home / Archivio / Fascicolo / Il principio di assorbimento in materia cautelare reale: nessuna rivalutazione del fumus commissi ..
indietro stampa articolo fascicolo
Il principio di assorbimento in materia cautelare reale: nessuna rivalutazione del fumus commissi delicti dopo il passaggio dal sequestro preventivo alla confisca
di Francesca Tribisonna
Il contributo indaga l’ammissibilità della rivalutazione dei presupposti della misura cautelare reale in seguito al deposito della sentenza di primo grado cui si accompagni il passaggio dallo strumento reale del sequestro preventivo alla definitiva misura della confisca. L’Autrice esclude che il procedimento incidentale de libertate possa delibare gli stessi fatti in modo differente rispetto al procedimento di primo grado. Gli argomenti invocati consistono, da una parte, nel rispetto delle esigenze di certezza e razionalità del sistema e, dall’altra parte, nella funzione servente attribuita al procedimento cautelare rispetto a quello di merito.
The article analyses the admissibility of the revaluation of the legal basis for precautionary measures concerning real property following the judgement of the first instance and the transition from preventive seizure to the definitive measure of confiscation. The author, in particular, excludes that the de libertate proceedings may qualify the same facts in a different way compared to the previous judgement. The grounds consist, on the one hand, in compliance with the requirements of certainty and rationality of the legal system and, on the other hand, in the serving function assigned to the preliminary procedure compared to that of merit.
Articoli Correlati: misure cautelari reali - sentenza di condanna - impugnazioni - inammissibilità
La problematica sottoposta all’attenzione della Corte
Con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione è stata investita del ricorso di un imputato avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Firenze aveva rigettato una richiesta di riesame di un decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, emesso dal giudice del dibattimento a seguito della pronuncia della sentenza di primo grado.
In particolare, il provvedimento cautelare finalizzato alla confisca di beni mobili ed immobili - appartenenti al prevenuto o all’impresa ai sensi della l. n. 231 del 2001 - era stato adottato successivamente alla sentenza con cui il Tribunale aveva condannato il legale rappresentante dell’impresa stessa alla pena di giustizia una volta accertatane la penale responsabilità in ordine al reato di cui agli artt. 110 e 321 c.p., per avere egli conseguito, con atto corruttivo, profitto consistente in un risparmio di imposta.
La problematica affrontata attiene, dunque, alla possibilità o meno di ricorrere agli ordinari strumenti di impugnazione delle cautele reali per mettere in discussione la sussistenza del fumus commissi delicti, una volta che sia intervenuto un giudizio, seppur non definitivo, di colpevolezza e, correlativamente, si sia passati dalla misura reale del sequestro preventivo a quella della confisca.
Nel momento in cui il giudice del merito addiviene ad un pronunciamento relativo alla sussistenza o meno di responsabilità penale - pur non avente ancora lo stigma dell’irrevocabilità, trattandosi di decisione suscettibile di rivalutazione nei successivi gradi di giudizio poiché non ancora passata in giudicato - egli assume, com’è ovvio, una precisa posizione in ordine alla configurabilità del reato ipotizzato, oltreché, chiaramente, alla responsabilità del suo autore.
Ebbene, proprio il giudizio effettuato in sede di cognizione in ordine alla configurabilità del reato ipotizzato, a ben vedere, non è altro che ciò che legittima anche l’applicazione della misura ablativa di natura patrimoniale costituendone il presupposto. Si pone, dunque, inevitabilmente, un problema in termini di rivalutazione di quel dato che potrebbe avere rilievo in sede cautelare, oltreché di cognizione.
La risposta dei giudici di legittimità, categorica nelle sue conclusioni, non tarda ad arrivare nel senso che una volta che sia intervenuta la sentenza di condanna di primo grado, cui si accompagni il passaggio dallo strumento reale del sequestro preventivo alla definitiva misura della confisca non possono più venire in discussione i presupposti della misura cautelare, dovendosi piuttosto ricondursi ogni contestazione a quella di merito esercitabile con l’impugnazione della sentenza. Infatti, a mente del disposto di cui all’art. 579, comma 3, c.p.p., “l’impugnazione contro la sola disposizione che riguarda la confisca è proposta con gli stessi mezzi previsti per i capi penali”; ne consegue - afferma la Corte - l’inammissibilità dell’eventuale impugnazione cautelare proposta.
Il sequestro finalizzato alla confisca “per equivalente”
Appare preliminare rispetto a qualsiasi considerazione in merito al dictum dei giudici di legittimità verificare la tipologia di provvedimento ablativo di cui si discute di modo da vagliarne funzioni e regole procedurali.
Com’è noto, l’incredibile espansione dei poteri di sequestro in capo all’autorità giudiziaria - con la connessa facoltà di ricorrere allo strumento di ablazione patrimoniale per ragioni che sempre più si allontanano dalle esigenze per le quali tali misure erano state previste e con finalità sempre più vicine a quelle tipiche della sanzione con il correlato stravolgimento della loro fisionomia originaria [1] - fa sì che le problematiche che si pongono in subiecta materia siano molteplici e complesse. In effetti, l’istituto del sequestro non risulta affatto confinato nelle scarne disposizioni contenute nel codice di procedura penale, ma compare in svariati altri testi normativi e, in particolare, in una serie di leggi dedicate a specifiche materie con aspetti sanzionatori di carattere penalistico, rispetto ai quali tale strumento assume una funzione prodromica alla confisca, che sovente appare come il risultato primario e fondamentale cui tende il legislatore. Pertanto, mentre il sequestro preventivo nella sua più genuina espressione intende precipuamente bloccare la commissione degli illeciti, ponendo l’espropriazione dei mezzi di realizzazione del reato come conseguenza secondaria, l’apprensione di tali mezzi nei testi di cui si tratta adempie ad una funzione strettamente servente rispetto a quella confisca che costituisce il principale intento da conseguire [2].
In questa direzione non può non tenersi conto, allora, di come la confisca in generale, molto più di quanto non siano in grado di fare le misure cautelari personali, sia uno strumento particolarmente duttile ed efficace nel combattere alcune fenomenologie criminali aventi tutte come comune denominatore il movente economico, privando di attrattiva la scelta delinquenziale con il conseguente depauperamento del patrimonio e la successiva perdita di potere e considerazione sociale. Uno stimolo importante alla diffusione di simili istituti è certamente provenuto dai suggerimenti offerti dalle organizzazioni sovranazionali, con la correlata presa di coscienza da parte del legislatore interno della necessità di implementare il ricorso agli strumenti ablativi facilitandone le condizioni di applicazione, per far fronte con maggiore flessibilità alle sempre più curate e sofisticate forme di aggressione economica dell’altrui patrimonio.
In tal senso, basti pensare all’ipotesi del sequestro finalizzato alla “confisca per equivalente”, che si riferisce a quel provvedimento ablatorio che viene assunto a seguito di condanna per determinati reati ed in relazione a cose che non rappresentano il profitto o il prezzo del reato, bensì beni o altre utilità nella disponibilità del colpevole e di valore corrispondente - il cosiddetto tantundem - al prezzo o al profitto del reato [3]. La norma menzionata dal ricorrente è quella contenuta nell’art. 322-ter c.p., introdotta dalla legge 29 settembre 2000, n. 300 [4], che regolamenta una speciale ipotesi di confisca obbligatoria che interviene in caso di condanna per specifiche ipotesi delittuose e che, allorquando non sia possibile l’apprensione del patrimonio in forma qualificata [5], può riguardare i beni del responsabile dell’illecito per un valore appunto “equivalente”, ossia corrispondente, al prezzo o al profitto del reato. Per il caso di corruzione attiva, poi, di cui all’art. 321 c.p., la confisca obbligatoria è prevista unicamente in relazione al profitto e solo di quest’ultimo è prevista la confiscabilità per equivalente, con un limite minimo di beni confiscabili commisurato all’entità della tangente.
Attraverso tale misura si perseguono obiettivi di deterrenza e compensazione in quanto si neutralizzano in modo incisivo i vantaggi economici derivanti dall’attività criminosa e si rimuovono situazioni di indebito arricchimento ottenuto contra legem. Inoltre, a tale tipo di confisca si può ricorrere in maniera più agevole grazie all’ampliamento delle condizioni di applicabilità e al loro facile accertamento. In particolare, come detto, si può prevedere l’applicazione di questa ipotesi speciale di confisca nel caso in cui si proceda per uno dei reati previsti dalla norma sulla base del mero accertamento della non appartenenza dei beni ad un estraneo e della semplice circostanza che nella sfera giuridico-patrimoniale dell’autore del reato non venga altrimenti rinvenuto il prezzo o il profitto del reato.
La confisca “di valore” con la connessa possibilità di procedere “per equivalente” è, dunque, una forma di ablazione cui si ricorre con sempre maggiore frequenza vista l’elasticità con la quale la stessa consente di contrastare la criminalità del profitto [6]. Essa permette, infatti, di superare gli ostacoli o le difficoltà che potrebbero verificarsi nell’individuazione dei beni specifici costituenti profitto o prezzo del reato, soprattutto nel caso in cui si tratti di beni fungibili, distratti, consumati, occultati, alienati, trasformati, reinvestiti o reimpiegati dal trasgressore rispetto ai quali risulti indimostrabile il nesso di derivazione causale, anche indiretto, dal reato [7] e la giurisprudenza la definisce una “forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti” [8].
Chiaramente, seppure ci si allontana dal modello originario e dalla natura di misura di sicurezza della confisca, che si tinge sempre più di finalità sanzionatorie, non si può comunque rinunciare al puntuale rispetto delle garanzie sottese all’applicazione di istituti che incidono pur sempre su diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati e sui quali, proprio per l’inflazione subita negli ultimi tempi, si sono accesi i riflettori delle Corti sovranazionali, deputate al vaglio circa l’osservanza degli stessi. D’altro canto, l’equivalenza deve riguardare solo l’oggetto specifico dell’ablazione posta in essere e, considerata la sua natura obbiettivamente afflittiva, non può eliminare del tutto la necessità di verificare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura, quali il nesso di pertinenzialità tra la cosa e il fatto delittuoso. Infatti, seppure tale nesso non sarà rinvenibile, com’è ovvio, con riferimento al bene specifico confiscato nel suo valore “equivalente”, ciò non significa che si possa prescindere dall’esistenza di un prezzo o profitto che derivi causalmente dal reato. In altri termini, il fatto che la misura reale si rivolga non al bene che costituisce il prezzo o il profitto del reato ma ad altro bene considerato nel tantundem che si trovi nella disponibilità del condannato, presuppone che il suddetto prezzo o profitto siano storicamente esistiti e che ne sia poi divenuta impossibile l’ablazione in forma specifica e diretta. Se così è, ben si comprende come a fondamento della misura debba sussistere uno scrupoloso accertamento circa la configurabilità del reato ipotizzato, che dovrà essere espletato nel più ampio rispetto dei diritti difensivi e del criterio di valutazione “oltre ogni ragionevole dubbio”.
In tal senso, non deve destare meraviglia quanto affermato dalla pronuncia in commento poiché è del tutto evidente che un simile accertamento operato in sede di cognizione e posto in termini di causalità con la misura ablativa patrimoniale non possa essere oggetto di rivalutazione in sede cautelare, dove, comunque, la valutazione dei presupposti della misura e, in primis, la configurabilità del fatto di reato contestato, non potrebbero essere messe in discussione una volta che sia intervenuta una pronuncia di condanna in sede di merito, pur non ancora passata in giudicato.
