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La specificità estrinseca dei motivi di appello come requisito di ammissibilità dell'appello: la fine del favor impugnationis

di Antonino Pulvirenti

L’autore, ricostruita la fattispecie concreta che ha portato all’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite e dopo aver esposto serie perplessità in ordine alla sussistenza dei requisiti giustificativi di tale scelta, esamina il nucleo principale del ragionamento con il quale la sentenza, pur riconoscendo l’esistenza di una “tensione” concettuale tra gli articoli 581 e 597 c.p.p., aderisce all’orientamento secondo cui il requisito di specificità estrinseca dei motivi di impugnazione non vale solo per il ricorso in cassazione, ma anche per l’appello. Sebbene la suddetta conclusione appaia coerente con l’esigenza di attribuire all’appello una struttura compatibile con il modello accusatorio, il percorso interpretativo tracciato dalle Sezioni unite svela, ancora una volta, la tendenza di quest’ultima a sostituirsi al legislatore. Infine, l’Au­tore, nel rimarcare alcune affermazioni della sentenza idonee a delimitarne la portata (in particolare, la necessità di correlare la specificità richiesta all’atto di appello al tasso di determinatezza della motivazione della decisione impugnata), segnala la concreta possibilità che il principio di diritto elaborato dalle Sezioni unite s’inserisca in un più ampio disegno giurisprudenziale, volto a ridurre fortemente l’ambito di operatività del giudizio di secondo grado.

 
The extrinsic specificity of the grounds as the admissibility requirement of the appeal: the end of favor impugnationis

The author, reconstructed the concrete case that led to the assignment of the recourse to the Plenary Court of Cassation and expressed serious doubts regard to the existence of the justificatory requirements of that choice, he examines the main reasoning through which the judgment, while acknowledging the existence of a conceptual “tension” between Articles 581 and 597 cpp, adheres to the orientation that the requirement of extrinsic specificity of the grounds of appeal applies not only to the application in cassation but also to the appeal. Although this conclusion appears to be coherent with the need to attribute to the appeal a structure compatible with the accusatory model, the interpretative path traced by the Plenary Court reveals once again the tendency of the latter to replace the legislator. Lastly, the author, pointing out certain statements of the judgment capable of delimiting its scope (in particular, the need to correlate the specificity required by the appeal with the rate of determination of the grounds of the contested decision), emphasizes the fact that the principle of law produced by the Plenary Court enters into a wider jurisprudential project aimed at greatly reducing the applicability range of the second instance judgment.

LA FUNZIONE “LEGISLATIVA” DELLE SEZIONI UNITE

Con la sentenza che ci accingiamo a commentare [1] le Sezioni unite hanno risolto una questione che perdurava da troppo tempo [2] e non è da escludere che proprio il fattore tempo abbia avuto un ruolo determinante nella decisione di assegnare il ricorso al massimo organo della nomofilachia. Ripercorrendo la fattispecie processuale oggetto della sentenza, invero, si ha la nitida sensazione che il ricorso proposto dalla difesa dell’imputato non avesse i requisiti minimi per approdare ad una sezione diversa dalla settima, posto che la Cassazione avrebbe potuto rilevare una inammissibilità già maturata in sede di appello per ragioni diverse e autonome da quelle oggetto della questione di diritto approdata alle Sezioni unite [3]. Dagli stessi dati che la sentenza espone è possibile ricavare le doglianze originariamente inserite nell’atto di appello e successivamente reiterate nel ricorso in cassazione: esse attengono alla mancata applicazione nel giudizio di primo grado di provvedimenti (concessione delle attenuanti generiche e giudizio di prevalenza o equivalenza delle stesse sulle contestati aggravanti) che in realtà il giudice di prima istanza aveva puntualmente applicato. Vi erano quindi gli estremi per ritenere che l’impugnazione, al di là della questione processuale inerente alla possibilità di riferire l’aspecificità estrinseca dei motivi anche al giudizio di appello, fosse inammissibile in quanto espressamente volta a perseguire un esito perfettamente sovrapponibile a quello contestato. Inoltre, anche a voler ignorare tale aspetto, sarebbe stato agevole ritenere la questione processuale assorbita dall’esistenza di un ulteriore profilo di inammissibilità, anch’esso riconducibile alla genericità intrinseca dei motivi posti, prima dall’appellante e poi dal ricorrente, a supporto delle proprie pseudo-doglianze, giacché, sempre in base ai dati riportati dalla sentenza annotata, non si riescono ad individuare le ragioni in diritto e in fatto che sarebbero state pretermesse dal giudice di primo grado e si ha, piuttosto, la percezione di trovarsi dinanzi ad atti di impugnazione intrisi di mere clausole di stile e formule assertive a scopo meramente dilatorio. Non può dunque escludersi che i giudici di legittimità non abbiano dichiarato l’inammis­sibilità del ricorso proprio al fine di non precludersi la possibilità di enunciare un principio di diritto su una questione ermeneutica di lungo corso e di significativa rilevanza sistematica. In termini ancora più audaci, potrebbe quasi sospettarsi che i giudici di Piazza Cavour abbiano atteso la prima occasione utile per intervenire su un tema che era già stato autonomamente inserito nel loro “calendario nomofilattico”. Quello ipotizzato, del resto, è uno scenario che, se oggi può essere qualificato come un espediente volto a superare un limite formalmente posto allo ius dicere della Cassazione, in un futuro non molto lontano potrebbe corrispondere ad una funzione fisiologicamente attribuita ai giudici di legittimità, vale a dire quella di enunciare un principio di diritto su una questione giuridica ritenuta particolarmente rilevante indipendentemente dal fatto che esso possa avere effetti su un giudizio di impugnazione validamente instaurato. Il riferimento più immediato va alla recente proposta di riforma del codice di procedura penale d’iniziativa governativa, che, in seno ad una visione complessivamente ispirata al rafforzamento del precedente giurisprudenziale e al ruolo centrale delle Sezioni unite, consente a queste ultime di pronunciarsi anche nel caso in cui il ricorso ad esse assegnato sia divenuto inammissibile per una causa sopravvenuta [4]. Una innovazione che, così concepita, avrebbe un impatto abbastanza modesto, posto che il suo ambito operativo sarebbe relegato a situazioni statisticamente poco frequenti, quali la rinuncia dell’impugnazione o la sopravvenuta carenza di interesse; e che, però, potrebbe rappresentare solo l’inizio di un percorso di metamorfosi funzionale della Cassazione penale che, una volta inaugurato, potrebbe poi essere ampliato e completato fino a coincidere con quello portato a compimento (anche qui in modo progressivo) per la Cassazione civile [5]. Ciò che, in fondo, sganciando formalmente l’attività ermeneutica dei giudici dall’esercizio della giurisdizione, finirebbe per “certificare” un fenomeno già in atto, quale quello della coesistenza, accanto al diritto legislativo, di un diritto giurisprudenziale. Di un diritto cioè che non origina dalla deliberazione degli organi che, in forza della loro rappresentatività, detengono il potere legislativo, ma dall’attribuzione alla magistratura di una vera e propria funzione creativa della norma, la quale, lungi dal costituire una anomalia del sistema, si atteggerebbe a componente essenziale e inevitabile dell’interpretazione.

