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La Corte costituzionale restringe ancora i confini della testimonianza assistita
di Gian Marco Baccari
Con la pronuncia in commento il Giudice delle leggi, sulla scia della sentenza n. 381 del 2006, ha stabilito che la deposizione dell’imputato connesso o collegato assolto in via definitiva per insussistenza del fatto deve avvenire senza l’assistenza del difensore e non necessita dei riscontri. Aumentano così gli statuti testimoniali nel contesto di un quadro normativo già molto complesso.
The constitutional Court, in the wake of the previous judgement n. 381, 2006, decides that the related defendant’s deposition after being acquitted in fact must be done without the advocate’s assistance and doesn’t require any corroborations. Thus the number of the witness’s statutes increases within an already complex legislative framework.
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LA GENESI DELLA PRONUNCIA
La questione sottoposta alla Corte scaturisce da un processo in cui l’accusa di “spaccio” di sostanze stupefacenti rivolta a tre persone era incentrata esclusivamente sulle dichiarazioni rese da colui che aveva acquistato la droga dagli imputati e che era già stato assolto con l’ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste” [1]. Costui, quindi, era stato sentito in dibattimento correttamente come “testimone assistito” ai sensi dell’art. 197-bis c.p.p e non mediante il mezzo di prova dell’esame di imputato connesso o collegato (art. 210 c.p.p.). Tuttavia, le dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto condurre alla condanna soltanto in presenza di «altri elementi di prova», in virtù della regola di valutazione contenuta nell’art. 192, comma 3, c.p.p., richiamata espressamente dall’art. 197, comma 6, c.p.p. A fronte della mancanza nel caso concreto dei necessari riscontri, il giudice rimettente ha denunciato l’illegittimità di quest’ultima disposizione per contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
Nell’ordinanza di rimessione vengono richiamati gli argomenti già utilizzati a suo tempo dalla Consulta per sottrarre in parte l’imputato assolto «per non avere commesso il fatto» alla disciplina della testimonianza assistita [2]. Si afferma, in particolare, che l’irrevocabilità di una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto pone la persona assolta nella stessa situazione di indifferenza del teste ordinario rispetto all’oggetto del processo.
Per questo stesso motivo, inoltre, la disciplina è stata denunciata anche sotto il profilo della necessaria assistenza difensiva al dichiarante assolto in via definitiva con la formula in parola. Tale questione, pur se non rilevante nel giudizio a quo, veniva portata all’esame del Giudice delle leggi nell’auspicio di una perfetta assimilazione tra «la posizione del coimputato per reato connesso assolto “perché il fatto non sussiste” a quella del coimputato per reato connesso “assolto per non aver commesso il fatto”».
L’ITER ARGOMENTATIVO
Con la pronuncia in commento la Corte ha accolto, in via diretta, la questione di illegittimità dell’art. 197-bis, comma 6, c.p.p., nella parte in cui richiede l’obbligo dei riscontri anche per le dichiarazioni rese dall’imputato assolto in via definitiva con la formula “perché il fatto non sussiste”; in via derivata, la questione di illegittimità parziale del comma 3 dell’art. 197-bis c.p.p. in ordine all’obbligo dell’assistenza difensiva per l’assunzione della testimonianza di quest’ultimo.
La trama della decisione riproduce in maniera quasi identica i contenuti della precedente declaratoria di illegittimità del 2006, che riguardava la deposizione dell’imputato assolto in via definitiva per non aver commesso il fatto. Anche in questa occasione il punto di partenza è rappresentato dalla “strategia di fondo” perseguita dal legislatore con la l. n. 63 del 2001, che come noto, nel dare attuazione ai princìpi costituzionali del “giusto processo” (art. 111 Cost.), ha imposto a certe condizioni l’obbligo di rispondere secondo verità come “testimoni assistiti” [3] a coloro che hanno rivestito, o rivestono ancora, la qualifica di imputato connesso o collegato (art. 197-bis c.p.p.). L’esistenza di un più o meno intenso collegamento con i fatti oggetto della deposizione ha indotto il legislatore del 2001 a prevedere alcune significative differenze rispetto alla disciplina della testimonianza “comune”: da un lato, la necessaria assistenza di un difensore per tutelare il dichiarante «da quei pregiudizi che potrebbero derivare contra se» [4]; dall’altro lato, l’assoggettamento delle dichiarazioni del testimone assistito al criterio di valutazione previsto dall’art. 192, comma 3, c.p.p. [5] .