Discorso diverso quanto all’esistenza del nesso di pertinenzialità ma analogo con riferimento alla necessità di individuare una precisa responsabilità per determinati reati [9] opera per la cd. “confisca allargata” o “per sproporzione” di cui all’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356 [10] rispetto alla quale è pure consentita l’ablazione nel tantundem ai sensi del suo comma 2-ter [11]. Essa è considerata una delle forme più avanzate di contrasto ai patrimoni di mafia, in cui sussiste a carico del titolare apparente di beni una presunzione di illecita accumulazione patrimoniale con la correlata inversione dell’onere della prova, dovendo questi dimostrare da quale reddito legittimo provenga l’acquisto e la veritiera appartenenza del bene medesimo [12]. Qui il legame tra il bene ed il reato è interrotto, non dovendo sussistere un necessario nesso di derivazione del primo dal secondo [13], pur con i dovuti correttivi dettati dalla giurisprudenza di legittimità [14]. Ad ogni buon conto, anche in questo caso, per poter disporre il sequestro preventivo di beni confiscabili a norma dell’art. 12 sexies, comma 4, devono ricorrere alcune condizioni necessarie e sufficienti. Esse consistono, quanto al fumus commissi delicti, nell’astratta configurabilità del fatto attribuito all’indagato anche in relazione alle concrete circostanze indicate dal pubblico ministero, ossia di una delle ipotesi criminose previste dalla norma in discorso, senza che rilevino né la sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità. Per quanto concerne, invece, il periculum in mora, coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene, dovranno essere presenti seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto [15], sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza degli stessi [16]. Dunque, per poter provvedere con la confisca, deve sussistere un accertamento della responsabilità penale del condannato per uno dei reati presupposto e la verifica in ordine al fatto che il denaro, i beni o le altre utilità su cui ricada il provvedimento ablativo abbiano un valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato a fini impositivi o all’attività economica svolta in assenza di una giustificazione circa la loro legittima provenienza [17].
È evidente allora come, anche in siffatte evenienze, l’esistenza di una pronuncia di condanna assuma un’efficacia preclusiva rispetto ad un nuovo vaglio dei presupposti della misura in sede cautelare una volta che si sia passati dalla misura reale alla vera e propria confisca.
Dal fumus commissi delicti della cautela reale alla confisca
Tra i presupposti per l’adozione del provvedimento di cautela reale, oltre al periculum in mora, vi è il fumus commissi delicti o fumus boni iuris. Non può, infatti, ammettersi l’apposizione di un vincolo di indisponibilità in via provvisoria e strumentale, secondo la forma tipica della tutela cautelare, se non sussistano contestualmente i presupposti che ne giustifichino l’adozione e attenuino il rischio derivante dall’incertezza della situazione da tutelare [18].
Già nel momento in cui il legislatore, all’art. 321 c.p.p., fa esplicito riferimento alle cose che sono pertinenti ad un reato per delimitare l’oggetto del sequestro preventivo, egli di fatto denuncia la necessità che sia stato preventivamente commesso un fatto di reato e che vi siano in tal senso validi elementi dimostrativi [19]. Oggetto della valutazione da parte dell’organo decidente non sono, dunque, gli indizi di colpevolezza ma soltanto l’astratta configurabilità del reato ipotizzato, il cd. fumus commissi delicti [20].
Se, dunque, il fumus deve limitarsi all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato [21] o al giudizio di probabilità circa il verificarsi di una situazione futura che si mira a proteggere, è evidente che, una volta intervenuta una sentenza di condanna, seppur non ancora irrevocabile, vi sia stata una presa di posizione sul punto, essendosi un giudice del merito già pronunciato non solo sull’astratta configurabilità o sulla qualificata probabilità di verifica, ma addirittura sulla concreta sussistenza, “oltre ogni ragionevole dubbio”, dell’ipotesi delittuosa considerata. In particolare, per quanto concerne la valutazione in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti, proprio in tema di applicazione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente si è detto come non debbano necessariamente ricorrere gravi indizi di reità, ma non sia nemmeno sufficiente la mera attribuibilità di un reato a taluno.
D’altro canto, la cognizione del giudice cautelare, sia per i fini, sia per i tempi di intervento che le sono attribuiti, non ha la possibilità di svolgere una verifica sull’effettiva sussistenza del diritto suscettibile di tutela - compito del giudice del procedimento principale - ma si limita a valutarne l’apparenza [22]. In tal senso, deve comprendersi l’affermazione contenuta nella pronuncia in commento secondo cui, una volta che sia intervenuta una pronuncia di merito, il giudice della cautela non possa più esprimersi in merito all’esistenza di un fumus, perché in qualche modo, seppur in altra sede - ed in quella precipuamente deputata a ciò - il reato sarebbe già stato ritenuto sussistente e imputato alla responsabilità di un soggetto ben definito, tanto da essere passati dallo strumento della cautela reale a quello definitivo - seppur non immediatamente esecutivo - della confisca.
Proprio in questo passaggio, peraltro, parrebbe rinvenirsi la correttezza del ragionamento seguito dai giudici di legittimità. Infatti, una volta che un giudice abbia statuito in merito alla confisca dei beni, verrebbe a mancare quella situazione “futura ed incerta” in vista della quale la cautela ordinariamente viene predisposta, con il conseguente venir meno della funzione cautelare per l’avvenuto verificarsi della situazione finale alla quale la cautela reale era preordinata.
Ma vi è di più, in quanto se, come detto, per applicare le tipologie di confisca di cui si è detto, presupposto è l’esistenza di una condanna o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei nomina criminis indicati dalle norme, ne deriva che tale strumento di ablazione del patrimonio trova il suo fondamento e limite nel vantaggio tratto dalla commissione del reato e prescinde dalla pericolosità derivante dalla res [23]. Una simile asserzione dimostra come tale tipologia di confisca sia uno strumento con cui punire un fatto previsto dalla legge come reato e accertato in quanto tale e non per prevenire la pericolosità - anche oggettiva - che può sussistere anche nei confronti di un soggetto non punibile: in ciò sta la presa di distanza della confisca dal modello della misura di sicurezza ex art. 240 c.p., che della pericolosità si interessa, per avvicinarsi sempre più al modello della pena, improntata invece sulla responsabilità riconosciuta o supposta del soggetto [24].
In tal senso si sono orientati quegli indirizzi che vedono tale confisca come una vera e propria sanzione, infatti tesa a perseguire finalità di giustizia piuttosto che di mera utilità. Essa, dunque, non avrebbe come fine ultimo quello della profilassi criminale con la valutazione circa il futuro comportamento del reo - proprio della misura di sicurezza fondata sulla prognosi di non recidiva - ma quello - tipico della pena - di repressione, attraverso l’impedimento alla conservazione di beni o utilità ottenute a seguito della commissione di un fatto di reato [25].
Tale impostazione trova peraltro un preciso riscontro anche con riferimento ai profili procedurali, in quanto la competenza per l’esecuzione della confisca spetta al giudice dell’esecuzione e non al magistrato di sorveglianza, così come accade per le misure di sicurezza. Analogamente, come si avrà modo di sviluppare amplius nel prosieguo, sotto il profilo degli strumenti di impugnazione del provvedimento ablativo, i capi relativi alla confisca si impugnano con le regole ordinarie, a differenza di quanto si realizza in materia di misure di sicurezza, per le quali la competenza ricade sempre sui giudici della sorveglianza. Il fatto che la confisca, costruita come misura di sicurezza, tenda o viri verso il suo archetipo sanzionatorio [26] sembrerebbe allora addirittura “rafforzare” la scelta normativa e la posizione assunta dalla giurisprudenza che vuole che contro la stessa si proceda con gli ordinari rimedi impugnatori e non con i gravami cautelari. D’altro canto, parrebbe una conclusione coerente con il sistema quella per cui, se davvero la confisca intervenga con funzione di pena o sia ad essa assimilata, avverso la stessa si debba proporre un’impugnazione di merito, ossia l’unica davvero abilitata a rimettere in discussione i presupposti di quell’ablazione nel pieno dei poteri difensivi e dinanzi ad un nuovo giudice di cognizione.
Da qui è nata l’esigenza di precludere la valutazione su questioni che siano già state oggetto di delibazione nel procedimento principale confluite in decisioni suscettibili di abbracciare nel decisum il nuovo petitum, cioè aventi appunto valore assorbente rispetto alle questioni stesse [27]. È ben vero che nel nostro ordinamento vige il principio della presunzione di non colpevolezza, operante fino a che non sia intervenuta una sentenza ormai passata in giudicato, ma esigenze di certezza e di stabilità impongono che sia proprio in sede di merito a doversi operare questo nuovo vaglio. Diversamente ragionando e non operando la citata preclusione processuale ad una diversa delibazione dei fatti da parte del giudice della cautela, si rischierebbe di andare incontro ad una pericolosa coesistenza di due pronunce, una incidentale, l’altra di merito, seppure non definitiva, tra loro confliggenti. Come anche chiarito dalla giurisprudenza di legittimità [28], sono ragioni di razionalità del sistema e la “funzione servente” che il procedimento cautelare ha riguardo a quello di merito che fanno sì che il primo non possa porsi rispetto a quest’ultimo come sede decisoria alternativa e potenzialmente in conflitto.
La funzione servente del procedimento cautelare rispetto a quello di merito e il principio dell’assorbimento
Da tutto quanto detto discende la necessità di dirimere con precisione compiti e funzioni dei giudici della cautela rispetto a quelli della cognizione di modo da evitare che un possibile concorso di pronunce di segno diverso crei conflitti di giudizi e, correlativamente, incoerenza, instabilità, incertezza del diritto.
Il principio dell’assorbimento, in particolare, riguarda l’elaborazione di natura giurisprudenziale relativa proprio ai rapporti tra il procedimento incidentale cautelare e il processo di merito e si occupa del problema della non interferenza fra res iudicandae [29]. Ciò in quanto vi sono dei limiti, che per certi versi si potrebbero definire gnoseologici, che ostano a valutazioni confliggenti con lo stato di consolidamento del materiale probatorio [30].
In tal senso, ogni valutazione in un giudizio che coinvolga il merito assorbe la valutazione in sede cautelare e la rende inammissibile sotto il profilo della contestazione dei presupposti giustificativi della misura. Infatti, come accennato, la necessità di non confondere i due piani risulta vieppiù strumentale ad una corretta scelta circa le sedi nelle quali coltivare legittimamente le proprie doglianze, senza incorrere nel rischio di vederle dichiarate inammissibili.
Com’è noto, la valutazione operata in sede cautelare risponde alla necessità, contingente e passibile di modifiche nel prosieguo del procedimento, di intervenire con una misura ablativa del patrimonio allorquando vi siano specifiche necessità di cautela, laddove la sede del merito risulta, invece, quella deputata a vagliare la sussistenza del fatto di reato e la responsabilità del suo autore. I due procedimenti, peraltro, pur essendo congiunti, mantengono una loro autonomia sul piano oggettivo e l’esito del procedimento cautelare non svolge alcun effetto sulla formazione della decisione di merito [31].
Nel sistema delle misure cautelari reali così come originariamente pensate dal legislatore, allora, il distacco temporale tra il momento di attivazione dell’accertamento giurisdizionale e quello di conclusione dello stesso può far sì che la decisione finale intervenga su una realtà di fatto diversa rispetto a quella di partenza, poiché quest’ultima ha continuato ad evolversi e modificarsi [32]. Ciò è tanto vero che autorevole dottrina ha pure osservato come “in un ordinamento processuale puramente ideale, in cui il provvedimento definitivo potesse essere sempre istantaneo, in modo che, nello stesso momento in cui l’avente diritto presentasse la domanda, subito potesse essergli resa giustizia in modo pieno ed adeguato al caso, non vi sarebbe più posto per i provvedimenti cautelari” [33]. Sono, dunque, caratteri comuni alle misure cautelari quello della “provvisorietà”, intesa come durata limitata dei suoi effetti nel senso che la misura trova esplicazione sino al sopraggiungere di un fatto successivo in vista ed in attesa del quale la misura cautelare era stata adottata e provvisoriamente mantenuta, e quello della “strumentalità”, da intendersi come preordinazione all’adozione del susseguente provvedimento definitivo [34].
Dalle citate definizioni emerge, dunque, la stretta interconnessione tra l’adozione della cautela e la decisione del giudizio, assumendo più precisamente il procedimento cautelare una vera e propria funzione servente rispetto a quello di merito. Quale conseguenza, il carattere “strumentale” o “sussidiario” del provvedimento cautelare non può che essere assorbito e travolto dalla pronuncia con la quale si sia concluso, seppur in prime cure, il giudizio di merito, così evidenziandosi l’inidoneità della tutela cautelare ad estrinsecarsi indipendentemente da un accertamento processuale [35].