Prescindendo da qualsiasi considerazione sulla compatibilità di un tale fenomeno con l’assetto costituzionale dei poteri dello Stato [6], non può non dirsi come un siffatto scenario legislativo renderebbe ancora più indifferibile l’esigenza di regolamentare il regime di applicazione temporale del mutamento giurisprudenziale. Preso atto, in altri termini, che anche la Cassazione crea fisiologicamente diritto, diverrebbe inevitabile porsi il problema della tutela dell’imputato che, confidando nella stabilità di un principio giurisprudenziale consolidato (in quanto affermato dalle Sezioni unite oppure pacificamente riconosciuto dalle sezioni semplici), ad esso abbia improntato il suo comportamento all’interno del procedimento penale. Come può nei confronti di un tale soggetto applicarsi una conseguenza negativa (ad esempio, in termini di invalidità degli atti o di inammissibilità dell’impugnazione) derivante dall’over­turning giurisprudenziale è un interrogativo al quale, prima o poi, il nostro ordinamento dovrà dare una risposta precisa, che sia idonea a contemperare l’accresciuta spinta del nostro sistema di fonti del diritto verso il modello di common law con l’irrinunciabile garanzia dell’individuo a potersi autodeterminare, così da non esporsi a sanzioni inevitabili in quanto imprevedibili [7]. E non è chi non veda come il rischio di overturning giurisprudenziali imprevedibili è tanto più concreto quanto più si ritenga ampio la spazio entro il quale il giudice può legittimamente “creare”, piuttosto che “interpretare” la norma. I propositi di riforma, recependo l’idea che la Cassazione a sezioni unite possa enunciare norme astratte, che “utilizzano” il caso concreto, non come presupposto imprescindibile per esercitare la funzione giurisdizionale, ma solo come “occasione” per elaborare principi di diritto aventi valenza generale, vanno in questa direzione. La sentenza in esame, facendo un uso disinvolto del potere di delibazione dell’am­missibilità del ricorso (non in linea con il rigore altre volte adottato in tale sede dalla Cassazione) sembra quasi voler anticipare i tempi della riforma.

IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE E LA SCELTA DELLE SEZIONI UNITE NELLA CONSAPEVOLEZZA DELLA “TENSIONE” NORMATIVA

Detto del contesto dal quale la sentenza prende le mosse, entriamo nel merito della questione. Essa concerne la possibilità di dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione (ed, in caso di risposta affermativa, a quali condizioni ed entro quali limiti) qualora i motivi di appello siano connotati da un «difetto di specificità». Così descritta in apertura del «considerato in diritto» della sentenza, la quaestio deve in realtà essere ulteriormente precisata, giacché, come la stessa decisione chiarisce nelle pagine successive, il dubbio riguarda esclusivamente il difetto di «specificità estrinseca» dei motivi e non anche quello di «specificità intrinseca». Per quest’ultimo, che si rinviene tutte le volte in cui l’appello sia fondato su «considerazioni di per sé generiche o astratte, o evidentemente non pertinenti al caso concreto», le Sezioni unite premettono l’assenza di contrasto giurisprudenziale, risultando piuttosto pacifico il suo inquadramento tra le cause di inammissibilità (principio che, come detto, a nostro avviso, ben avrebbe potuto trovare applicazione anche nel caso di specie). La «specificità estrinseca» alla quale attiene invece il contrasto tra le singole sezioni è quella che - così la definisce testualmente la sentenza - si ha quando a mancare sia «la esplicita correlazione dei motivi di impugnazione con le ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata». Si discute, quindi, del motivo sufficientemente argomentato ma non esplicitamente collegato ad una specifica parte della sentenza che si vuole impugnare.