Ne è scaturita un’ampia gamma di dichiaranti, differenziabili secondo una progressione che tiene conto dei «diversi stati di relazione rispetto ai fatti oggetto del procedimento» [6]: nella scala di “graduazione”, in estrema sintesi, se ad un estremo è collocabile il testimone comune, tradizionalmente considerato disinteressato all’esito processuale, all’estremo opposto trova collocazione l’imputato concorrente nel medesimo reato e in posizione intermedia il testimone assistito [7]. Alla diversità di status del dichiarante corrispondono differenti modalità di assunzione delle dichiarazioni e «diversi effetti del dichiarato». Così, l’imputato concorrente nel medesimo reato è sempre incompatibile con la qualità di testimone fin tanto che non sia divenuta definitiva la sentenza penale pronunciata nei suoi confronti (art. 197, lett a, c.p.p.) [8]; nelle more del procedimento potrà essere esaminato secondo le modalità previste nei primi cinque commi dell’art. 210 c.p.p., che gli attribuiscono il diritto all’assistenza di un difensore e la facoltà di non rispondere (art. 210 c.p.p.). Qualora costui scelga di rispondere alle domande, le sue dichiarazioni dovranno essere valutate dal giudice con prudenza «unitamente ad altri elementi di prova» (art. 192, comma 3, c.p.p.), dato l’elevato interesse che potrebbe avere ad un determinato esito processuale.
Muovendo da questo quadro di fondo la Corte ritiene la disciplina della testimonianza indiretta irragionevole e in contrasto con il principio di uguaglianza, secondo il consueto schema del tertium comparationis [9], nella misura in cui assimila le dichiarazioni della persona imputata in un procedimento connesso o collegato, assolta in via definitiva per insussistenza del fatto, a quelle rese dalle altre persone che possono essere sentite come testimoni assistiti. Per quanto concerne il profilo di irragionevolezza, il Giudice delle leggi ribadisce quanto già affermato nella sentenza n. 381 del 2006: le dichiarazioni rilasciate da chi è stato definitivamente assolto con la formula di merito più ampia non devono soggiacere alla regola di valutazione enunciata nell’art. 192, comma 3, c.p.p., perché il giudicato di assoluzione esclude «qualsiasi responsabilità rispetto ai fatti oggetto del giudizio».
Sotto il secondo profilo, la violazione del principio di uguaglianza viene ravvisata in ordine alla presunzione di minore attendibilità scaturente dalla regola di valutazione de qua. Le dichiarazioni rese dal testimone assistito già assolto con le formule più liberatorie sono considerate legalmente meno attendibili di quelle del testimone comune, benché costoro si trovino in una identica relazione «di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio: l’una sussistente ab origine, l’altra necessariamente sopravvenuta ed indotta dall’assoluzione divenuta irrevocabile».
Peraltro, la Corte evidenzia come una ingiustificata disparità di trattamento si sia venuta a creare in seguito alla stessa declaratoria di illegittimità costituzionale del 2006, che ha avvicinato alla testimonianza comune la deposizione di colui nei cui confronti è stata emessa una sentenza irrevocabile di assoluzione per non aver commesso il fatto [10].
A questo stato di cose pone adesso rimedio la pronuncia in commento che ravvisa l’illegittimità del comma 6 dell’art. 197-bis c.p.p. nella parte in cui esige altri elementi di prova per valutare le dichiarazioni rese da coloro che sono raggiunti da una sentenza definitiva di assoluzione con la formula perché “il fatto non sussiste”.
La Corte, inoltre, ha esteso, ai sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, la declaratoria di illegittimità costituzionale al comma 3 dell’art. 197-bis c.p.p. nella parte in cui prevede l’assistenza del difensore per le persone chiamate a deporre come testimoni assistiti, nei cui confronti sia divenuta irrevocabile la sentenza di assoluzione pronunciata per insussistenza del fatto: in tal modo si è evitato che la testimonianza di quest’ultimo «restasse soggetta a una modalità di assunzione della prova strettamente correlata» alla norma colpita da illegittimità costituzionale [11].