Peraltro, nel caso di sequestro finalizzato alla confisca, come nell’ipotesi sottoposta all’attenzione della Corte, il vincolo adottato ai sensi dell’art. 321 c.p.p. ha un carattere speculare rispetto alla misura ablativa disposta in sentenza, dovendone garantire la precisa esecuzione all’esito del giudizio [36] e dare, dunque, concretezza ed effettività alla decisione finale emessa al termine del giudizio di cognizione. Ciò con la conseguenza che il sequestro stesso, pur disposto successivamente nel caso analizzato dai giudici di legittimità, sarebbe nato con un “vizio di fondo”, non essendo suscettibile di rivalutazione nella sede sua propria, ma risultando superato “a monte” dall’esistenza di una decisione di merito già assunta - seppur non definitiva - anche in ordine alla futura confisca.
Una tale considerazione, da cui discende il venir meno della legittima impugnabilità in sede incidentale di un provvedimento di ablazione reale per sua natura temporaneo e contingente, a ben vedere, non fa altro che suffragare quella funzione strumentale che, come detto, è tipica dell’istituto del sequestro volto alla confisca e che la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire in molteplici pronunce conformi sia in materia di cautele reali che personali.
In subiecta materia, come ricorda anche la sentenza in discorso, vige, infatti, il principio secondo cui “una volta intervenuta, nel corso del procedimento principale, la sentenza non definitiva di merito, il giudice della cautela non può discostarsi, nella valutazione del “fumus delicti” e del “periculum in mora”, dai fatti (anche incidentali), così come accertati in sede di cognizione” [37]. Non può allontanarsene nella valutazione del fumusessendosi accertata in sede di merito quella situazione futura e incerta che si mirava a tutelare; non può nemmeno discostarsene nella valutazione del periculum - teso per definizione a prevenire il danno che minaccia il diritto in attesa del sopravvenire del provvedimento definitivo [38] - poiché assorbito dal giudizio di cognizione.
Così è a dirsi in egual misura anche in tema di misure cautelari personali, in relazione alle quali la Corte di cassazione ha avuto molteplici occasioni di affermare che «una volta intervenuta la sentenza di condanna anche non definitiva, la valutazione degli elementi rilevanti ai fini del giudizio incidentale, anche in sede di riesame o di appello, deve mantenersi nell’ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all’affermazione di colpevolezza e alla qualificazione giuridica, ma anche per tutte le circostanze del fatto, non potendo essere queste apprezzate in modo diverso dal giudice della cautela» [39] e non potendosi risolvere diversamente in quella sede questioni incidentali già affrontate nel giudizio di merito [40]. In tal senso non può che valorizzarsi la natura incidentale, eventuale ed accessoria del procedimento cautelare, atteso che la sua “non essenzialità” permette di configurarlo quale «procedimento collaterale che non si sovrappone al processo principale, né si identifica con esso ma ne costituisce una diramazione accessoria ed eventuale» [41].
Infatti, l’intervenuta sentenza di condanna - e, in particolare, ci si riferisce al momento della lettura del dispositivo e non a quello, successivo, del deposito della motivazione [42] - rappresenta il limite temporale a partire dal quale risulterà preclusa ogni autonoma valutazione in sede cautelare dei fatti contestati, non potendo gli stessi essere delibati in maniera differente neppure in conseguenza di una difforme valutazione in punto di diritto circa l’utilizzabilità o meno delle prove [43]. Più nello specifico, poi, si è anche avuto modo di chiarire come proprio l’esistenza di un giudizio di condanna implichi la non riproponibilità, in sede di procedimento cautelare, della questione concernente la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza poiché il principio dell’autonomia del procedimento incidentale “de libertate” rispetto a quello principale non può essere interpretato in termini rigorosi e astratti creando il pericolo che vengano ad esistere per paradosso due pronunce giurisdizionali sul tema della colpevolezza, l’una incidentale e di tipo prognostico, l’altra fondata sul pieno merito e suscettibile di passare in giudicato, tra di loro contrastanti.
Un tale ragionamento, peraltro, trova piena conferma anche nei principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 71 del 1996 [44], nella quale risulta assunto come punto di riferimento il rispetto del “principio di assorbimento”, nel senso che la valutazione in sede incidentale del requisito dei gravi indizi di colpevolezza può dirsi preclusa solo quando “intervenga una decisione che contenga in sé una valutazione del merito di tale incisività da assorbire”, appunto, l’apprezzamento in ordine al suddetto requisito, con la precisazione che, secondo la stessa Corte, tale preclusione non si verifica quando sia intervenuto soltanto il rinvio a giudizio, ma ben può e deve dirsi verificata quando il giudizio abbia dato luogo ad un’affermazione, sia pur non definitiva, di colpevolezza [45]. La stessa ratio dell’assorbimento impone, peraltro, che dopo una pronuncia di merito anche la valutazione delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. debba avvenire alla stregua della ricostruzione operata in sede di giudizio con riguardo non solo alla qualificazione dei fatti ed alla pronuncia di colpevolezza ma anche alle circostanze del fatto che non possono essere diversamente apprezzate dal giudice della cautela [46].
In altre parole, lo si ribadisce, una volta intervenuta una decisione di merito - anche se non ancora definitiva - resta ormai precluso al giudice della cautela fornire una difforme ricostruzione della vicenda operata in sede di giudizio per effetto di una diversa valutazione in fatto e/o in diritto e ciò per evidenti ragioni di certezza e razionalità del sistema, nonché per l’ovvia funzione servente che il procedimento cautelare ha riguardo a quello di merito, rispetto al quale non può certo porsi come sede decisoria alternativa e potenzialmente in conflitto [47].
Se, dunque, il giudizio in ordine alla sussistenza dell’ipotizzato reato inibisce una rivalutazione in sede cautelare del fumus commissi delicti, parallelamente e a contrario anche la pronuncia di merito che abbia negato la sussistenza del reato - o la confiscabilità dei beni [48] - non potrà essere rimessa in discussione in quella sede. Ciò è tanto vero che, secondo i giudici di legittimità, «in tema di misure cautelari reali, è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto dell’appello diretto ad ottenere il riconoscimento dell’esistenza del “fumus delicti”, qualora nel frattempo sia intervenuta una sentenza di non luogo a procedere che abbia escluso la sussistenza del fatto-reato, il cui epilogo non può essere rimesso in discussione in sede di incidente cautelare» [49]. Secondo la suprema Corte, infatti, «le pronunce nel merito costituiscono epiloghi decisori preclusivi di qualsiasi delibazione sul “fumus criminis” da parte del giudice cautelare impedendogli, in presenza di una sentenza non definitiva di merito emessa nel corso del procedimento principale sulla regiudicanda, qualsiasi valutazione tanto nell’ipotesi di pronuncia di condanna, nel qual caso sono precluse le questioni concernenti la reclamata assenza degli indizi [50], quanto nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento, nel qual caso sono precluse le questioni sul reclamato riconoscimento del quadro indiziario». Infatti, si osserva come una sentenza di proscioglimento nel merito costituisca una condizioni impeditiva (quanto all’introduzione) o estintiva (quanto al mantenimento) delle misure limitative della libertà personale o reale. Tale conclusione risulta imposta dall’art. 300 c.p.p., per le misure cautelari personali [51], e dall’art. 323 c.p.p., per le misure cautelari reali, in quanto tali disposizioni, prevedendo la perdita di efficacia delle misure in corso di esecuzione in presenza, tra l’altro, di sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere, vietano, a maggior ragione, che le restrizioni di libertà possano essere introdotte al cospetto delle fattispecie estintive in esse indicate.
L’impugnazione del solo capo relativo alla confisca ex art. 579, comma 3, c.p.p. da parte dell’imputato
Nelle parole dei giudici di legittimità la sopravvenienza del provvedimento di confisca comporta che ogni questione relativa alla misura patrimoniale debba essere fatta valere da parte dell’imputato esclusivamente con lo strumento dell’impugnazione di merito della sentenza, che egli è legittimato a proporre ai sensi dell’art. 579, comma 3, c.p.p., dovendosi correlativamente dichiarare inammissibile l’eventuale impugnazione cautelare proposta.
Nel caso di specie, poi, deve rilevarsi come il soggetto interessato a far valere il diritto alla restituzione dei beni coincida con l’imputato avendo egli subito il provvedimento ablativo che lo priva, a titolo definitivo, della proprietà dei beni colpiti dal sequestro, la cui funzione è proprio quella di assicurare la successiva confisca dei beni stessi al momento della pronuncia della sentenza di condanna. Da ciò discende come, secondo quanto affermato in altra sede da parte dei giudici di legittimità, «in capo all’imputato non residui alcun potere di contestare in sede cautelare la sussistenza del presupposto che ha legittimato il sequestro, costituito proprio dalla confiscabilità dei beni, censurabile ormai soltanto mediante l’impugnazione della sentenza di merito che, disponendo la confisca, ha realizzato la funzione cautelare del sequestro» [52]. La perfetta coincidenza, per l’imputato, dell’oggetto dell’impugnazione cautelare con quello dell’impugnazione di merito del provvedimento di confisca, costituito in entrambi i casi dalla contestazione della sussistenza nei suoi riguardi dei presupposti ai quali viene subordinata l’ablazione dei beni - in via di cautela preventiva in un caso e in via definitiva nell’altro - determina, dunque, l’assorbimento del primo rimedio nel secondo, con conseguente inammissibilità di un ricorso autonomo avverso il provvedimento cautelare [53].
D’altro canto, come visto, la differente funzione del giudizio incidentale rispetto a quello di merito e l’esigenza di certezza del diritto fa sì che non si possa disporre di una contestualità di mezzi di impugnazione eterogenei con il connesso pericolo di giudizi contrastanti. Nemmeno si può superare l’eventuale pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione cautelare mediante il richiamo all’art. 580 c.p.p. Quest’ultimo, infatti, prevede la sola conversione del ricorso in appello e, dunque, non potendosi operare un’applicazione analogica, logica conseguenza non potrà che essere la dichiarazione di inammissibilità del mezzo di impugnazione cautelare prescelto in luogo di quello, corretto, di merito.
Per quanto concerne il rimedio adottato dai giudici di legittimità di cui all’art. 579, comma 3, c.p.p. [54], si rileva che l’impugnazione del solo capo relativo alla confisca contenuto nella sentenza di primo grado debba essere proposta con gli stessi mezzi previsti per i capi penali, spettando, dunque, la competenza funzionale a decidere in capo alla Corte d’Appello - anziché al tribunale di sorveglianza [55], come invece accade per le impugnazioni delle misure di sicurezza [56] - ovvero alla Corte di cassazione in caso, per esempio, di misura ablativa emanata a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti [57]. Come è stato osservato, una tale differenziazione nella competenza funzionale rispetto a quella prevista in materia di misure di sicurezza «discende dalla circostanza che le impugnazioni proposte in tema di confisca generalmente riguardano questioni di diritto che sono estranee alle attribuzioni cognitive della magistratura di sorveglianza» [58].
Peraltro, la locuzione “disposizione che riguarda la confisca” contenuta nella norma in discorso si riferisce non soltanto alle statuizioni accessorie della sentenza penale che decidono positivamente sulla confisca, ma anche a quelle che la negano. Ciò con la conseguenza che, come detto, l’impugnazione deve essere presentata con i mezzi previsti per i capi penali anche in caso di gravame proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza che non abbia accolto la richiesta di confisca [59].
Trattandosi, poi, di un appello di merito, opererà senz’altro il principio del tantum devolutum quantum appellatur e, dunque, il Collegio ben potrà pronunciarsi sul vincolo patrimoniale solo se ed in quanto la relativa questione gli sia stata correttamente prospettata in sede di impugnazione. Inoltre, nel caso in cui il gravame provenga dal solo imputato, pare potersi affermare senza timore di smentita che viga, anche in siffatta evenienza, il divieto di reformatio in peius ex art. 597 c.p.p., con la conseguenza che, laddove la misura ablativa non sia stata disposta in primo grado ovvero la si sia illegittimamente esclusa [60], il giudice dell’appello non potrà autonomamente prevedere la confisca dei beni sequestrati [61].
Segue: La mancanza di analoga possibilità di impugnazione da parte del terzo interessato
Problematiche applicative invero più importanti si rinvengono nel caso in cui il provvedimento di confisca disposto con la sentenza di primo grado non ancora irrevocabile riguardi beni già sottoposti a sequestro preventivo che siano però di proprietà - o sui quali gravi un diritto reale di garanzia - di un terzo rimasto estraneo al giudizio.