La comprensione del problema implica la ricognizione dei dati codicistici dai quale esso promana. L’art. 581 c.p.p., nel descrivere i requisiti formali dell’impugnazione (generalmente intesa, posto che siamo all’interno del Libro IX, Titolo I, dedicato appunto alle «disposizioni generali» delle impugnazioni), menziona, oltre agli estremi identificativi del provvedimento, ai «capi o ai punti ai quali si riferisce l’impugna­zione» e alle «richieste», i «motivi, con l’indicazione specifica (corsivo nostro) delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta». L’art. 591 c.p.p. (sempre in seno al citato Titolo I), dal canto suo, nel dettare le cause tassative di inammissibilità dell’impugnazione, menziona l’inosser­vanza delle «disposizioni degli artt. 581, 582, 583, 585 e 586». Emergono due dati testuali non suscettibili di confutazione: a) il requisito dei “motivi” è l’unico al quale l’art. 581 c.p.p. attribuisce il connotato della “specificità”; b) l’art. 591 c.p.p. sanziona con l’inammissibilità la mancanza di tutti i requisiti formali indicati nell’art. 581, senza fare alcuna distinzione tra quelli non aggettivati con la specificità e il solo che invece lo è. Dati, è bene precisare, di ordine meramente lessicale, che, isolatamente considerati, potrebbero condurre alle conclusioni più varie e tra loro contrapposte e il cui contenuto, in ragione del più basilare rispetto che si deve all’interpretazione logica, dovrebbe essere enucleato dalla loro implementazione nel “modello” di impugnazione al quale si intende applicarli. Ed è proprio da questa esigenza di implementazione che può trarsi spunto per una seconda precisazione di natura preliminare. La questione affrontata dalle Sezioni unite assume rilevanza unicamente in riferimento al giudizio di appello, risultando ormai da tempo consolidata la giurisprudenza che afferma l’inam­missibilità del ricorso per cassazione i cui motivi siano disancorati dalla motivazione del provvedimento impugnato. Il che si spiega per la necessità di leggere le norme sopra citate in coerenza con la struttura del giudizio in cassazione e con la diversa funzione che in tale giudizio sono chiamati ad assolvere i motivi dell’impugna­zione. Essendo, cioè, il ricorso in cassazione un mezzo di impugnazione a critica vincolata ai soli vizi del provvedimento tassativamente elencati nell’art. 606 c.p.p., che attribuisce alla Corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti (art. 609 c.p.p.), è fisiologico che questi ultimi debbano prioritariamente consentire al decidente di delimitare il proprio campo di azione in stretta relazione al decisum. Lo stesso limite non vale, com’è noto, per il giudizio di appello, il cui attuale modello codicistico attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento, non ai motivi proposti, ma «ai punti della decisione ai quali (i motivi) si riferiscono» (art. 597). Da qui, essenzialmente, il contrasto giurisprudenziale considerato dalle Sezioni unite, composto da un primo orientamento che esclude la configurabilità di una causa di inammissibilità dell’appello per aspecificità estrinseca dei motivi in considerazione della necessità di stabilire il tasso di determinatezza di questi non in astratto ma «in rapporto ai principi della domanda, della devoluzione e del diritto di difesa dei controinteressati» [8]; e da un secondo orientamento che, invece, afferma «la sostanziale omogeneità della valutazione della specificità estrinseca dei motivi di appello e dei motivi di ricorso per cassazione», per il fatto che, nonostante il diverso effetto devolutivo dei due mezzi di impugnazione, il giudizio di appello costituisce pur sempre, non un «nuovo giudizio», bensì «uno strumento di controllo o di censura su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata» [9]. Le Sezioni unite aderiscono all’orientamento più rigoroso ritenendo che esso sia «più coerente con il dato normativo, perché assimila sostanzialmente l’appello e il ricorso per cassazione, ricostruendo correttamente l’ambito e la portata degli artt. 581 e 591 c.p.p.». Il ragionamento a sostegno di questa presa di posizione non è, però, privo di ostacoli, tant’è che la stessa Corte ammette l’indubbia esistenza di una «tensione (…) fra il principio di specificità dell’appello, enunciato dal richiamato art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p., che non opera alcuna distinzione fra appello e ricorso per cassazione, e il principio devolutivo fissato dall’art. 597, com­ma 1, secondo cui la cognizione del giudice di appello non è limitata ai motivi proposti, ma si estende ai punti della decisione ai quali essi si riferiscono». Una tensione che trova il suo solido fondamento nel più importante degli argomenti utilizzati dal primo orientamento, ovvero quello della necessità, a pena di incoerenza interna del sistema, di correlare il tasso di determinatezza dei motivi di appello all’esten­sione del potere decisorio attribuito dalla legge al giudice dell’impugnazione. Perché mai - ci si chiede - l’appellante deve delimitare con precisione l’ambito del punto soggetto a critica se poi il giudice d’appello è espressamente autorizzato a prescindere da tale delimitazione per occuparsi di tutto il punto investito dall’impugnazione? Da questo punto di vista, non appare particolarmente persuasivo il richiamo della sentenza alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani al fine di sottolineare che la stessa non è di “ostacolo” all’esigenza di specialità estrinseca dei motivi di appello. Al riguardo sono citate molteplici pronunce, in parte riguardanti l’Italia, in parte altri Paesi europei, espressive del principio secondo cui «il diritto al tribunale», sancito dall’art. 6 Cedu, non esclude che il legislatore interno abbia «un certo margine di apprezzamento» nel fissare le «condizioni di ricevibilità di un ricorso», a patto che queste tendano «ad uno scopo legittimo» e che esista «un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito». Ora, da un lato, appare ultroneo il richiamo ad una “giurisprudenza del caso concreto” le cui fattispecie legislative di riferimento non sono sovrapponibili alla fattispecie in esame; e, da un altro lato, il principio enucleato da tale giurisprudenza appare, nella sua genericità, tanto condivisibile, quanto poco incisivo sulla questione alla quale si pretende di applicarlo. Dire, infatti, che le condizioni di ricevibilità del ricorso sono ammesse purché siano «proporzionate» non è certo affermazione risolutiva, dovendosi poi, nel caso concreto, verificare se questo rapporto di proporzionalità sussista. Ciò che la sentenza in commento non fa, limitandosi a enfatizzare il principio convenzionale nella sua dimensione generale e astratta. Ma il vero problema, come detto, non è l’enucleazione del principio e la sua (pacifica) condivisibilità sul piano teorico, quanto la sua verifica nel caso concreto, al fine di stabilire se il limite della “specificità estrinseca” dei motivi risulti, per l’appunto, “proporzionato”, nel senso di razionalmente collegato (o forse sarebbe meglio dire “dosato” rispetto) al suo scopo di indirizzo e delimitazione del potere cognitivo del giudice. Nulla, quindi, la giurisprudenza Cedu sembra in grado di aggiungere alla visuale domestica della questione ermeneutica, già autonomamente incentrata sulla “coerenza sistematica” del suddetto requisito di ammissibilità. Ancora meno convincente risulta la parte in cui la sentenza, chiudendo la “trattazione” dedicata alla giurisprudenza europea, dedica una specifica menzione alla recente sentenza Corte e.d.u., sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia [10], per ribadire come il legislatore interno, «nell’ambito del margine di apprezzamento», possa «imporre requisiti formali, anche rigorosi, per l’am­missibilità dell’impu­gnazione»; a condizione che, sempre nel rispetto del superiore principio di proporzionalità, tali requisiti «non siano tali da vanificare il diritto a una pronuncia di merito attraverso l’im­posizione di eccessivi formalismi» e «siano chiari e prevedibili, non impongano eccessivi oneri alla parte impugnante per l’esercizio del diritto di difesa». Le affermazioni contenute in detta sentenza, anzitutto, come le stesse Sezioni unite precisano, sono «riferite a una diversa categoria di giudizio e a un diverso mezzo di impugnazione», precisamente al ricorso per cassazione e alla condizione di ammissibilità per questo prevista dall’art. 366 c.p.c., introdotto dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e successivamente abrogato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69. In virtù di tale disposizione, vigente all’epoca del giudizio in cassazione instaurato dal ricorrente, la presentazione di ciascun motivo doveva, a pena di inammissibilità, essere seguita dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte. La Corte europea, effettivamente, ha ritenuto che la previsione di un requisito di questo tipo non viola il diritto all’accesso ad un Tribunale sancito dall’art. 6 Cedu, ma lo ha fatto, per un verso, accertando che esso perseguiva «uno scopo legittimo, osservando al tempo stesso le esigenze della sicurezza giuridica e della buona amministrazione», e, per un altro verso, riconoscendo come, in concreto, il ricorrente e il suo avvocato ben avrebbero potuto evitare la sanzione di inammissibilità, essendo perfettamente «in grado di conoscere i propri obblighi in materia, basandosi sul contenuto dell’articolo sopra menzionato e con l’aiuto dell’in­terpretazione della Corte di cassazione, che presentava una chiarezza e una coerenza sufficienti». Considerazioni fin troppo “tarate” sul giudizio di legittimità e sulle peculiarità della fattispecie concreta per potersene trarre una, benché minima, adattabilità al giudizio di appello e alla questione decisa dalle Sezioni unite. Una prudenza nell’uso del precedente che, del resto, la stessa sentenza Trevisanato c. Italia si preoccupa di raccomandare al lettore, laddove afferma che «la compatibilità delle limitazioni previste dal diritto interno con il diritto di accesso a un tribunale riconosciuto dall’articolo 6 § 1 dipende dalle particolarità del procedimento in causa»; e, soprattutto, laddove, senza mezzi termini, ammonisce circa l’esigenza di «tenere conto del processo complessivamente condotto nell’ordinamento giuridico interno e del ruolo che svolge in quest’ultimo la Corte di cassazione, dato che le condizioni di ammissibilità di un ricorso per cassazione possono essere più rigorose che per un appello»[11].

