di testimone esperto non integra, in altri termini, una condizione che è tale da inficiare la sua consapevole ed attiva partecipazione alla vicenda giudiziaria e, più in generale, l’esercizio dei suoi diritti processuali [35].

La Corte viene investita anche della individuazione della competenza per territorio.

Secondo l’imputato, il criterio di individuazione per il reato di abuso d’ufficio relativo alla mancata richiesta di autorizzazione di tabulati telefonici collegati a parlamentari potrebbe legarsi al locus commissi delicti della sede in cui i primi dati telefonici sono stati richiesti ed elaborati (sede Vofafone di Pozzuoli) o, in subordine, al luogo in cui gli stessi sono stati ricevuti e gestiti (“scaricati”, dice la motivazione) dal consulente tecnico nel suo studio privato di Palermo.

In riferimento alla asserita competenza del Tribunale di Napoli, si è escluso di dare valore ad un elemento, quello della richiesta inoltrata al gestore di telefonia di Pozzuoli, che è emerso solo nel corso del dibattimento. La Corte, richiamando il principio di perpetuatio iuridictionis, collega il criterio territoriale di competenza a quello individuato ex ante, sulla scorta degli elementi disponibili al momento delle cadenze normativamente prefissate per la proponibilità dell’eccezione [36]. Ma, al di là di tale rilievo processuale, ritiene ultroneo il richiamo alla sede del gestore telefonico presso cui i dati sono conservati, posto che la conoscibilità degli stessi - determinante ai fini della consumazione del reato - avviene «attraverso la decrittazione di essi mediante l’uso della relativa password», e quindi non nella sede stessa del gestore.

Quanto alla richiamata competenza del Tribunale di Palermo, la Corte esclude di poter individuare il luogo di commissione del reato nello studio del c.t. evidenziando «che il collegamento al server della posta elettronica alla quale sono pervenuti i dati, poteva essere avvenuto da qualsiasi terminale, e quindi da qualsiasi ubicazione».

Pur condividendo la conclusione cui perviene la Corte, si ritengono inopportune le riflessioni addotte. Anche in questo caso, la Corte fa incursione nelle conoscenze di Digital forensics, suggestionata probabilmente dalla presenza di una prova tecnica (quale, appunto, i tabulati telefonici) per la quale occorre impiegare strumenti d’indagine informatica al fine di repertare i dati contenuti in apparati telefonici, elaborarne i risultati in sistemi elettronici che mettono a confronto i dati di traffico per ottenere la prova relativa alla frequenza dei contatti e degli incroci di comunicazioni avvenuti tra le diverse utenze indagate.

Tuttavia, stavolta il dato tecnico pare avere indotto in errore i giudici di legittimità, spingendoli a cercare il forum commissi delicti sulla base di regole e parametri diversi da quelli tradizionali. S’intende dire che, nel caso di specie, il locus di consumazione del reato, richiesto dal primo comma dell’art. 8 c.p.p. per la individuazione della competenza per territorio, non subisce “smaterializzazioni” a causa delle modalità digitali di acquisizione dell’oggetto della condotta penalmente rilevante e, di conseguenza, non richiede l’adozione di criteri diversi da quelli che si applicherebbero a tutti i reati di evento. Non si è al cospetto di un illecito commesso a mezzo di Internet, né tanto meno di un reato di evento, come la diffamazione sul web, che si consuma sul web e per il quale è difficile comprendere quale sia il momento ed il luogo di consumazione del reato.

In questo caso, tale luogo non può che essere individuato lì dove si è violata la norma e si è arrecato il danno ingiusto [37], ossia si è lesa la sfera di prerogative attribuite dalla Costituzione al parlamentare, non come singolo, ma quale membro del Parlamento. In un caso e nell’altro, il forum commissi delicti non può che essere Roma, sede istituzionale cui il p.m. avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione e sede di residenza istituzionale dei parlamentari.