Il principio di diritto affermato nella pronuncia in commento secondo cui, una volta intervenuta la sentenza di condanna, è inammissibile l’impugnazione cautelare volta a contestare l’esistenza dei presupposti della misura reale dovendosi proporre la doglianza con i mezzi di impugnazione delle sentenze si riferisce, infatti, ovviamente, al caso in cui il soggetto leso nei suoi diritti patrimoniali sia parte del giudizio e, in quanto tale, abbia facoltà di adire in secondo grado il giudice del merito per sottoporre a nuovo vaglio la regolarità e i presupposti della misura ablativa.
Proprio con riferimento a tale problematica, già una parte della giurisprudenza di legittimità, pronunciandosi in un caso simile a quello in commento, aveva avuto modo di chiarire come «la conclusione così raggiunta non può ritenersi contraddetta dalla massima apparentemente contraria di cui alla sentenza sez. 3, n. 42362 del 18 settembre 2013, Rv. 256976, secondo cui permane l’interesse del proprietario dei beni caduti in sequestro a contestare attraverso l’appello proposto al tribunale del riesame il permanere delle condizioni giustificative del vincolo, anche quando sia intervenuta sentenza non irrevocabile di condanna che abbia disposto la confisca dei beni stessi, in quanto, come si evince dalla lettura della motivazione, la relativa affermazione di principio riguardava il caso - diverso - in cui la sentenza che aveva disposto la confisca era stata emessa nei confronti di altri soggetti, diversi dal proprietario (apparente) dei beni che ne aveva rivendicato la restituzione, che era rimasto estraneo al processo penale ed era perciò privo di legittimazione a impugnare la sentenza, disponendo dell’appello cautelare come unico rimedio attivabile per contestare il vincolo gravante sui beni fino al passaggio in giudicato della confisca, posto che solo in quel momento egli sarebbe stato legittimato a contestare il merito del provvedimento ablativo mediante la proposizione di apposito incidente di esecuzione nelle forme dell’art. 676» [62].
In altre pronunce si era, poi, osservato come, essendo il proprietario di beni caduti in sequestro estraneo al procedimento nel quale era stata emessa la sentenza che disponeva la confisca, restasse fermo il suo interesse a contestare attraverso l’appello proposto al tribunale del riesame il permanere delle condizioni giustificative del vincolo. D’altro canto, secondo la Cassazione, «l’intervento di una sentenza di condanna, che ha disposto la confisca, non ancora divenuta irrevocabile, non ha mutato il titolo giuridico in base al quale i beni sono sottoposti a vincolo reale», costituito dall’originario decreto di sequestro [63]; ciò con la conseguente legittimazione del terzo a proporre l’impugnazione ex art. 322-bisc.p.p. [64].
Sempre su questo filone favorevole al riconoscimento dei diritti di impugnazione - sia pur in sede cautelare - da parte dei terzi estranei al procedimento, si era, quindi, sostenuto come anche avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di dissequestro i proprietari di buona fede degli immobili sequestrati fossero legittimati a proporre appello cautelare, in quanto «titolari di un legittimo e concreto interesse giuridico alla loro restituzione» [65]. Peraltro, nel corso del giudizio di cognizione, si tratterebbe del solo rimedio esperibile, essendosi chiarito in tal senso che «l’ordinanza con cui il giudice del dibattimento, in pendenza del processo, provvede sull’istanza di dissequestro, proposta da un terzo che non è parte del giudizio, è impugnabile esclusivamente mediante l’appello previsto dall’art. 322-bis c.p.p., non trovando applicazione in tale ipotesi il generale principio dell’impugnabilità dell’ordinanza unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, in quanto il terzo non è legittimato a proporre impugnazione avverso tale sentenza» [66].
È vero, infatti, che, in generale, in Cassazione, si era venuto affermando il principio secondo cui «l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento dispone la restituzione all’avente diritto di un bene sottoposto a sequestro probatorio può essere impugnata, a mente dell’art. 586 c.p.p., non autonomamente, ma solo unitamente alla sentenza che definisce il relativo grado di giudizio, dovendosi escludere la sua ricorribilità in cassazione, in applicazione della disciplina camerale di cui all’art. 127 c.p.p., in quanto l’art. 263 c.p.p., che regola la procedura per la restituzione delle cose in sequestro, rinvia a detta disciplina soltanto con riferimento alla fase delle indagini preliminari e non a quella del giudizio, dove il contraddittorio fra le parti si è già instaurato». Però, in particolare, «questo principio non è operante se a chiedere il dissequestro sia un terzo che non è parte nel giudizio e non avrebbe la possibilità di impugnare la sentenza che la Corte d’appello è chiamata a rendere. In tal caso varrebbe, infatti, all’opposto, la disciplina ordinaria ex art. 322 bis c.p.p. che prevede la possibilità dell’appello in favore di chi, pur non essendo imputato né parte del procedimento penale, avrebbe diritto alla restituzione delle cose sequestrate» [67].
Tuttavia, una volta escluso l'autonomo potere di impugnativa nel merito da parte del terzo avverso la statuizione di primo grado, si deve dare atto di come, anche con riferimento ai "diritti procedurali" allo stesso spettanti e volti alla restituzione dei beni, non vi fosse uniformità di vedute in giurisprudenza, tanto da aver portato al recentissimo coinvolgimento delle sezioni unite della suprema Corte.
In particolare, oltre alla suddetta impostazione tesa al riconoscimento della facoltà di proporre appello dinanzi al tribunale del riesame, non pare superfluo ricordare come, secondo altri orientamenti, il rimedio esperibile dal terzo fosse piuttosto quello dell'incidente d'esecuzione, salvo poi chiarire se una tale procedura fosse attivabile o meno prima che la sentenza fosse divenuta irrevocabile. Così, preso atto del riscontrato contrasto giurisprudenziale, la I sezione della Corte di cassazione ha recentemente investito del problema le sezioni unite, sottoponendo alle stesse la seguente questione di diritto: “se i terzi proprietari del bene confiscato, rimasti estranei al giudizio di cognizione, siano legittimati a esperire incidente di esecuzione prima della irrevocabilità della sentenza che contenga la statuizione di confisca” [68].
Ebbene, nella ricostruzione del contrasto che ha dato luogo alla richiesta dell'intervento regolatore da parte del massimo Consesso, deve osservarsi come, secondo alcune pronunce, «il terzo estraneo al giudizio non ha diritto di impugnare la sentenza nella quale sia stata disposta la confisca di un bene sottoposto a sequestro preventivo, ma può chiederne la restituzione, esperendo incidente d’esecuzione, sia nel corso del procedimento, sia dopo la sua definizione e, avverso eventuali decisioni negative del giudice di merito, può proporre opposizione e, successivamente, ricorso per cassazione» [69]. Dunque, il terzo, proprio per il fatto di non essere “parte” del giudizio, non avrebbe facoltà di impugnare nel merito la sentenza per il capo relativo alla disposta confisca ex art. 579, comma 3, c.p.p., ma potrebbe comunque presentare istanza di restituzione del bene confiscato al giudice che procede. Questi, per parte sua, potrà decidere, applicando analogicamente la procedura di cui agli artt. 676, comma 1, e 667, comma 4, c.p.p., senza formalità, con ordinanza - da comunicare al pubblico ministero e da notificare all’interessato - non suscettibile di impugnazione, ma solo di opposizione dinanzi allo stesso giudice, il quale dovrà procedere nelle forme indicate dall’art. 666 c.p.p. [70]. Secondo taluno, peraltro, l’istanza di restituzione potrebbe essere presentata solo nel caso in cui il provvedimento ablativo non sia ancora definitivo, dovendosi, invece, ricorrere al giudice dell’esecuzione nel caso in cui la sentenza sia ormai divenuta irrevocabile [71].
Come accennato, però, anche la suddetta impostazione non risultava pacifica, esistendo al contrario un dibattito giudiziario, accentuatosi con le più recenti decisioni, che rispecchiava la sussistenza di diverse soluzioni interpretative.
Più nello specifico, secondo l’ultima impostazione della giurisprudenza di legittimità, «in tema di misure cautelari reali, quando sia intervenuta una sentenza non irrevocabile di condanna, al terzo interessato è precluso fino alla formazione del giudicato di rivolgersi al giudice della cognizione per far valere i propri diritti sui beni in sequestro» [72].
Secondo questo orientamento, dunque, quando sia intervenuta una sentenza non irrevocabile di condanna deve escludersi non solo la possibilità di restituire i beni di cui è stata disposta la confisca, ma anche l’immediata esecutività dei provvedimenti restitutori dei beni sottoposti a sequestro preventivo di cui non sia stata disposta la confisca, potendo quest’ultima intervenire nel successivo grado di giudizio di merito e, ricorrendo l’ipotesi di confisca obbligatoria, anche in sede esecutiva [73].
In sostanza, «se nel corso delle indagini preliminari e durante il giudizio di primo grado, il terzo potrebbe far valere - dinanzi all’autorità giudiziaria procedente - i propri diritti sui beni sequestrati, allo stesso sarebbe invece precluso di rivolgersi al giudice della cognizione dopo la sentenza non irrevocabile di condanna e fino alla formazione del giudicato di condanna. Non può ammettersi, invero, che la statuizione di confisca contenuta nella sentenza sia posta in discussione - durante la pendenza del processo e al di fuori dello stesso - da un soggetto terzo, che non è parte del rapporto processuale instaurato dinanzi al giudice della cognizione. Ciò non vuol dire che il terzo non possa, dopo la sentenza di condanna che ha disposto la confisca dei beni, tutelare i propri diritti, ben potendo - ma, come detto, solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell’imputato e sempreché la confisca sia divenuta irrevocabile - promuovere apposito incidente di esecuzione dinanzi al giudice di cui all’art. 665 c.p.p., che è specificamente designato a decidere in ordine alla confisca e alla restituzione delle cose sequestrate ex art. 676 c.p.p.» [74].
Ad analoghe conclusioni, peraltro, è pervenuta anche un'altra decisione, che, in esplicita condivisione dell'orientamento della più recente giurisprudenza di legittimità, ha ulteriormente precisato che «l'azionabilità del diritto, invocata (...) per la fase che precede la definitività della sentenza e cioè in esito alla pronuncia di primo grado, potrebbe produrre un risultato (restitutorio) in contrasto con la pronuncia successiva relativa alla questione penale sovrastante, con la conseguenza di pregiudicare irrimediabilmente la materiale apprensione del bene e la sua confiscabilità, senza contare il palese contrasto che si verificherebbe con l'interesse fondamentale dell'ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche, vanificato dalla esecuzione provvisoria del dissequestro in contrasto con l'accertamento definitivo» [75]. Quindi, sulla stessa linea, si è posta anche la più recente pronuncia secondo cui «in tema di misure cautelari reali, il terzo interessato può far valere i propri diritti sui beni in sequestro solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, esperendo incidente di esecuzione» [76] e così evitando la possibile instaurazione contemporanea di un "procedimento parallelo", che potrebbe portare ad un non riparabile contrasto di decisioni.
Ebbene, a seguito della camera di consiglio del 20 luglio 2017, il servizio novità della suprema Corte di cassazione ha comunicato che la suprema Corte, nel risolvere il suddetto contrasto giurisprudenziale, ha affermato - su conclusioni difformi del Procuratore Generale - che: «il terzo, prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile, può chiedere al giudice della cognizione la restituzione del bene sequestrato e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame. Qualora sia stata erroneamente proposta opposizione mediante incidente di esecuzione, questa va qualificata come appello e trasmessa al tribunale del riesame» [77].
Così risolto il contrasto, quel che resta certo è che il terzo proprietario dei beni sottoposti a vincolo reale, non essendo parte del procedimento, non disponga degli ordinari strumenti di impugnazione e debba, pertanto, ricorrere - con ampiezza di poteri, come visto, riconosciuta con intermittenza da parte dei giudici di legittimità - ad altri strumenti per vedere garantiti i propri diritti all’interno del procedimento penale.