PROFILI DI CRITICITÀ
Dalla lettura della pronuncia in commento emerge che il ragionamento condotto dalla Corte costituzionale si fonda sulla stessa premessa della decisione del 2006: la sentenza irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste” nei confronti di un imputato connesso o collegato costituisce una «circostanza idonea ad eliminare qualsiasi stato di relazione di quel dichiarante rispetto ai fatti oggetto del procedimento» nel quale è chiamato a deporre e consente di assimilare, «almeno giuridicamente, [...] la sua situazione a quella di indifferenza del teste ordinario» [12].
La Corte, dunque, non ha tenuto conto delle perplessità manifestate in dottrina in ordine alla sua precedente decisione [13]. Come è stato bene evidenziato, il giudicato di assoluzione, sia pure con una delle formule più liberatorie, non rende di per sé la persona prosciolta “indifferente” alla vicenda processuale connessa o collegata. È noto che l’esito assolutorio può derivare dall’insufficienza, contraddittorietà o mancanza di prove a carico, ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. oppure dall’esistenza di un ragionevole dubbio sulla ricostruzione fattuale prospettata dal pubblico ministero (art. 533, comma 1, c.p.p.): in simili casi l’assolto non pare equiparabile ad un testimone “distaccato” rispetto all’accertamento processuale, perché al contrario ha tutto l’interesse a rivendicare l’assoluta estraneità ai fatti sui quali è chiamato a deporre. Ma, a ben vedere, tale interesse sussiste anche quando la sentenza irrevocabile abbia accertato in positivo l’innocenza dell’ex imputato. In altre parole, l’operatività del ne bis in idem processuale, che certo esclude l’avvio di una nuova vicenda giudiziaria penale sui medesimi fatti già vagliati (art. 649 c.p.p.), non vale ad elidere ogni relazione con i fatti oggetto di un procedimento connesso o collegato. Nonostante lo “scudo” penalistico del giudicato di assoluzione, il dichiarante continua ad essere «portatore di un interesse autodifensivo»; in particolare l’assolto, pur se “protetto” dalle formule più liberatorie, «potrebbe trovarsi nell’angosciosa alternativa fra il rispettare l’obbligo di rispondere secondo verità, fornendo così elementi in suo danno, e la necessità di tutelare la propria reputazione» [14] o comunque altri propri interessi, in tutti quei casi in cui l’effetto vincolante del giudicato penale non operi nei procedimento civili, amministrativi o disciplinari [15].
Proprio il perdurare del legame tra i fatti sui quali è intervenuto il giudicato e quelli oggetto del processo in cui l’assolto è chiamato a deporre sembra smentire, dunque, l’equiparazione operata dalla Corte tra quest’ultimo e il testimone “comune”. Messa in crisi la premessa dell’apparato motivazionale, si apre un’ampia falla nel discorso giustificativo teso ad escludere la corroboration per le dichiarazioni di colui che è stato assolto con una delle due formule più liberatorie [16].
TRA TESTIMONE COMUNE E TESTE ASSISTITO TERTIUM DATUR
La declaratoria di illegittimità in commento e quella precedente del 2006 non segnano un ritorno all’impostazione originaria del codice “Vassalli”, che consentiva la testimonianza dell’imputato prosciolto con sentenza irrevocabile. Come è già stato sottolineato [17], entrambi i dispositivi delle pronunce sono volutamente circoscritti soltanto alle persone assolte in via definitiva perché il fatto di reato non è loro attribuibile o non sussiste: ciò sia perché si tratta delle uniche due formule portate in modo espresso all’attenzione del Giudice delle leggi; sia perché le altre formule assolutorie non elidono del tutto il legame tra il dichiarante e i fatti oggetto di accertamento in un diverso procedimento penale [18]. Ne consegue che gli assolti con le formule “meno favorevoli” continueranno a deporre nel rispetto delle forme più garantite contemplate dall’art. 197-bis c.p.p.