 

 

[1] Il concetto di dato metagiuridico al quale ci si richiama è quello offerto da H. Kelsen, Dottrina generale dello Stato, Milano, Giuffrè, 2013, p. 142, secondo il quale «è quel dato che si colloca, in modo ad esso specifico, al di là del diritto e rispetto al quale il diritto viene in questione solo come un mezzo».

[2] Di recente, Cass., sez. VI, 18 marzo 2016, n. 17676, in CED Cass., n. 267171; Cass., sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13426, ivi, n. 267271; Cass., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 48913, ivi, n. 265473.

[3] Nello specifico, «il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale o logico-sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno "svolgimento della funzione o del servizio" che oltrepassi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio; tuttavia, deve escludersi la sussistenza del reato qualora si sia in presenza di un quadro normativo disorganico e suscettibile di contrapposte letture interpretative, che impedisca di individuare con certezza una condotta violativa del contenuto precettivo di una precisa disposizione di legge o di regolamento», così Cass., sez. VI, 13 marzo 2014, n. 32237, in CED Cass., n. 260428.

[4] Cass., sez. VI, 7 luglio 2016, n. 39452, in CED Cass., n. 268222; Cass., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 32023, ivi, n. 261899.

[5] Cass., sez. VI, 26 giugno 2003, n. 35127, in CED Cass., n. 2266548. In un’occasione, Cass., sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 729, ivi, n. 228269, il danno ingiusto è stato individuato nell’impedimento all’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi al fine dell’eventuale esperimento di iniziative a tutela degli interessi di un candidato ad un incarico dirigenziale nella Pubblica Amministrazione.

[6] Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268425. Sul dolo intenzionale in tema di abuso d’ufficio, la giurisprudenza è plurima. V., tra le altre, Cass., sez. VI, 15 aprile 2014, n. 36179, ivi, n. 260233. Sulla prova del dolo intenzionale in tema di abuso d’ufficio, che può «essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l’evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell’agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l’intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge», Cass., sez. III, 6 aprile 2016, n. 35577, ivi, n. 267633.

[7] Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268422.

[8] Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268424.

[9] Di recente e per tutti, A. Gustapane, L’abuso d’ufficio: tra principi costituzionali e indirizzi giurisprudenziali, Bologna, Bononia University Press, 2015. Sullo specifico caso in esame, A. De Vita, Il caso “De Magistris -Why not”: non convince la configurazione del dolo intenzionale, in Diritto penale contemporaneo; R. Padolesi, Abuso di poteri e violazione dei doveri d’ufficio, abuso d’ufficio, fattispecie in tema di diritto di accesso di componenti del Csm, in Foro it., 2016, 11, pt. 2, p. 622 s.

[10] In dottrina, S. Seminara, Il nuovo delitto d’abuso d’ufficio, in Studium iuris, 1997, p. 1258 ss.

[11] Cass., sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 34598, in CED Cass., n. 262393; Cass., sez. IV, 4 novembre 2016, n. 23444, ivi, n. 261178.

[12] Per tutti, M. Montagna, Autorizzazione a procedere e autorizzazione ac acta, Padova, Cedam, 1999, p. 203 ss.; D. Negri, Procedimento a carico dei parlamentari, in R. Orlandi-A. Pugiotto (a cura di), Immunità politiche e giustizia penale, Torino, Giappichelli, 2005, p. 422 ss.

[13] C. cost., sent. 23 novembre 2007, n. 390. Vedine i commenti di G. Giostra, La disciplina delle intercettazioni fortuite del parlamentare è ormai una dead rule walking, in Cass. pen., 2008, p. 63 ss.; V. Grevi, Sui limiti di utilizzabilità delle intercettazioni “indirette” (casuali e non casuali) operate nei confronti di un membro del Parlamento, in Giur. cost., 2007, p. 4394 ss.; C. Martinelli, Intercettazioni “casuali” dei parlamentari; la Corte costituzionale annulla l’obbligo di distruzione integrale del loro contenuto, in Studium Iuris, 2008, p. 653 ss.