Sul punto, si è osservato come la regola non muti nell’ipotesi particolare di confisca ex art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, in l. n. 356 del 1992 in quanto, anche nell’evenienza considerata, il terzo estraneo non potrà disporre degli ordinari strumenti di impugnazione e di tutela riconosciuti dal legislatore al condannato nel giudizio di merito, disponendo di adeguata tutela solo in fase cautelare ed esecutiva. Egli, infatti, potrà solo proporre impugnazione del provvedimento cautelare di sequestro ex art. 324 c.p.p., con ricorribilità in Cassazione per violazione di legge, oppure - nel corso del procedimento di primo grado - potrà presentare una separata istanza di restituzione, reclamabile exart. 322-bis c.p.p., ma non potrà presentare atto d’appello [78], dovendosi in tal caso attendere la definizione del giudizio di merito, con esclusiva facoltà di proporre incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 676 c.p.p. ed eventuale opposizione alla stessa.
Peraltro, proprio una problematica avente ad oggetto questa particolare tipologia di confisca cd. “allargata” ha, in tempi recenti, indotto la suprema Corte di cassazione a prospettare una “questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 4, 42, 111 e 117 Cost., degli artt. 573, 579, comma 3 e 593 c.p.p., nella parte in cui dette norme non prevedono, a favore dei terzi incisi nel diritto di proprietà per effetto della sentenza di primo grado, la facoltà di proporre appello sul solo capo contenente la statuizione di confisca” [79]. Anche in questa circostanza si era avuta una pronuncia di condanna con correlativa confisca applicata su alcuni beni intestati formalmente a soggetti terzi ma ritenuti, di fatto, riferibili ai condannati [80]. I terzi, non essendo parti del procedimento, avevano subito la dichiarazione di inammissibilità dell’appello proposto e si erano, dunque, visti costretti ad instare presso la Corte di cassazione, ove avevano prospettato il denunciato vizio di legittimità costituzionale. La normativa vigente in materia di appello, infatti, escludendo la legittimazione ad impugnare la decisione sfavorevole in tema di misure di sicurezza patrimoniali da parte dei terzi titolari formali di diritti sul bene oggetto di confisca, contravverrebbe all’art. 6 Cedu in tema di equità del processo, nonché in rapporto agli artt. 3, 24 e 42 Cost. incidendo, la decisione impugnata, sul diritto di proprietà senza alcuna possibilità di adeguata tutela all’interno del processo. La stessa normativa, poi, apparirebbe anche irragionevole laddove consenta al terzo interessato di impugnare il provvedimento cautelare con lo strumento del riesame ma non il provvedimento di confisca contenuto in sentenza e sarebbe meritevole di riforma nel senso di una parificazione degli strumenti di tutela rispetto ad altri istituti analoghi dell’ordinamento giuridico, posto che, per esempio, la disciplina prevista per le misure di prevenzione patrimoniali prevede anche per il terzo titolare di diritti la possibilità di intervenire nel procedimento principale. Inoltre, secondo la Cassazione, la “sospensione” della tutela di secondo grado non solo non sarebbe in linea con i contenuti della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2014/42/UE in data 3 aprile 2014 relativo al congelamento e alla confisca dei beni strumentali [81] (specie per quanto concerne le garanzie di cui all’art. 8 in tema di ricorso effettivo e di potestà di impugnazione del provvedimento di confisca da parte del soggetto interessato ed espressamente estesa al terzo), ma determinerebbe l’ulteriore dubbio di lesione del parametro della effettività del diritto di difesa ex artt. 24 e 42 Cost. nonché dei principi di cui agli artt. 6 § 1, 13 Cedu e art. 1, Prot. n. 1, Cedu per come interpretati dalla Corte europea.
Sul punto, si osserva, in definitiva, come non vi sia alcuna lesione dei diritti del terzo in chiave di tutela della proprietà e di giusto processo patrimoniale nella fase del sequestro preventivo in virtù dell’esistenza di specifiche norme che garantiscono detta tutela, pur non assumendo tale soggetto la veste di parte nel procedimento. Diversamente accade nel momento in cui il giudice di primo grado abbia provveduto circa la confisca dei beni; momento in cui si rileva, dunque, una “asimmetria del potere”, in quanto ci si trova dinanzi ad un soggetto che vede accrescersi la probabilità della spoliazione non bilanciata da una reale facoltà di reazione immediata a siffatta decisione [82].
In tal senso, non pare affatto peregrina la prospettata illegittimità costituzionale delle norme in discorso che, come visto, garantiscono la possibilità di critica della decisione di primo grado al solo condannato, ma non anche al terzo che, in ipotesi, potrebbe essere il soggetto che rischia di subire l’effetto peggiore con la privazione della disponibilità del proprio patrimonio senza avere garantita un’adeguata e tempestiva facoltà di contraddittorio.
Considerazioni conclusive
Alla luce delle considerazioni svolte, pare di potersi sostenere che la normativa attuale, per ciò che disciplina ma soprattutto per ciò su cui tace, sia piuttosto complessa e farraginosa e molteplici siano ancora le perplessità sotto il profilo della aderenza ai principi costituzionali e ai suggerimenti provenienti dallo spazio giuridico sovranazionale in materia di cautele reali.
Se si parte dal dato assolutamente pacifico secondo cui tutte le misure aventi ad oggetto il patrimonio - inteso come bene giuridico tutelato ai sensi dell’art. 42 Cost. [83], nonché come strumento di realizzazione e sviluppo della personalità di chi ne sia titolare ex art. 2 Cost. - incidono sulla libertà personale, allora ben si comprende il motivo della particolare apprensione nel verificare il corretto rispetto delle guarentigie apprestate dalla legge in questo settore. In tal senso, ogni compressione della libertà patrimoniale e del diritto di proprietà deve essere opportunamente controbilanciata mediante la predisposizione di un adeguato compendio di tutele a favore di chi subisce tali limitazioni. Sono chiaro esempio di un tale “arsenale giuridico” le facoltà di contraddire offrendo elementi difensivi al momento dell’apprestamento della misura ablativa e per tutta la durata di essa, nonché il ricorso agli strumenti di gravame disciplinati ex lege per ottenere un nuovo vaglio su quei provvedimenti che incidono così pesantemente su un diritto costituzionalmente tutelato.
In questa direzione, la previsione del ricorso agli ordinari strumenti di impugnazione nel momento in cui non venga più in rilievo la mera misura cautelare perché, in qualche modo, superata dalla decisione, pur non definitiva, in ordine alla confisca dei beni, pare adeguatamente garantire le necessità difensive del soggetto che, in quanto parte del giudizio, abbia subito il provvedimento ablativo. D’altro canto, si tratta di una misura pur sempre emanata all’esito di un procedimento penale assistito dai diritti processuali riconosciuti all’imputato dal codice di procedura penale. A lui è riservato il mezzo di impugnazione nel merito che gli consente, nelle tempistiche stabilite dalla legge, di chiedere un nuovo vaglio al secondo giudice sulla statuizione incidente sul proprio patrimonio.
Non così, come si è detto, per i terzi che non siano parti in causa, ma che subiscano la decisione sfavorevole emessa in primo grado, in quanto incidente sul loro diritto di proprietà, senza avere un’occasione adeguata per contraddire in maniera efficace ed immediata in merito alla stessa, disponendo soltanto di poteri di impugnativa avverso il provvedimento cautelare o in fase esecutiva, ma non contro la sentenza di primo grado che contenga la statuizione di confisca. Si tratta di tema, invero, non sondato dalla pronuncia in commento ma su cui, comunque, si è ritenuto di dover spendere qualche riflessione per i profili problematici che lo stesso comporta.
Il ricorso agli strumenti ordinari di impugnazione da parte del terzo interessato che non sia coinvolto nel giudizio in veste di imputato risulta, infatti, precluso in virtù delle disposizioni ostative che si riferiscono, in ossequio al principio di tassatività in materia di impugnazioni, esclusivamente ai soggetti menzionati dalla norma. La mancanza di tale facoltà non può che rappresentare un significativo vulnus nel nostro impianto processual-penalistico se solo si pensa alle ricadute potenzialmente irreversibili che simili pronunciamenti possono avere a danno di chi li subisca senza essersi potuto difendere. Si pensi al caso delle piccole, medie imprese che rischiano di vedere fallite le proprie attività a seguito dei provvedimenti di privazione patrimoniale. Diverso sarebbe laddove si riuscisse a garantire anche al terzo una possibilità effettiva di rivalutazione costante del fondamento giustificativo del provvedimento ablativo emesso anche dopo la pronuncia della sentenza di cognizione; cosa che, come detto, non accade in virtù della necessaria osservanza dei contenuti della decisione di merito di primo grado in qualunque procedimento incidentale. Resta da capire se un sistema così congegnato potrà superare i dubbi di legittimità costituzionale paventati e se potrà dirsi davvero rispettoso dei principi sovranazionali che sempre più reclamano una tutela effettiva e costante per tutti i soggetti coinvolti allorquando si dibatta di diritti reali.
[1] Secondo A. Alessandri, Voce Confisca nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, 1987, p. 31, “al termine confisca corrisponde ormai un significato normativo sensibilmente variegato, che investe un fascio d’istituti sempre meno riducibili ad un comune denominatore, specie se si appunta l’attenzione sulle finalità della sanzione”. In particolare, evidenzia P. Gualtieri, Rapporti tra sequestro preventivo e confisca. Principi generali, in A. Bargi- A. Cisterna (a cura di), La giustizia patrimoniale penale, Torino, 2011, p. 662 ss., che i già troppo labili confini normativi dell’originario sequestro preventivo cd. impeditivo o finalizzato alla confisca sono stati resi ancor più evanescenti dalla serie di disposizioni introdotte nell’ordinamento in materia di confisca per equivalente, che, grazie anche alla lettura che ne ha dato la giurisprudenza, stanno provocando inaccettabili semplificazioni, al limite dell’automatismo, nella spoliazione di beni, contaminando il processo penale con finalità e istituti propri delle misure di prevenzione.
[2] In questi precisi termini, M. Garavelli, Il sequestro nel processo penale, Torino, 2002, p. 187.
[3] Per una tale definizione, C. Santoriello, Il sequestro preventivo, in G. Spangher-C. Santoriello (a cura di), Le misure cautelari reali, Vol. II, Torino, 2009, p. 55. Per uno studio approfondito in relazione alle problematiche più recenti relative all’istituto della confisca per equivalente, v. P. Silvestri, La confisca penale obbligatoria e l’ablazione di somme di denaro, in Cass. pen., 2016, 6, pp. 384 ss.
[4] Intervenuta in attuazione della Convenzione OCSE di Parigi del 17 dicembre 1997 relativa alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali.
[5] Tutta la dottrina sottolinea la necessaria funzione di supplenza dell’ablazione dell’equivalente rispetto all’apprensione in forma qualificata. Cfr. P. Balducci, La confisca per equivalente: aspetti problematici e prospettive applicative, in Dir. pen. proc., 2011, 2, pp. 230-231; G. Fiandaca, Legge penale e corruzione, in Foro it., 1998, c. 6; D. Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale: ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007, p. 263; F. Furfaro, La confisca per equivalente tra norma e prassi, in Giur. it., 2009, p. 2080; A. Gaito, Sequestro e confisca per equivalente. Prospettive di indagine, in Giur. it., 2009; G. Lunghini-L. Musso, La confisca nel diritto penale, in Corriere mer., 2009, p. 28; A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001, p. 147; F. Vergine, Confisca e sequestro per equivalente, Milano, 2009, p. 44.
[6] Per una simile definizione, v. P. Balducci, La confisca per equivalente: aspetti problematici e prospettive applicative, in Dir. pen. proc., 2011, p. 230. Secondo A. Alessandri, Attività d’impresa e responsabilità penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, pp. 535 ss., il termine criminalità del profitto ricomprende al suo interno una galassia di fenomeni variegati e che scoloriscono l’uno nell’altro. In essa rientrano tanto la criminalità organizzata - la quale, attraverso la commissione istituzionale dell’illecito, mira, tra le altre cose, all’arricchimento e all’insinuazione nei gangli dell’economia lecita - quanto la criminalità di impresa - la quale, all’interno di un’attività imprenditoriale lecita, occasionalmente deborda nella commissione di illeciti - entrambe accomunate dal fine di profitto.