Con tutto ciò - è bene precisarlo - non si vuol certo sostenere che l’orientamento condiviso dalle Sezioni unite sia in contrasto con l’art. 6 Cedu, né che, alla luce della giurisprudenza della Corte europea, quest’ultima disposizione convenzionale sia incompatibile con la previsione del requisito di ammissibilità della specificità estrinseca dei motivi, bensì, più semplicemente, che il richiamo a siffatta giurisprudenza risulta inconferente; al punto da adombrare il sospetto che esso rappresenti un sintomo della difficoltà incontrata dalla Cassazione nel reperire giustificazioni davvero convincenti a sostegno della proprio presa di posizione. E, in effetti, la lettura della sentenza, subito dopo queste considerazioni a margine attinenti alla Cedu, svela il vero nucleo fondante del suo argomentare, che, però, si riduce ad una considerazione di ordine cronologico. La discrasia tra la specificità pretesa dai motivi e la «plena cognitio che caratterizza i poteri del giudice di appello» viene giustificata, non sul piano della loro coerenza funzionale, ma su quello della sequenza. La plena cognitio, in base a questa impostazione, si legittimerebbe per il solo fatto di rappresentare, rispetto alla «prima fase, necessaria, di delibazione dell’am­missibilità» (avente «per oggetto tutte le verifiche richieste dal comma 1 dell’art. 591, compresa quella sulla specificità estrinseca dei motivi»), una «seconda fase, successiva ed eventuale, di valutazione del merito». Un ragionamento lineare ma che, ancora una volta, non appare determinante, potendosi, con altrettanta dignità, ritenere secondario il dato cronologico al cospetto dell’esigenza di interpretare i requisiti di ammissibilità della prima fase proprio alla luce del contenuto dei poteri del giudice caratterizzanti la seconda fase. In presenza, cioè, di un dato legislativo polisenso (quale potrebbe essere ritenuto quello relativo alla specificità dei motivi), nulla vieterebbe all’interprete di selezionarne il significato in modo tale da porlo in sequenza logica, ancor prima che cronologica, con il contenuto dei provvedimenti che sono configurati come ad esso successivi. In tale ottica, quindi, si potrebbe ribaltare l’argomenta­zione della Corte dosando il quantum di determinatezza estrinseca richiesto per i motivi in modo tale da renderlo omogeneo con il quantum del potere cognitivo attribuito al giudice d’appello direttamente dalla legge. Così opinando, il legame tra i due fattori in discussione (il requisito di ammissibilità da una parte e l’effetto devolutivo dall’altra) risulterebbe necessario non sotto il profilo temporale, bensì sotto quello della loro complementarietà funzionale, al punto da invertire l’ordine con il quale essi andrebbero presi in considerazione: la particolare ampiezza del potere cognitivo attribuito ex lege al giudice di appello, indipendentemente dal suo “venir dopo” la presentazione dei motivi, giustificherebbe razionalmente il limitato livello di specificità (estrinseca) esigibile da questi ultimi. O, detto in altri termini, il suddetto livello di specificità, per risultare ragionevole, andrebbe commisurato in modo tale da essere inversamente proporzionale al potere cognitivo officioso del giudice di appello.

LE ESIGENZE DI COERENZA SISTEMATICA PREVALGONO SUL FAVOR IMPUGNATIONIS

Un altro elemento su cui, secondo l’orientamento giurisprudenziale sconfessato dalle Sezioni unite, dovrebbe fondarsi l’esclusione della specificità estrinseca dal novero delle cause di inammissibilità dell’appello è il c.d. favor impugnationis. Esso, sebbene risulti il più delle volte utilizzato dalle sentenze ascrivibili a detto orientamento in termini quasi esclusivamente enunciativi, senza alcun supporto giustificativo, ha, a ben vedere, una solida base ermeneutica. Così come accade per il favor libertatis in relazione alle disposizioni in tema di libertà personale, tale “clausola generale” è destinata a limitare la discrezionalità dell’interprete tutte le volte in cui la littera legis pone lo stesso dinanzi ad un vuoto normativo o comunque a termini malleabili, suscettibili di essere riferiti a differenti significati. Un vincolo il cui fondamento teorico è dato dal carattere di inviolabilità che la Costituzione attribuisce alla tutela di quel determinato bene giuridico oggetto del favor (nel nostro caso, il «diritto di difesa» di cui all’art. 24, comma 2, Cost.) e, di conseguenza, dalla sua tendenziale “forza espansiva”. In quanto oggetto di particolare tutela sul piano costituzionale, il diritto inviolabile si presume sempre esistente e garantito, a meno che la sua limitazione, compatibilmente con le predeterminazioni autorizzate dalla Carta fondamentale, sia esplicita e di significato univoco. Difettando una limitazione in positivo, la stessa non può essere ricavata implicitamente dall’interprete; allo stesso modo, esistendo una disposizione legislativa idonea ad assumere una portata limitativa o espansiva del bene, l’interprete non ha margini di scelta, dovendo ritenere la seconda l’unica soluzione costituzionalmente compatibile.