[14] Tra gli altri, I. Calamandrei, Le intercettazioni dei parlamentari, in Giust. pen., 2006, I, p. 230 ss.; D. Negri, Intonazioni lontane dalla sentenza capostipite, nella coppia di pronunce con cui la Corte costituzionale riprende il tema delle intercettazioni indirette relative a parlamentari, in Giur. cost., 2010, p. 2706 ss.

[15] C. cost., sentt. 25 marzo 2010, nn. 113 e 114. Leggine il commento di L. Filippi, La Consulta distingue tra intercettazioni fortuite e mirate nei confronti di parlamentare e ammonisce contro le motivazioni “implausibili”, in Giur. cost., 2010, p. 1270 ss.

[16] Sui possibili correttivi, C. Cesari, Un nuovo fronte problematico delle intercettazioni indirette nei confronti di parlamentari: le ambiguità irrisolte dalla l. n. 140 del 2003 all’esame della Corte di cassazione, in Cass. pen., 2011, p. 954 ss.

[17] Altro punto fermo è dato dall’insormontabile problema di risolvere la perplessità di fondo legata alla considerazione che una autorizzazione preventiva collida con la natura “a sorpresa” dell’atto intercettivo e, molto probabilmente, favorisca prassi abusive come quelle in commento. Già prima della riforma, in questo senso, G. Zagrebelsky, La riforma dell’autorizzazione a procedere, in Corr. giur., 1994, p. 281 ss. Ma anche V. Grevi, Prove, in G. Conso-V. Grevi (a cura di), Compendio di procedura penale, III ed., Padova, Cedam, 2006, p. 366 ss.

[18] Leggine il principio in Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, ivi, n. 268422.

[19] Più approfonditamente, F.R. Dinacci, Localizzazione mediante celle telefoniche, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, Torino, Giappichelli, 2014, p. 378. Meno di recente, L. Filippi, Il revirement delle Sezioni unite sul tabulato telefonico: un’occasione mancata per riconoscere una prova incostituzionale, in Cass. pen., 2000, p. 3246 ss.; G. Melillo, L’acquisizione dei tabulati telefonici relativi al traffico telefonico fra limiti normativi ed equivoci giurisprudenzialiivi, 1999, p. 473 ss.

[20] Cass., sez. un., 13 luglio 1998, in CED Cass., n. 211197.

[21] Leggine il principio sempre in Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, cit.

[22] Più ampiamente, volendo, D. Curtotti, Rilievi e accertamenti tecnici, Padova, Cedam, 2013, p. 45 ss.; nonché D. Curtotti Nappi, L. Saravo, L’approccio multidisciplinare nella gestione della scena del crimine, in Dir. pen. proc., 2012, p. 878 ss.; D. Curtotti Nappi, L. Saravo, G. Spangher, S. Lorusso, A standardized approach to crime scene in Italy, in 19th World Meeting of the International Association of Forensic Sciences, 2011; D. Curtotti Nappi, L. Saravo, Il volo di Icaro delle investigazioni sulla scena del crimine: il ruolo della polizia giudiziaria, in C. Conti (a cura di), Le scienze e il processo penale, Milano, Giuffrè, 2011, p. 217 ss.

[23] Sulla diversità delle discipline che rispettivamente regolano i due istituti, nonché dei diversi elementi di conoscenza alla cui acquisizione sono rispettivamente finalizzati e delle differenti esigenze investigative che mirano a soddisfare, tali da non esigere la specifica garanzia dell’autorizzazione giurisdizionale, prevista per l’intercettazione del contenuto di conversazioni, C. cost., sentt. n. 81/1993 e n. 281/1998.

[24] Sull’inapplicabilità degli artt. 266 ss. c.p.p. alla acquisizione dei tabulati telefonici, Cass., sez. I, 26 settembre 2007, n. 46086, in CED Cass., n. 238170.