[7] Osserva F. Vergine, Confisca e sequestro per equivalente, Milano, 2006, p. 139, che ciò accade poiché la modernità delle forme illecite di produzione della ricchezza consente agevolmente l’occultamento, la distrazione o semplicemente il reinvestimento in operazioni in cui non vi è traccia dell’origine macchiata dei beni.
[8] Cass., sez. VI, 29 marzo 2006, Lucci, in CED Cass., 234739; Cass., sez. V, 16 gennaio 2004, Napolitano, in Arch. n. proc. pen., 2004, p. 562.
[9] Parla di confisca “estesa” quale fattispecie tipica “sintomatica” di responsabilità, E. Squillaci, La confisca “allargata” quale fronte avanzato di neutralizzazione dell’allarme criminalità, in Dir. pen. proc., 2009, 12, p. 1525.
[10] Si tratta di quel provvedimento di contrasto alla criminalità mafiosa introdotto dall’art. 2 d.l. 20 giugno 1994, n. 399, conv. nella l. 8 agosto 1994, n. 501. Per una disamina delle diverse posizioni esistenti in dottrina e giurisprudenza circa la natura del suddetto sequestro, cfr. M. D’Onofrio, Il sequestro preventivo, Padova, 1998, p. 184 ss.
[11] La norma, diretta ad assicurare gli effetti della confisca pure nel caso in cui non sia possibile rinvenire i beni da confiscare obbligatoriamente, è stata introdotta dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv., con modificaz., in l. 24 luglio 2008, n. 125.
[12] Cass., sez. VI, 24 ottobre 2000, Boglioni, in Cass. pen., 2001, p. 2761; Cass., sez. V, 28 maggio 1998, Di Pasquale, in Cass. pen., 1999, p. 3126; Cass., sez. I, 29 settembre 1995, Flachi, in CED Cass., 202616, che ha sottolineato la sequestrabilità anche dei beni formalmente appartenenti a soggetti diversi dall’imputato di cui quest’ultimo abbia però la disponibilità.
[13] In dottrina, v. A. Menditto, La confisca allargata o per sproporzione di cui all’art. 12 sexies d.l. n. 306/92, conv. dalla l. n. 356/92, profili sostanziali e procedimentali (cenni), con particolare riferimento agli orientamenti giurisprudenziali aggiornati al novembre 2014, in www.questionegiustizia.it, p. 20, che evidenzia che “così come per la confisca di prevenzione non occorre alcun nesso con l’attività illecita del proposto, per la confisca allargata, in cui viene in rilievo il reato e non la pericolosità, non occorre un nesso di pertinenza tra i beni confiscabili ed il reato per cui è stata pronunciata condanna e nemmeno tra questi beni e l’attività criminosa del condannato. La confiscabilità dei beni è correlata esclusivamente alla condanna del soggetto che di quei beni dispone, per uno dei reati oggetto dell’elenco di cui all’art. 12 sexies, senza che siano necessari accertamenti relativi all’attitudine criminale”.
[14] Infatti, la giurisprudenza di legittimità, pronunciandosi con il riferimento al momento temporale dei singoli acquisti in cui valutare la sproporzione rispetto a redditi e attività svolta, sembra aver reintrodotto una qualche pur minima valutazione del nesso di pertinenzialità tra la cosa e il reato. In tal senso, Cass., sez. un., 17 dicembre 2003, n. 920, Montella, in CED Cass., 226490 e in Cass. pen., 2004, p. 1182, con nota di G. Fidelbo, Sequestro preventivo e confisca ex art. 12 sexies: dall’esclusione del nesso pertinenziale al rafforzamento dei presupposti. Conf., Cass., sez. V, 21 febbraio 2013, n. 19358; Cass., sez. VI, 22 novembre 2011, n. 22020; Cass., sez. III, 9 luglio 2008, n. 38429. Cfr., altresì, Cass., sez. VI, 12 gennaio 2010, n. 5452, in Dir. pen. proc., 2011, 5, p. 601, con nota di E. Oriani, Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, secondo cui in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992, conv. con modificazioni nella l. n. 356/1992 “la necessaria valutazione della sproporzione tra i beni oggetto della misura cautelare e la situazione reddittuale dell’interessato deve essere condotta avendo riguardo al reddito dichiarato o alle attività economiche esercitate non al momento della applicazione della misura e rispetto a tutti i beni presenti nel patrimonio del soggetto, bensì a quello dei singoli acquisti e al valore dei beni di volta in volta acquisiti”.
[15] Si badi che, come chiarito da Cass., sez. VI, 31 maggio 2011, n. 29926, in Dir. pen. proc., 2011, 10, p. 1208, la sproporzione deve sussistere sia rispetto al reddito dichiarato, sia rispetto all’attività economica svolta.
[16] Così secondo la citata Cass., sez. un., 17 dicembre 2003, n. 920, Montella, in CED Cass., 226490. Per ulteriori considerazioni v., in dottrina, E. Aprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, II, 2006, p. 651.
[17] Individua il duplice presupposto dell’intervenuta condanna o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti indicati all’art. 12-sexies e la sproporzione dei beni con i redditi dichiarati o con l’attività esercitata, G. Locatelli, La confisca del patrimonio di valore sproporzionato, in Il fisco, 1996, n. 34, p. 8303. Altri autori, tra cui M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001, p. 319, D. Potetti, Riflessioni in tema di confisca di cui alla legge 501/1994, in Cass. pen., 1995, p. 1690; V. Pusateri, Modifiche alla disciplina della confisca ex art. 12 sexies d.l. 8 giugno 1996, n. 306, in G. Spangher (a cura di), Decreto sicurezza. Tutte le novità, Milano, 2008, p. 104, scompongono il secondo presupposto in più presupposti, vale a dire: l’esistenza di un patrimonio, la titolarità o disponibilità a qualsiasi titolo di denaro, beni o di altra utilità, la sproporzione con il reddito o l’attività economica svolta, la mancata giustificazione.
[18] In questi termini, cfr. M. Montagna, I sequestri nel sistema delle cautele penali, Padova, 2005, p. 15, che identifica il fumus boni iuris come “il favorevole giudizio di probabilità circa il verificarsi della futura situazione che si vuole tutelare” e il periculum in mora in “quella situazione di urgenza originata dal timore di un danno prodotto da un intervento ritardato”.
[19] Evidenzia in tal senso U. De Crescienzo, Il sequestro penale e civile, Torino, 1997, p. 110, che “premesso che il presupposto per poter disporre un sequestro preventivo è che sia stato commesso un reato, lo scopo dell’atto deve avere natura squisitamente cautelare, volto a conseguire finalità diverse da quelle probatorie o da quelle conservative”.
[20] Cfr. ex multis Cass., sez. II, 17 aprile 2007, Consolo, in CED Cass., 236590.
[21] Cass., sez. un., 25 marzo 1993, Gifuni, in Cass. pen., 1993, p. 1669. V., in dottrina, S. Ramajoli, Le misure cautelari (personali e reali) nel codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 177, secondo cui “non è sufficiente un giudizio di generica rispondenza tra “fattispecie reale e fattispecie legale” perché - in tal caso - si romperebbe il delicato equilibrio tra difesa sociale e garantismo, favorendo eventuali abusi di funzione”.
[22] Così P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 63.
[23] Cfr. A. Alessandri, Voce Confisca nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, 1987, p. 14. Si veda, altresì, P. Silvestri, La confisca penale obbligatoria e l’ablazione di somme di denaro, in Cass. pen., 2016, 6, p. 388 s., secondo cui “ciò che viene posto a fulcro della disciplina codicistica non è il rinvio ad un concetto di “condanna” evocativo della categoria del giudicato formale ma - più concretamente - il richiamo ad un termine che intende esprimere un valore di equivalenza rispetto all’accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso di pertinenzialità che i beni oggetto di confisca devono presentare rispetto al reato stesso: a prescindere, evidentemente, dalla formula con la quale il giudizio viene ad essere formalmente definito”. V, in giurisprudenza, Cass., sez. II, 5 ottobre 2011, n. 39756, Ciancimino, in CED Cass., 251195, che, in un caso di intervenuta prescrizione nei successivi gradi di giudizio dopo una precedente pronuncia di condanna, ha affermato che “le statuizioni adottate dai giudici del merito in punto di accertamento dei fatti-reato, delle responsabilità e della illecita provenienza dei beni sottoposti a confisca si sono definitivamente “cristallizzate”, al punto da vanificare, contenutisticamente, la stessa presunzione di non colpevolezza: il che giustifica, pertanto, il soddisfacimento dei fini di garanzia di accertamento pieno, che il termine “condanna” è volto ad assicurare nel quadro della confisca, quale necessario presupposto del provvedimento ablatorio”. V., altresì, Cass., sez. III, 14 febbraio 2013, Volpe e altri, in CED Cass., 255112; Cass., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 31957, in CED Cass., 255596. Per approfondimenti sul tema del rilievo dell’intervenuta prescrizione del reato ai fini della confisca si vedano le fondamentali pronunce Corte e.d.u., 29 settembre 2013, Varvara c. Gov. Italia; C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in www.giurcost.it, e, più di recente, Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, in CED Cass., 264434-435-436-437.
[24] Tale ultima precisazione impone la necessità di chiarire che, esclusa la compatibilità con l’irrogazione della confisca tanto della pronuncia di c.d. proscioglimento anticipato exart. 469 c.p.p. quanto dell’immediata declaratoria di non punibilità ex art. 129 comma 1 c.p.p., si può affermare che la sentenza di non doversi procedere, emessa ai sensi dell’art. 531 c.p.p., sia generalmente idonea a disporre la misura ablativa, purché detta pronuncia contenga, in concreto, un pieno accertamento della responsabilità dell’imputato. Così M. Panzarasa, Confisca senza condanna? in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 1708, secondo cui, in conclusione, “una sentenza di proscioglimento per estinzione del reato ex art. 531 c.p.p. potrà legittimamente disporre la confisca, in tutti i casi in cui il giudice, se non fosse maturata la fattispecie estintiva, avrebbe condannato l’imputato ai sensi dell’art. 533 c.p.p.”. In termini affini si esprime anche F. Mazzacuva, L’evoluzione nazionale ed internazionale della confisca tra diritto penale “classico” e diritto penale “moderno”, in A. Bargi-A. Cisterna (a cura di), La giustizia patrimoniale penale, Torino, I, 2011, p. 253, che osserva ulteriormente - per quel che qui interessa - come l’imposizione della confisca per mezzo della sentenza dibattimentale di non doversi procedere ex art. 531 c.p.p. - posto che l’art. 579 comma 3 c.p.p. permette l’impugnazione del capo relativo alla confisca con gli stessi strumenti previsti per i capi penali - “sembra assicurare, almeno in sede di appello, la possibilità di valutare i presupposti di applicazione della misura nel rispetto delle prerogative della difesa”.
[25] Sulla finalità prevalentemente sanzionatoria della confisca per equivalente, v. Cass., sez. VI, 6 dicembre 2012, n. 18799, in CED Cass., 255164. Analogamente, in sede sovranazionale, sulla natura di pena ex art. 7 Cedu, rilevando come tale misura non tenda alla riparazione pecuniaria di un danno ma si ponga obiettivi preventivi-repressivi, tipici delle sanzioni penali, cfr. Corte e.d.u., 20 gennaio 2009, Fondi Sud s.r.l. c. Italia; Corte e.d.u., 1 marzo 2007, Geerings c. Paesi Bassi; Corte e.d.u., 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito; Corte e.d.u., 8 giugno 1995, Jamil c. Francia.
[26] Cfr. A. Alessandri, Voce Confisca nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, 1987, p. 44, che osserva come “sotto il velo delle conclamate finalità preventive è piuttosto ravvisabile la tenace persistenza della antica matrice punitiva, nella quale la confisca si presentava ancillare alle altre sanzioni repressive, assumendo i contorni di una “pena patrimoniale” particolarmente temibile nella sua intrinseca indeterminatezza”.
[27] In questi termini, A. Bassi-T. E. Epidendio, Guida alle impugnazioni dinanzi al tribunale del riesame, Milano, 2008, p. 907 s., che rilevano come “solo invocando tale preclusione è infatti possibile scongiurare il rischio di statuizioni contraddittorie su di un medesimo aspetto della vicenda processuale concernente un identico fatto e lo stesso oggetto”.