Un’ars ermeneutica che, a meno di voler disattendere i dicta del Giudice delle leggi, appare difficilmente confutabile, ma che, applicata alla fattispecie in esame, probabilmente non ha più un presupposto sostanziale così granitico. Ciò di cui, in sostanza, sembra oggi potersi dubitare è del fatto che, all’interno di un modello processuale penale costituzionalizzato di tipo accusatorio, il diritto all’impu­gnazione costituisca una proiezione necessaria del diritto di difesa; e, di riflesso, della possibilità che al­l’impugnazione possa ancora essere riferita quella connotazione di inviolabilità dalla quale, come detto, promana l’evidenziato favor ermeneutico.

È in relazione a questo particolare aspetto del problema che, ad avviso di chi scrive, la sentenza annotata mostra la sua parte più condivisibile e, al contempo, maggiormente innovativa. Le Sezioni unite, infatti, ridimensionano il richiamo al favor impugnationis rammentando come tale principio sia tenuto ad «operare nell’ambito dei rigorosi limiti rappresentati dalla natura intrinseca del mezzo di impugnazione», la quale, «sul piano sistematico», non può che essere coerente con i caratteri strutturali del «processo accusatorio». Scendendo più nel dettaglio, con due di tali caratteri il confronto è doveroso: l’ele­zione del “contraddittorio per la prova” a statuto epistemologico del giudizio penale e l’accentua­zione dei poteri dispositivi delle parti rispetto al (residuale) potere di iniziativa del giudice-autorità. Sotto il primo profilo, è la stessa esistenza dell’appello che, da più parti, è stata messa in discussione [12]. Del giudizio di secondo grado non convince, in particolare, la pretesa di maggiore attendibilità del suo esito, che, a ben vedere, non poggia su dimostrate tesi “scientifiche”, ma, da un lato, sull’istintivo scetticismo nei confronti della decisione giudiziaria tipico della tradizione culturale italiana, e, da un altro lato, sull’al­trettanto radicato convincimento che il giudizio reiterato sia, in quanto tale, meno esposto all’errore cognitivo [13]. Perplessità che, come evidenziato, divengono ancora più forti in considerazione del metodo, ordinariamente cartolare, con il quale il giudizio di appello “pretende” di prevalere sul precedente accertamento orale, concentrato e immediato [14]. Pur non ripetendone l’estrema conclusione (l’oblitera­zione dell’appello), la sentenza fa uso di questa impostazione teorica per escludere che l’appello possa ancora meritare una paternità sistematica come «giudizio a tutto campo» e per condizionarne la sua compatibilità con il modello accusatorio al fatto che esso funga esclusivamente da strumento di «critica specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata». Se, insomma, non vuole sconfessarsi la premessa metodologica dalla quale, sul piano costituzionale, muove l’intero processo penale, l’impugnazione nel merito della sentenza penale, quale che sia la sua denominazione codicistica, non può essere concepita come una facoltà difensiva (ma la stessa considerazione potrebbe valere per il pubblico ministero) volta genericamente a verificare se la ripetizione del giudizio possa condurre ad una decisione più “convincente” o più plausibile [15]. Al contrario, il solo spazio che tale impugnazione può conservare è quello di una critica mirata, selettiva e responsabile, tramite la quale la parte impugnante individua specificamente l’errore potenzialmente commesso dal giudice di primo grado e lo contesta con argomentazioni razionalmente sostenute dai necessari riferimenti in fatto e/o in diritto. Una critica, quindi, il cui contenuto, non rappresenti semplicemente la manifestazione di volontà necessaria affinché il giudice di appello rivaluti interamente e autonomamente il punto “toccato” dall’impu­gnazione o gli altri punti che ritiene in connessione logico-giuridica con questo, bensì, la confutazione di uno o più determinati errori con motivi che, autonomamente considerati, siano potenzialmente sufficienti a giustificare una decisione di riforma.

Entra qui in gioco il secondo dei profili sopra evidenziati, quello del riparto dei poteri di intervento tra il giudice e le parti e della delimitazione dei rispettivi confini. In un sistema nel quale, fin dalla fase delle indagini preliminari, alle parti è riconosciuto il diritto di individuare e acquisire i dati probatori a supporto delle proprie tesi e al giudice è tendenzialmente inibito l’esercizio di autonomi poteri istruttori, il logico contrappeso non può che essere la legittima pretesa di responsabilizzazione delle parti. È privo di senso che queste, da un canto, siano ritenute idonee a “dirigere” il progetto cognitivo oggetto del giudizio di primo grado, tanto da esercitare in questo un vero e proprio «diritto alla prova», e poi, da un altro canto, siano improvvisamente deresponsabilizzate nel grado successivo in conseguenza di un potere-dovere del corrispondente giudice chiamato a colmare eventuali loro carenze formali o inerzie concettuali. Coerenza vuole, pertanto, che il principio dispositivo che caratterizza il giudizio dibattimentale abbia nel giudizio di appello (e in quelli successivi) la sua logica proiezione, attraverso la configurazione di precisi oneri adempiuti i quali le parti rendano possibile, fin dall’inizio, la delimitazione cognitiva del controllo e il suo potenziale esito decisorio.

Che le Sezioni unite abbiano percorso questo tracciato argomentativo non può sorprendere, se solo si amplia, per un istante, il nostro campo di indagine e si volge lo sguardo a quanto esse hanno recentemente affermato in ordine al rapporto tra la doverosità dei requisiti di ammissibilità del ricorso in cassazione e la preesistenza di una causa estintiva del reato (prescrizione) maturata ancor prima della sentenza di appello e non dichiarata in tale sede, né dedotta dalle parti con i motivi di ricorso. Nel dire, invero, che anche in questo l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p. e art. 609, comma 2, c.p.p., l’estinzione del reato per prescrizione, la Corte ha richiamato espressamente, a giustificazione del proprio ragionamento, il principio dispositivo del vigente processo penale e - quel che più rileva in questa sede - la sua piena riferibilità alla fase delle impugnazioni [16].