[25] Cass., sez. I, 28 aprile 2014, n. 37212, in CED Cass., n. 260589. Più significativamente, Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 6, ivi, n. 215841: «Ai fini dell’acquisizione dei tabulati contenenti i dati esterni identificativi delle comunicazioni telefoniche conservati in archivi informatici dal gestore del servizio è sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria». Vedine il commento di L. Filippi, Il revirement delle Sezioni unite, cit., p. 3246 ss.

Sulla necessità della motivazione, Cass., sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, in CED Cass., n. 234356: «La sanzione dell’inutiliz­zabilità, che segue all’acquisizione dei tabulati concernenti il traffico telefonico in assenza di un provvedimento motivato del­l’autorità giudiziaria, colpisce non il fatto come rappresentazione della realtà in essi documentata, ma la metodologia di acquisizione di tali atti». In senso diverso, Cass., sez. IV, 24 febbraio 2005, n. 20558, ivi, n. 231920: «Dalla violazione del dovere di motivazione deriva piuttosto, a mente dell’art. 125 cod. proc. pen., la nullità del provvedimento di acquisizione, la quale, non presentando carattere assoluto, deve essere dedotta prima della pronuncia della sentenza di primo grado».

[26] Leggila anche in Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268420.

[27] Cass., sez. VI, 19 novembre 2010, n. 45659, in CED Cass., n. 249034.

[28] Così si è espressa Cass., sez. III, 15 febbraio 2015, n. 10482, in CED Cass., n. 266494.

[29] Su tutti, A. Ziroldi, Udienza preliminare: preparazione e svolgimento, G. Spangher (diretto da), Trattato di procedura penale, III, G. Garuti (a cura di), Indagini preliminari e udienza preliminare, 2009, p. 898.

[30] Cfr. Cass., sez. VI, 19 febbraio 2009, n. 14207, in CED Cass., n. 243575.

[31] Da ultimo e per tutti, Cass., sez. II, 10 febbraio 2016, n. 8098, in CED Cass., n. 266217: «La detenzione dell’imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico alcun onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento». V. altresì, tra gli altri, Cass., sez. VI, 14 novembre 2014, n. 47594, ivi, n. 26172.

[32] Cass., sez. II, 3 giugno 2016, n. 26263, in CED Cass., n. 267156; Cass., sez. IV, 4 giugno 2015, n. 34301, ivi, n. 264411.

In dottrina, E. Mariucci, L’infermità psico-fisica che integra il “legittimo impedimento” dell’imputato a comparire in udienza, in questa Rivista, 2012, 5, p. 72 ss.

[33] Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268421.

[34] Si veda G. Leo, La Consulta sulla disciplina dell’impedimento a comparire, di durata non determinabile, che discenda da patologie fisiche dell’imputato, in Dir. pen. cont.

[35] Sul legittimo impedimento per concomitanti impegni istituzionali, interessanti le riflessioni di E. Turco, Legittimo impedimento per “motivi istituzionali” e rispetto del principio bidirezionale di leale collaborazione tra i poteri dello stato, in questa Rivista, 2014, 1, p. 65 ss.

[36] Cass., sez. IV, 12 dicembre 2012, n. 14699, in CED Cass., n. 255498, e Cass., sez. II, 26 marzo 2010, n. 24736, ivi, n. 247745.

[37] In questo senso, Cass., sez. VI, 26 marzo 2015, n. 28117, in CED Cass., n. 263929, nonché Cass., sez. III, 2 aprile 2014, n. 30265, ivi, n. 260236. In entrambe le decisioni il principio in massima è il seguente: «Il momento consumativo del reato di abuso di ufficio da cui decorre il termine di prescrizione coincide, per la sua natura di reato di evento, con la data di avvenuto conseguimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o con la produzione ad altri di un danno ingiusto».