[28] Cfr. Cass., sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 8016, in CED Cass., 259322.
[29] Osservano A. Bassi-T. E. Epidendio, Guida alle impugnazioni dinanzi al tribunale del riesame, Milano, 2008, p. 907 che “in ambito processuale il principio dell’assorbimento assolve ad una funzione di salvaguardia analoga al principio del ne bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p., essendo teso ad evitare che nel procedimento incidentale si addivenga ad una duplicazione di valutazioni su di una materia, laddove nel procedimento principale sia già intervenuta una decisione che contenga in sé un apprezzamento di merito di tale incisività da assorbire possibili statuizioni sullo stesso tema”.
[30] In questi termini, D. Monti, Il giudizio dinanzi al tribunale del riesame, Milano, 2006, p. 234.
[31] Così M. Montagna, I sequestri nel sistema delle cautele penali, Padova, 2005, p. 18. Cfr., altresì, in dottrina, P. Balducci, Il sequestro preventivo nel processo penale, Milano, 1991, p. 246, che si interroga sui rapporti tra il procedimento incidentale di riesame e il processo principale.
[32] Cfr. G. Foschini, Sistema del diritto processuale penale, I, Milano, 1965, p. 500 ss, ove si evidenzia il ruolo delle cautele quali strumenti “atti ad impedire o a ridurre il divario di ordine temporale tra forma e materia del processo” soddisfacendo “la necessità [...] di evitare, almeno fino a che è possibile, questo divario tra l’immobilità del giudizio e l’instabilità della realtà giuridica concreta”.
[33] In questi termini, P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 20.
[34] Cfr. P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, pp. 9; 21 e 138 s.
[35] G. Foschini, Sistema del diritto processuale penale, I, Milano, 1965, p. 502.
[36] Per analoghe considerazioni, relative alla confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306 del 1992, cfr. Cass., sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 43149, in CED Cass., 243032.
[37] Cass., sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 8016, in CED Cass., 259322.
[38] Secondo C. Calvosa, La tutela cautelare, Torino, 1963, p. 16 nel ritardo del provvedimento finale si ravvisa la necessità di ricorrere all’adozione di una misura cautelare capace di anticipare provvisoriamente gli effetti della conclusione del processo.
[39] Cass., sez. III, 15 ottobre 2015, n. 45913, in CED Cass., 265544. Conf. Cass., sez. IV, 6 maggio 2009, n. 26636, in CED Cass., 244877; Cass., sez. II, 19 dicembre 2008, n. 3173, in CED Cass., 242474; Cass. sez. I, 14 luglio 2006, n. 29107, in CED Cass., 235267; Cass., sez. I, 15 giugno 2006, n. 28378 in CED Cass., 235262; Cass., sez. I, 4 dicembre 1997, n. 6825, inedita.
[40] Cfr. Cass., sez. I, 19 dicembre 2011, n. 13603, in CED Cass., 252351, secondo cui “al giudice dell’appello cautelare, ex art. 310 c.p.p., è precluso pronunciare su questioni incidentali decise dal giudice della cognizione”.
[41] Cfr. G. De Luca, Lineamenti della tutela cautelare penale. La carcerazione preventiva, Padova, 1953, p. 156. Si osservi come, secondo A. Bassi-T. E. Epidendio, Guida alle impugnazioni dinanzi al tribunale del riesame, Milano, 2008, p. 905, “la vicenda cautelare corre quindi parallela rispetto alle fasi in cui si articola il procedimento penale di cognizione e viene a sovrapporsi, in toto o solo in parte, al procedimento principale, quale vicenda incidentale: essa, pertanto, seppur parzialmente autonoma a cagione della sua specifica funzione di garanzia, vede peraltro condizionati alcuni dei suoi contenuti dagli esiti degli avvicendamenti del procedimento principale che segue, per così dire, quasi come un’ombra”.
[42] V., per ulteriori considerazioni, Cass., sez. I, 14 dicembre 2015, n. 17620, in CED Cass. 267725; Cass., sez. VI, 12 marzo 2003, n. 30580, in CED Cass., 226274; Cass., sez. II, 3 ottobre 1996, n. 3713, in CED Cass., 207564, secondo le quali “qualora venga disposta una misura cautelare dopo la pronuncia della sentenza di condanna, è sufficiente ad integrare il requisito dell’ordinanza applicativa richiesto dall’art. 292, comma 2, lett. b), c.p.p., l’indicazione del titolo giuridico delle imputazioni per le quali la condanna è intervenuta, in considerazione della possibilità di completa identificazione da parte degli imputati dei fatti oggetto delle imputazioni, di cui sono a piena conoscenza a seguito del contraddittorio dibattimentale e della decisione adottata all’esito di esso; e che parimenti l’obbligo motivazionale in ordine agli indizi di colpevolezza, anche con riferimento agli elementi favorevoli, può dirsi soddisfatto con la semplice esposizione degli elementi di prova a carico, senza che sia rinnovata la loro valutazione critica, la quale, successivamente all’emanazione della sentenza e per effetto di essa, deve anzi ritenersi preclusa fin dal momento in cui è stata data pubblica lettura del dispositivo e prima ancora del deposito della motivazione, discendendo direttamente il predetto effetto preclusivo dall’intervenuta decisione sulla “notitia criminis”.
[43] Così Cass., sez. II, 19 dicembre 2008, n. 3173, in CED Cass., 242474. Cfr., altresì, Cass., sez. V, 9 aprile 1997, n. 1709, in CED Cass., 208138; Cass., sez. un., 25 ottobre 1995, n. 38, Liotta, in Cass. pen., 1996, p. 776 e in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 465.
[44] Si tratta di C. cost., 15 marzo1996, n. 71, in Gazz. Uff., 1 serie spec., 20 marzo 1996, n. 12, nonché in Cass. pen., 1996, 1201, p. 2090, che, nel risolvere il dibattito giurisprudenziale insorto con riferimento al tema dei rapporti tra procedimento principale e procedimento incidentale de libertate, ha condiviso il percorso logico e la conclusione, limitatamente al rapporto tra sentenza di condanna e valutazione dei gravi indizi di colpevolezza operati da Cass., sez. un., 25 ottobre 1995, n. 38, Liotta, in Cass. pen., 1996, p. 776 e in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 465; Cass., sez. un., 7 dicembre 1995, Riillo, in Foro it., 1996, II, c. 352. V., sul punto, in dottrina, D. Negri, Fumus commissi delicti. La prova per le fattispecie cautelari, Torino, 2004, p. 288, che ribadisce come “mentre riguardo al postulato iniziale giurisprudenza costituzionale e di legittimità si sono presto allineate, quest’ultima anche al suo interno, non altrettanto è a dirsi per l’identificazione di quali pronunce parziali sulla regiudicanda posseggano effettivamente i requisiti idonei all’operare del criterio di assorbimento. Concordia di posizioni si è formata attorno all’efficacia preclusiva - beninteso, rebus sic stantibus - della sentenza di condanna ancora soggetta ad impugnazione: addirittura “paradossale” e “in aperta antinomia con la coerenza stessa del sistema” viene considerata la simultanea presenza di due pronunce giurisdizionali sul tema della “colpevolezza”, “l’una incidentale e di tipo prognostico e l’altra fondata sul pieno merito e come tale suscettibile di passaggio in giudicato”.
[45] Così Cass., sez. I, 14 luglio 2006, n. 29107, in CED Cass., 235267, che richiama Cass., sez. IV, 10 aprile 2003, Fakid, inedita; Cass., sez. VI, 12 marzo 2003, Maesano, inedita; Cass., sez. V, 9 aprile 1997, n. 1709, in CED Cass., 208138.
[46] V., in tal senso, Cass., sez. I, 15 giugno 2006, n. 28378, in CED Cass. 235262, secondo cui: “in tema di misure cautelari personali, una volta intervenuto il giudizio di merito, la valutazione delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p., con specifico riferimento ai parametri della gravità del fatto e della personalità del suo autore, impone l’esame degli stessi atti o comportamenti apprezzati dal giudice della cognizione per giungere al giudizio di responsabilità, sicché resta preclusa al giudice della cautela una ricostruzione e una qualificazione giuridica dei fatti diversa da quella operata in sede di cognizione”. Infatti, la valutazione sia della gravità del fatto che della personalità del suo autore impongono l’esame di atti o comportamenti concreti che, dopo il giudizio di merito, devono essere quegli stessi atti o comportamenti apprezzati dal giudice del merito per giungere al giudizio di responsabilità e che non possono essere diversamente valutati dal giudice della cautela.
[47] Così Cass., sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 8016, in CED Cass., 259322.
[48] In tal senso, cfr. Cass., sez. VI, 1 ottobre 2008, n. 43149, in CED Cass., 243032, con la quale si era dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione cautelare proposta dal pubblico ministero avverso l’ordinanza con cui, in pari data rispetto alla sentenza non definitiva che aveva escluso la confiscabilità ex art. 12-sexies l. n. 306 del 1992 di alcuni beni, il medesimo giudice aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo sugli stessi beni avanzata dall’organo dell’accusa. In quel caso la Cassazione rilevava come il giudice di primo grado “imponendo contestualmente in sede di merito il vincolo cautelare e la misura ablativa per una serie di beni ed escludendoli per altri (quelli oggetto dell’odierno ricorso), ha ritenuto questi ultimi beni non attingibili da confisca per la insussistenza nei loro confronti dei presupposti di legge, operando un accertamento sulla liceità della formazione di detti beni, con conseguente venir meno anche della loro sequestrabilità, dato il carattere speculare del vincolo adottato ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2, (richiamato dalla L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, comma 4) rispetto alla misura ablativa, trattandosi di sequestro destinato ad assicurare la esecuzione del provvedimento di confisca. Ne deriva che, a norma dell’art. 323 c.p.p., comma 3, (“Se è pronunciata sentenza di condanna, gli effetti del sequestro permangono quando è stata disposta la confisca delle cose sequestrate”), già il Tribunale del Riesame avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la impugnazione del pubblico ministero, trattandosi di sequestro oramai superato dalla decisione presa in ordine alla confisca, impugnabile unitamente alla decisione di merito (in tal senso v. anche, con argomento a contrario, sez. 6, Sentenza n. 26268 del 28 giugno 2006, Rv. 235080, Gagliardi e altri, e sez. 6, sentenza n. 10346 del 7 febbraio 08, rv. 239087, Della Ventura ed altri, nelle quali è stato affermato che in tema di misure di prevenzione di natura patrimoniale, il sequestro adottato in previsione della confisca obbligatoria a norma del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies è subordinato all’accertamento di merito della sproporzione dei beni rispetto ai redditi posseduti e della mancata giustificazione della loro provenienza. Ne consegue che qualora il giudizio di primo grado si sia concluso senza l’applicazione della detta misura di sicurezza, non è consentito al giudice di appello disporre il prodromico sequestro preventivo di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, comma 4, in quanto sarebbe in contrasto con il principio devolutivo e del divieto di “reformatio in pejus” di cui all’art. 597 c.p.p.)”.
[49] Cass., sez. III, 2 luglio 2014, n. 41387, in CED Cass., 260659.
[50] Per tutte, Cass., sez. I, 14 luglio 2006, n. 29107, in CED Cass., 235267.
[51] Secondo E. Marzaduri, Commento all’art. 14 l. n. 128 del 2001, in Leg. pen., 2002, p. 456 s., oltre all’art. 303 comma 1, lett. d), relativo ai termini di durata del provvedimento, vanno ricordati il comma 1-bis e soprattutto il comma 2-ter dell’art. 275, nonché l’art. 307, comma 2, lett. b), i quali ultimi, con l’occuparsi soltanto del profilo concernente le esigenze cautelari, lasciano chiaramente intendere come i giudizi che avvicinano il processo principale al probabile epilogo di una condanna definitiva esonerino il giudice in funzione cautelare da un’autonoma valutazione dei gravi indizi di colpevolezza. Secondo l’A. “il dato unificante le varie previsioni [...] è senz’altro costituito dall’intento di riconoscere un espresso rilievo nella prospettiva cautelare alla pronuncia di una sentenza di condanna”. V., altresì, V. Bonini, Le riforme alla materia cautelare, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 958 s.