Orbene, così ricostruita la decisione in commento, il suo epilogo, al di là dei margini di opinabilità di certe argomentazioni poste a suo supporto, appare meritevole di apprezzamento, essendo indubbio che esso vada in una corretta direzione sistematica. Tuttavia, non si può fare a meno di ribadire l’anomalia del metodo con il quale nel nostro ordinamento si produce diritto. Si vuol dire che, per quanto condivisibili, le scelte di sistema, in un contesto ordinamentale allineato ai cardini costituzionali, competerebbero al Parlamento, dotato di forza rappresentativa e non certo alla Magistratura, che tale caratteristica non ha. Da tanti anni la più autorevole dottrina processual penalistica ha provato a stimolare l’inter­vento riformatore del legislatore denunciando l’incoerenza sistematica dell’appello, sia sotto il profilo dell’an sia sotto il profilo del quomodo [17]. Sforzo rivelatosi invano, non avendo il legislatore mai percepito una tale esigenza e conseguentemente mai messo mano ad una riforma in tale materia (se si eccettua la c.d. “riforma Pecorella” sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, il cui triste epilogo sotto i colpi di scure della Corte costituzionale è però ben noto). In compenso, alla riforma si è pervenuti, lentamente ma progressivamente, per via pretoria, dapprima, per quanto attiene al quomodo, con la profonda rivisitazione della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (resa, in riferimento all’appello delle sentenze di proscioglimento, non più eccezionale e discrezionale, ma “fisiologica” e doverosa) [18] e ora, per quanto concerne l’an, con l’introduzione di un filtro di selettività razionale degli appelli ammissibili. Trattasi, a nostro avviso, di soluzioni condivisibili, ma, seppure per ragioni diverse, non ermeneuticamente obbligate. L’impressione, allora, è che, così facendo, la Cassazione sia andata ben oltre i confini dell’interpretazione, non limitandosi ad adeguare le disposizioni codicistiche esistenti ad un sistema precedentemente “scelto” dal legislatore, ma creando essa stessa un sistema. I due interventi, peraltro, a conferma della loro matrice unitaria, sembrano tra loro dialogare alla ricerca di una composizione compatibile con le esigenze, anch’esse di ordine costituzionale, di ragionevole durata del procedimento penale. In termini di “gestione delle risorse”, infatti, è come se la sentenza annotata si preoccupasse, pur senza affermarlo esplicitamente, di “compensare” il maggior dispendio di tempo e di energie umane imposto dalla doverosità della rinnovazione dibattimentale, con la riduzione, in entrata, degli appelli ammissibili. Una scelta, come detto, ineccepibile e razionale, oltre che in linea con le prerogative costituzionali del modello accusatorio, se solo fosse stata fatta dal legislatore e non da chi - a meno di non saper più leggere la Costituzione - legislatore non è o non dovrebbe essere.

LA PORTATA DELLA DECISIONE E IL “RISCHIO” DI ULTERIORI TENDENZE SELETTIVE DELL’APPELLO

Ma v’è di più. La sentenza, tra le righe, sembra voler dare indicazioni anche per le future scelte che il legislatore (e, forse, in difetto di quest’ultimo, la stessa giurisprudenza) dovrà adottare, al fine di rendere ancora più selettivo il filtro di ammissibilità dell’appello [19]. La sensazione si coglie allorquando la Cassazione, da una parte, nel delimitare la portata della sua decisione, precisa che il vaglio sulla specificità estrinseca dei motivi di appello non può risolversi in una, non prevista, valutazione di manifesta infondatezza degli stessi motivi, per poi, dall’altra, rammentare che nel procedimento civile l’ammis­sibilità dell’appello è subordinata anche ad una valutazione preliminare di natura discrezionale, che in quel caso può addirittura spingersi financo alla prognosi di non accoglimento dell’impu­gnazione [20]. Si può leggere, in questo passaggio della sentenza, la manifestazione dell’idea secondo cui la futura implementazione di una tale disciplina nel giudizio di appello penale sarebbe opportuna o non sarebbe, comunque, ostacolata da alcun fattore ostativo di natura costituzionale o solo sistematica? Non è dato sapere quale sia la risposta esatta da dare a tale interrogativo, ma il solo fatto che la sentenza accosti le due discipline (senza che, a rigore, ve ne fosse necessità), giustifica il sospetto di una soluzione affermativa. Del resto, anche il requisito di ammissibilità della specificità estrinseca dei motivi, pur rientrando nell’ambito degli accertamenti di natura formale, se non applicato in termini restrittivi, espone già al rischio di valutazioni discrezionali elusive del diritto al contraddittorio dell’impugnante. Rischio che può concretizzarsi tutte le volte in cui il giudice non si limiti a verificare la presenza di un collegamento esplicito tra la critica e il punto della sentenza oggetto di censura, ma ritenga di poter valutare profili ulteriori di tale collegamento densi di genericità e incertezza applicativa, quali la “serietà”, la “precisione”, la “chiarezza”, la “logicità”, ecc.

Confidando nel fatto che tale rischio sia remoto, essendo altamente probabile che le Corti di appello (e, di riflesso, in sede di controllo di legittimità, la Cassazione) sapranno far uso di questo ennesimo filtro di ammissibilità con il dovuto self restraint, un altro dato della pronuncia, che va sempre nella direzione volta a circoscrivere l’ambito di operatività del requisito di specificità estrinseca dei motivi, merita di essere segnalato. Tra gli argomenti utilizzati dalla Corte per rendere persuasivo, agli occhi del lettore, il principio di diritto da essa elaborato, vi è quello che si rivolge al citato “progetto Orlando” di riforma del codice di procedura penale[21]. In questo vi sono due innovazioni codicistiche che riguardano molto da vicino il tema trattato dalla sentenza: la prima investe proprio l’art. 581, laddove la condizione di ammissibilità della specificità non è più riferita ai soli motivi, ma a tutti i requisiti ivi enunciati, tra i quali quelli di nuovo conio della indicazione “delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione e l’omessa o erronea valutazione» e delle «richieste istruttorie»; la seconda attiene all’art. 546, che prevede la costruzione di un «modello legale di motivazione in fatto della decisione di merito», in base al quale, cioè, la sentenza, nell’esporre i motivi su cui si fonda (e ora anche i «criteri di valutazione della prova adottati»), deve rispondere ad uno schema minimo, che comprenda: 1) l’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) la punibilità e la determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’articolo 533, e della misura di sicurezza; 3) la responsabilità civile derivante dal reato; 4) l’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. Quest’ultima innovazione - evidenziano le Sezioni unite - «si accorda con l’onere di specificità dei motivi», proposti «con riferimento ai singoli punti della decisione», rendendolo «direttamente proporzionale alla specificità delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, con riferimento ai medesimi punti». Conclusione ovvia e ineccepibile, la cui sussistenza però - è bene sottolinearlo - prescinde dall’entrata in vigore della “riforma Orlando” e deve essere riconosciuta già sul piano del de iure condito. Non è chi non veda, infatti, come la specificità della motivazione rappresenti un presupposto logico, ancor prima che normativo, dell’onere di specificità dei motivi di impugnazione. Allorquando le affermazioni motivazionali della sentenza siano generiche è inevitabile che anche la critica ad esse rivolta risenta di genericità e astrattezza, non potendosi pretendere dall’impugnante che ancori le sue censure a ciò che non esiste, vale a dire a concetti determinati e ben individuabili. Già oggi, quindi, indipendentemente dall’esistenza di un modello legale di motivazione, l’appello non potrà essere ritenuto inammissibile per difetto di specificità estrinseca dei suoi motivi tutte le volte in cui si riferisca a parti della sentenza a loro volta aspecifiche. Il che assume particolare rilevanza pratica proprio in ordine a quel tipo di “punto” dal quale ha avuto origine la sentenza delle Sezioni unite, ovvero quello destinato alla determinazione della pena, che, com’è noto, è spesso “liquidato” dai giudici di merito con l’uso di formule asettiche, se non, nei casi più eclatanti, con il mero rinvio al dettato legislativo di cui all’art. 133 c.p. [22].

 

 

       
     
 
   

 

 

[1] Per un primo commento della pronuncia, cfr. A. Muscella, Ammissibilità dell’atto di appello e difetto di specificità dei relativi motivi, in Arch. pen., 2017, p. 1 ss.; R. Bricchetti, Inammissibile l’appello per difetto di specificità se non risultano argomentati i rilievi critici alla decisione, in Guida dir., 2017, 13, p. 90 ss.; B. Miglucci-F. Petrelli, I limiti sull’appello e quel rischio concreto di depotenziarlo, in Guida dir., 2017, 19, p. 10 s.

[2]La ricostruzione del lungo “dibattito” giurisprudenziale sul requisito della specificità (estrinseca) dei motivi è rinvenibile in V. Maffeo, Riflessioni sul rapporto tra domanda di parte e poteri di cognizione nel giudizio di appello, in Dir. pen. proc., 2012, p. 98 ss.

[3] Sul fatto che il motivo di inammissibilità non rilevato dalla Corte di appello imponga, in sede di legittimità, l’annul­lamento senza rinvio della sentenza impugnata, v. Cass., sez. VI, 6 dicembre 2010, n. 43207, in Guida dir., 2011, 4, p. 96, e le considerazioni, parzialmente critiche, di V. Maffeo, Riflessioni, cit., p. 98.

[4] Il riferimento è al d.d.l. AS 2067, il cui art. 1, comma 66, prevede l’inserimento nell’art. 618 c.p.p. del seguente comma 1-ter: «Il principio di diritto può essere enunciato dalle sezioni unite, anche d’ufficio, quando il ricorso è dichiarato inammissibile per una causa sopravvenuta». In relazione al proposito di rafforzamento del precedente giurisprudenziale, poi, la stessa dispo­sizione si propone di introdurre nella citata disposizione codicistica un nuovo comma 1-bis del seguente tenore: «Se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso». Per una più ampia visione del citato disegno di legge, cfr. G. Spangher, La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in www.penalecontemporaneo.it, 5 ottobre 2016. Deve segnalarsi che, chiuso il presente lavoro, la riforma suindicata, in data 14 giugno 2017, è stata definitivamente approvata dalla Camera dei deputati ed è divenuta legge (L. 23 giugno 2017, n. 103, in G.U., Serie generale, 4 luglio 2017, n. 154).

[5] Nel processo civile lo ius constitutionis della Cassazione è oggi riconosciuto dall’art. 363 c.p.c. (così come modificato dall’art. 4 d.lgs. n. 40 del 2006), il cui testo così recita: «1. Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore ge­nerale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. 2. La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza. 3. Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza. 4. La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito.». In base alla precedente versione di tale disposizione, il potere di iniziativa del Procuratore generale non includeva le ipotesi di non impugnabilità del provvedimento e, inoltre, non era previsto il potere officioso del collegio decidente. Sul tema, cfr. M. Esposito, La Consulta schiva l’occasione per dire la sua sull’attività ultragiurisdizionale della Corte di cassazione (a proposito dell’art. 363 c.p.c. in tema di enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge), in Giur. cost., 2015, p. 955 ss.

[6] Per una severa critica, in tale direzione, del potere ultragiurisdizonale attribuito dall’art. 363 c.p.c. alla Cassazione, cfr. M. Taruffo, Una riforma della Cassazione civile?, in Riv. trim. dir. eproc. civ., 2006, p. 770.

[7] Analogamente a quanto già avvenuto in sede civile, dove è stato elaborato il principio secondo cui, «alla luce della norma costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in un errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ex art. 184 bis c.p.c.». Per l’affermazione di tale principio, e le sue successive delimitazioni, v. Cass. civ., sez. un., 11 aprile 2011, n. 8127, in Giust. civ., 2011, I, p. 2009; Cass. civ., sez. un., 13 giugno 2011, n. 12905, in Guida dir., 2011, 37, p. 57; Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in Giust. civ. mass., 2011, p. 1040. In quest’ultima, in particolare, la Corte, pur muovendo dal presupposto che «il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con l’affermarsi dell’esegesi del giudice»; al contempo, ricono­sce che «ove l’overruling si connoti del carattere dell’imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul conso­lidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante ex post non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conse­guenza che - in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 cost.), volto a tutelare l’effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito - deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’over­ruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa (…)». In sede penale, comunque, può già registrarsi una progressiva, seppur “timida”, apertura alla possibilità di equiparare, per certi aspetti, il mutamento giurisprudenziale al mutamento legislativo. In questa direzione, v. Cass. pen., sez. un., 21 gennaio 2010, n. 18288, in Foro ambrosiano, 2010, p. 66 («l’obbligo del giudice nazionale di interpretare la normativa interna in senso conforme alle previsioni della convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), nel significato ad esse attribuito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, impone di includere nel concetto di nuovo “elemento di diritto”, idoneo a superare la preclusione del cd. “giudicato esecutivo”, il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni Unite, ren­dendo così ammissibile la riproposizione della richiesta di cui all’art. 666, comma 2, c.p.p.»); Cass. pen., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 47042, in CED Cass., 265543 («il mutamento giurisprudenziale intervenuto con decisione delle Sezioni unite o anche di una delle Sezioni della Corte di cassazione nel normale esercizio della funzione nomofilattica, purché connotato da caratteri­stiche di stabilità ed univocità, integra un “nuovo elemento” di diritto, idoneo a legittimare la riproposizione di richie­sta di revoca o modifica di misura cautelare personale non più suscettibile di gravame»); Cass. pen., sez. I, 12 febbraio 2016, n. 12955, in Cass. pen., p. 4517 («il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, integra un nuovo elemento di diritto idoneo a legittimare la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di ridetermi­nazione della pena basata sui medesimi presupposti di fatto, in precedenza rigettata»).