[52] In questo senso, Cass., sez. I, 12 febbraio 2016, n. 12769, in CED Cass., 266691, che, in motivazione, richiama sul punto Cass., sez. III, 15 ottobre 2015, n. 45913, in CED Cass., 265544; Cass., sez. IV, 17 ottobre 2014, n. 8016, in CED Cass., 259322; Cass., sez. V, 9 aprile 1997, n. 1709, in CED Cass., 208138.
[53] Sempre in questi termini Cass., sez. I, 12 febbraio 2016, n. 12769, in CED Cass., 266691.
[54] Secondo S. Salidu, sub art. 579 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, VI, Torino, 1991, p. 84, si tratta di un precetto che pare essersi adeguato ad un orientamento giurisprudenziale minoritario che, nel vigore del codice abrogato, aveva ritenuto autonomamente impugnabile il capo della sentenza relativo alla confisca.
[55] Cass., sez. III, 15 ottobre 2009, F. N., in CED Cass. 245614. Cfr., altresì Cass., sez. I, 17 marzo 1995, n. 1652, in CED Cass., 201616 e in Cass. pen., 1996, 3043, p. 1702.
[56] Secondo Cass., 31 luglio 1990, Manchia, in Cass. pen., 1990, II, p. 418: “ai fini dell’individuazione del giudice competente sulle impugnazioni in tema di misure di sicurezza, la distinzione va fatta non tra misure di sicurezza provvisorie e definitive (trattandosi di provvedimenti per loro natura provvisori e legati alla personale condizione del sottoposto), bensì tra misure di sicurezza disposte con sentenza o con ordinanza quali mezzi di provvisoria applicazione equiparati dal codice di rito alle misure cautelari personali. Se l’applicazione è disposta con sentenza, la competenza per il riesame spetta al tribunale di sorveglianza; se, invece, le misure sono disposte con ordinanza, competente è il tribunale della libertà, attesa l’equiparazione dell’applicazione provvisoria di esse alle misure cautelari personali”.
[57] A tal proposito, si precisa in dottrina che “quando è ancora in corso il termine per ricorrere per cassazione, è inammissibile l’autonoma impugnazione dell’ordinanza che abbia disposto la confisca, emessa successivamente alla pronuncia della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti; tale provvedimento infatti sarà impugnabile soltanto congiuntamente alla sentenza (Cass., sez. V, 9 dicembre 1996, Conforto, in Giur. it., 1997, II, p. 452). Qualora il giudice di merito che abbia accolto la richiesta di applicazione della pena formulata dalle parti, ometta di applicare la misura della confisca obbligatoria, la Corte di cassazione dovrà annullare parzialmente la sentenza senza rinvio, e disporre direttamente la confisca (Cass., sez. VI, 21 maggio 2008, Proc. Gen. c. G.G., in CED Cass., 241051; Cass., sez. I, 28 marzo 2008, in CED Cass., 239835)”. Per simili considerazioni, v. A. Nobile, sub art. 579 c.p.p., in A. Gaito (a cura di), Codice di procedura penale commentato, IV, Torino, 2012, t. III, p. 3543.
[58] Così A.A. Marandola, Le disposizioni generali, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale. Impugnazioni, V, Torino, 2009, p. 147.
[59] V. Cass., sez. VI, 26 gennaio 1995, p.m. in c. Ruffinato, in CED Cass. 201806, che chiarisce come lo strumento sia, dunque, quello dell’appello nel caso in cui la sentenza sia appellabile; mentre il ricorso per cassazione negli ulteriori casi e, per esempio, in caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.
[60] Cfr., sul punto, Cass., sez. VI, 4 febbraio 2009, I. C., in CED Cass., 242919.
[61] Cfr. Cass., sez. VI, 4 giugno 2014, n. 39911, in CED Cass., 261587, secondo cui “in tema di misure di sicurezza patrimoniali, il giudice di appello non può disporre il sequestro e la confisca previsti dall’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito con l. n. 356 del 1992), qualora il giudizio di primo grado si è concluso senza l’applicazione della predetta misura, e non è stata proposta impugnazione dal pubblico ministero in relazione a tale punto della decisione, in quanto, altrimenti, la misura ablatoria sarebbe disposta in violazione del principio devolutivo e del divieto di “reformatio in peius”. Conf. Cass., sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 43149, in CED Cass., 243032; Cass., sez. VI, 7 febbraio 2008, n. 10346, in CED Cass., 239087.
[62] Così Cass., sez. I, 12 febbraio 2016, n. 12769, in CED Cass., 266691.
[63] Cfr. Cass., sez. III, 6 ottobre 2010, n. 39715, in www.lexambiente.it.
[64] Cfr. Cass., sez. VI, 15 maggio 2012, n. 45251, in Dir. pen. e proc., 2013, p. 45; Conf. Cass., sez. III, 18 settembre 2013, n. 42362, in CED Cass., 256976, la quale chiarisce, nella parte motiva, che “secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di dissequestro è previsto, ex art. 322 bis c.p.p., l’appello al Tribunale del riesame, che è rimedio di carattere generale, autonomamente esperibile avverso tutti i provvedimenti diversi da quello impositivo della misura” e richiama Cass., sez. I, 28 novembre 1997, n. 5320, in CED Cass., 208975; Cass., sez. I, 13 novembre 1997, n. 5268, in CED Cass., 208793; Cass., sez. III ord., 29 gennaio 2008, n. 4554, in CED Cass., 238820; Cass., sez. III, 24 ottobre 2008, n. 39913, in CED Cass., 241275. Sul tema, v. anche Cass., sez. II, 8 ottobre 2010, Gaias, in CED Cass., 248772; Cass., sez. VI, 26 maggio 2009, p.m. in c. A.V., in CED Cass., 245473; Cass., sez. III, 14 dicembre 2007, in CED Cass., 239289. In dottrina, v. A. Albiani-S. Marinelli, Misure cautelari in materia di libertà personale e sequestro penale, Milano, 2007, p. 689; F. Fiorentin, L’appello, in G. Spangher-C. Santoriello (a cura di), Le misure cautelari reali, II, Torino, 2009, p. 337; A. Furgiuele, L’appello cautelare, in A. Scalfati (a cura di), Le misure cautelari, II, t. 2 (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2008, p. 541.
[65] Cass., sez. III, 6 ottobre 2010, n. 39715, in CED Cass., 248624.
[66] Così Cass., sez. III ord., 11 dicembre 2007, n. 4554, in CED Cass., 238820.
[67] Cfr., sul punto, Cass, sez. III, 16 maggio 2000, n. 1980, inedita.
[68]Così Cass., sez. I, 21 febbraio 2017, n. 23322.
[69] Così Cass., sez. I, 30 ottobre 2008, n. 42107, in CED Cass., 241844.
[70] Per simili considerazioni v. M. Gialuz, sub art. 579 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, IV, t. II, Milano, 2010, p. 7087, che richiama, in giurisprudenza, Cass., sez. I, 14 marzo 2001, n. 14146, Coln s.n.c. in c. Chiazzese, in CED Cass. 218641, nonché Cass., sez. III, 12 dicembre 2008, J. R. D., in CED Cass., 243617; Cass., sez. I, 30 ottobre 2008, n. 42107, Banca Antonveneta s.p.a., in Riv. pen., 2009, p. 1173.
[71] Così M. Margaritelli, Le impugnazioni delle misure di sicurezza, in A. Gaito, Le impugnazioni penali, II, Torino, 1998, p. 1159.
[72] Cass., sez. II, 21 luglio 2016, n. 49371, in CED Cass., 268354; conf. Cass., sez. II, 10 gennaio 2015, n. 5380, in CED Cass., 262283, che chiarisce in motivazione che “secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di misure di sicurezza patrimoniali, l’ordine di confisca contenuto in una sentenza irrevocabile di condanna fa stato “inter partes”; pertanto, quando il provvedimento risulta disposto illegittimamente sussistendo la causa impeditiva prevista dall’art. 240 c.p., comma 3, il soggetto estraneo al reato, e perciò rimasto estraneo al procedimento penale, al quale la cosa confiscata appartiene può chiedere di invalidare quel capo della sentenza ed ottenere la revoca della misura di sicurezza inflitta all’imputato condannato (Cass., sez. V, 6 marzo 2014, n. 15394, in CED Cass., 260218). A tal fine, il terzo estraneo al reato può far valere il diritto alla restituzione con la proposizione di incidente di esecuzione, nell’ambito del quale, escluso che possano essere rivalutate le ragioni della confisca, può dimostrare la sussistenza del diritto di proprietà e l’assenza di ogni addebito di negligenza (Cass., sez. I, 11 novembre 2011, n. 47312, in CED Cass., 251415; Cass., sez. VI, 2 luglio 2012, n. 29124, in CED Cass., 253180)”.
[73] Cfr., sul punto, Cass., sez. I, 9 gennaio 2013, n. 8533, in CED Cass., 254927; Cass., sez. VI, 26 maggio 2009, n. 40388, in CED Cass., 245473. Vedi anche Cass., sez. III, 14 dicembre 2007, n. 6462, in CED Cass., 239289, secondo cui “in tema di misure cautelari reali, mentre l’irrevocabilità della sentenza di condanna determina la perdita di efficacia del provvedimento di sequestro preventivo di un manufatto edilizio abusivo, diversamente la non definitività della sentenza ne impedisce la restituzione, salvo che le esigenze cautelari giustificative del vincolo siano cessate”.
[74]Così Cass., sez. II, 10 gennaio 2015, n. 5380, in CED Cass., 262283.
[75]In questi termini Cass., sez. II, 26 maggio 2016, n. 29904, Buongiorno, n. m.
[76]Così Cass., sez. II, 18 gennaio 2017, n. 5806, D'Alonzo, in CED Cass., 269239.
[77]Così Cass., sez. un., 20 luglio 2017.
[78] Cfr. Cass., sez. III, 11 marzo 2014, n. 16694, in CED Cass., 259803.
[79] Così Cass., sez. I ord., 14 gennaio 2016, n. 8317, in Gazz. Uff., 4 maggio 2016, 1 serie spec. n. 18. Per alcuni commenti in dottrina, v. M.T. Abbagnale, La situazione soggettiva del terzo estraneo al giudizio: circa il diritto di impugnare le sentenze che dispongono la confisca, in Arch. pen., 2016, n. 2, M. Arienti, Facoltà in favore dei terzi proprietari di proporre appello avverso la statuizione di confisca nella sentenza di primo grado: sollevata questione di legittimità costituzionale, in www.giurisprudenzapenale.com, 2016, 4 e T. Trinchera, Il diritto del terzo estraneo al giudizio di impugnare la sentenza che ha disposto la confisca dei beni: la parola alla Corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 11 maggio 2016.
[80] Secondo le parole di Cass., sez. I ord., 14 gennaio 2016, n. 8317, in Gazz. Uff., 4 maggio 2016, 1 serie spec. n. 18, “la condizione giuridica del terzo “titolare formale” del bene ritenuto, di fatto, nella disponibilità dell’imputato è quella di un soggetto che vede “aggredito” in sede penale il suo diritto di proprietà in rapporto agli esiti di una valutazione incidentale - ma necessaria a fini di confisca - di fittizietà della intestazione”. Sulla scissione tra titolarità apparente e potere di fatto sul bene proprio in tema di confisca estesa ex art. 12-sexies, l. 356 del 1992, cfr., altresì, C. cost., ord., 22 gennaio 1996, n. 18, in Gazz. Uff., 7 febbraio 1996.
[81] Si badi come la citata direttiva sia stata di recente attuata dall’Italia con d.lgs 29 ottobre 2016, n. 202, recante “Attuazione della direttiva 2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea”, in Gazz. Uff., 9 novembre 2016, n. 262, in vigore dal 24 novembre 2016, che ha rafforzato l’istituto della confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, estendendola ad una serie di nuove fattispecie, così come viene amplificato il catalogo dei reati di cui all’art. 12-sexies, d.l. n. 306 del 1992.
[82] In questi termini Cass., sez. I ord., 14 gennaio 2016, n. 8317, in Gazz. Uff., 4 maggio 2016, 1 serie spec. n. 18.
[83] Per approfondimenti, cfr. S. Moccia, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova, 1988.