[8] Affermazione contenuta in Cass., sez. II, 27 giugno 2012, n. 36406, in Arch. nuova proc. pen., 2013, p. 72.

[9] Cfr. Cass., sez. VI, 6 febbraio 2003, in CED Cass., 227194.

[10]Http://www.echr.coe.int. Per la traduzione della sentenza in lingua italiana, v. www.giustizia.it.

[11] Il corsivo è nostro.

[12]Per una dettagliata ricostruzione di tale «prospettiva abolizionista», v. H. Belluta, Prospettive di riforma dell’appello penale, tra modifiche strutturali e microchirurgia normativa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 1059 ss.

[13] Sul presunto «fondamento logico-razionale» del giudizio di appello, cfr. G. Ciani, Il secondo grado di giudizio: ambito e limiti, in AA.VV., Le impugnazioni penali: evoluzione o involuzione?, Milano, 2008, p. 177 ss.

[14] Cfr. F. Peroni, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione nel meritoRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 725; F. Nuzzo, L’appello nel processo penale, Milano, 2006, p. 28.

[15]L’incoerenza del giudizio di appello, così come strutturato dal vigente codice di rito, è evidenziata, tra gli altri, da H. Belluta, L’appello: patologie croniche e acute, in M. Bargis-H. Belluta (a cura di), Impugnazioni penali, Torino, 2013, p. 232, secondo cui «una simile prospettiva» nega «la valenza epistemologica del contraddittorio».

[16]Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 12602, in Cass. pen., 2016, p. 2347, dove si afferma che il «sistema delle impugnazioni» è «contraddistinto» dal «principio dispositivo, nel senso che è nella facoltà delle parti dare ingresso, attraverso un atto conforme ai requisiti di legge richiesti, al procedimento di impugnazione e delimitare i punti del provvedimento da sottoporre al con­trollo dell’organo giurisdizionale del grado successivo. Ne consegue che il momento di operatività dell’effetto devolutivo ope­legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione, che investa l’organo giudicante della co­gni­zione della res iudicanda, con riferimento sia ai motivi di doglianza articolati dalle parti sia a quelli che, inerendo a questioni rilevabili d’ufficio, si affiancano per legge ai primi».

[17] Sul punto, la letteratura è vastissima. In via del tutto esemplificativa, si rinvia a E. Fassone, L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Questioni giustizia, 1991, p. 623 ss.; M. Deganello, Ripensare il grado di appello nel processo penale: osservazioni a margine di recenti disegni di riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 633 ss.; A. Nappi, Il nuovo processo penale: un’ipotesi di aggiornamento del giudizio d’appello, in Cass. pen., 1990, p. 974; F. Peroni, in Giusto processo, cit., 710 ss.; A. Scalfati, Restituito il potere d’impu­gnazione senza un riequilibrio complessivo, in Guida dir., 2007, 8, p. 78; G. Spangher, Riformare il sistema delle impugnazioni, in R.E. Kostoris (a cura di), La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della giustizia penale, Torino, 2005, p. 110; G.L. Verrina, Doppio grado di giurisdizione, convenzioni internazionali e Costituzione, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, Torino, 1998, p. 141 ss.

[18]Il principio di diritto al quale si fa riferimento è quello recentemente ribadito da Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 12602, in Cass. pen., 2016, p. 2347, con nota di V. Aiuti, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo, ivi, p. 3214 ss.: «La sentenza del giudice di appello che, in riforma di quella di proscioglimento di primo grado, affermi la responsabilità dell’imputato sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva, senza avere proceduto alla rinnovazione dell’istru­zione dibattimentale, è affetta da vizio di motivazione deducibile dal ricorrente a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., in quanto la condanna contrasta, in tal caso, con la regola di giudizio «al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p. Gli stessi principi trovano applicazione nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado sull’appello promosso dalla parte civile.». Tale orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità ancor prima dell’intervento delle Sezioni unite, si è prefisso l’obiettivo di adeguare, in via ermeneutica, la disciplina del giudizio di appello ad alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di equo processo e diritto dell’accusato al confronto, anche nelle fasi di impugnazione, con l’accusatore, le quali, però, non hanno mai riguardato direttamente l’Italia, ma altri Paesi (in buona parte dell’ex Unione sovietica). Tra tali decisioni la più importante, o quantomeno la più “citata”, è certamente Corte e.d.u., sez. III, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, per la cui analisi, v. A. Gaito, Verso una crisi evolutiva per il giudizio di appello. L’Europa impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m. impugna l’assoluzione, in Arch. pen., 2012, p. 349 ss.

[19] Può già registrarsi una nuova pronuncia delle Sezioni unite che sembra andare nella direzione della riduzione del “carico giudiziario” delle Corti di appello. Con la sentenza 17 marzo 2017, n. 12872, CED Cass., n. 269125, infatti, la Cassazione a sezioni unite ha sancito che «il giudice di secondo grado non può applicare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nel caso in cui nel­l’atto di appello non risulti formulata alcuna specifica richiesta al riguardo»; e non a caso, nell’affermare l’insostenibilità della pro­spettazione contraria (possibilità di ritenere le questioni inerenti all’applicazione delle sanzioni sostitutive incluse nel punto della decisione relativo al trattamento sanzionatorio), si è espressamente richiamata al principio «scolpito» dalla sentenza in commento, secondo cui «l’appello (come il ricorso in cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultino e­spli­citamente enunciati e argomentati i rilievi critici mossi alle ragioni di fatto e di diritto alla base della sentenza impugnata».

[20] Tale ipotesi di inammissibilità dell’appello civile è prevista dall’art. 348-bis, comma 1, c.p.c., introdotto dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134: «Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta.».

[21] Come rilevato in precedenza (v., retro, nota 4), in corso di stampa del presente lavoro, il “progetto Orlando” è divenuto legge. Pertanto, le considerazioni formulate nel testo in termini ipotetici possono ora essere ritenute assertive.

[22] Sul punto, cfr., volendo, A. Pulvirenti, Dal “giusto processo” alla “giusta pena”, Torino, 2008, p. 66 ss.