Ma vi è di più. Le due declaratorie di incostituzionalità, nel disarticolare l’unità formale della figura del testimone assistito, hanno contribuito a scolpire i tratti di un ulteriore “statuto testimoniale”, che va ad aggiungersi a quelli tipici. Invero, in ordine alla situazione della testimonianza degli imputati assolti “per insussistenza del fatto” e “per non aver commesso il fatto”, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi soltanto su alcune ben determinate prescrizioni dell’art. 197-bis c.p.p., e precisamente su quelle impositive della necessità dei riscontri e dell’assistenza difensiva. Pertanto, la deposizione degli imputati assolti con le formule più liberatorie continua ad essere disciplinata dall’art. 197-bis c.p.p., ma ad essa non si applicano le regole attinte dalle declaratorie di illegittimità. Costoro, quindi, hanno l’obbligo di presentarsi dinanzi all’autorità senza l’assistenza del difensore, al pari dei testimoni comuni, e di dire la verità; ma possono beneficiare sempre della garanzia di inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni rese in sede penale nei giudizi civili o amministrativi relativi ai medesimi fatti oggetto del procedimento a loro carico (art. 197-bis, comma 5, c.p.p.) [19]. Si tratta, tuttavia, di un divieto di utilizzo poco adeguato alle esigenze di tutela dell’imputato assolto [20]: la garanzia, infatti, non esclude, tra le altre cose, che le dichiarazioni contra se «possano condizionare l’andamento - o l’avvio - di indagini preprocedimentali» o influire «sulla valutazione delle prove utilizzabili» in altri procedimenti [21].
È, inoltre, pienamente condivisibile l’opinione di chi ritiene, sulla base di una rigorosa interpretazione sistematica, che a tutti i testimoni assistiti, senza distinzione, spetta il così detto “privilegio contro l’autoincriminazione” [22] (198, comma 2, c.p.p.) su i «fatti ulteriori e diversi rispetto a quelli oggetto dei procedimenti e/o provvedimenti a loro carico» [23], e non anche su i fatti già “giudicati”: per questi opera la disciplina speciale contenuta nel comma 4 dell’art. 197-bis c.p.p., prevista però unicamente in favore dei condannati a certe condizioni [24]. Ne consegue che gli imputati assolti, chiamati a deporre come testimoni assistiti, hanno l’obbligo di dire la verità anche sul “fatto proprio” coperto dal giudicato, non trovando applicazione neppure l’avvertimento previsto dall’art. 63, comma 1, c.p.p.
La questione cruciale resta comunque quella inerente all’attendibilità del loro narrato perché, come detto più sopra, si tratta di persone che, pur se assolte in modo ampio e definitivo, possono avere interesse a mentire per una molteplicità di ragioni cui si è fatto cenno. La stessa garanzia di inutilizzabilità contra se, del resto, è stata intesa come un possibile disincentivo a rendere dichiarazioni veritiere da parte di chi è sentito ai sensi dell’art. 197-bis c.p.p. [25]. Per di più costoro, in caso di menzogne o reticenze, potranno invocare a proprio favore la scusante prevista dall’art. 384, comma 1, c.p., in quanto obbligati a deporre e, quindi, “costretti” a tacere o a dire il falso per proteggere il proprio onore [26].
Il rischio che la mancanza di un effettivo presidio penalistico all’obbligo di verità possa introdurre nel processo contributi probatori inattendibili, se non addirittura fuorvianti [27], ha spinto una parte della dottrina a formulare alcune proposte de iure condendo. Nell’ambito di questa prospettiva, alcuni studiosi considerano l’esame delle parti il mezzo di prova più idoneo «ad assicurare sia l’esigenza cognitiva sia il rispetto del diritto di difesa post iudicatum», nell’intento di riprodurre «una corretta simmetria fra le garanzie riconosciute prima e dopo il giudicato» all’imputato di procedimento connesso o collegato [28]. Si tratterebbe, quindi, di abbandonare la finzione voluta dalla legge n. 63 del 2001: l’ex imputato, assolto in via definitiva con le formule più liberatorie, dovrebbe poter scegliere se rispondere alle singole domande, ma senza obbligo di verità.
Altri autori, viceversa, condividendo l’opzione legislativa in favore della riduzione dell’incompatibilità a testimoniare in ossequio ai princìpi costituzionali del “giusto processo”, propongono di attribuire all’imputato connesso assolto in via definitiva una vera e propria facoltà di astensione dal deporre [29]. La rinuncia consapevole a tale facoltà, così come accade per i prossimi congiunti dell’imputato, verrebbe a configurare una testimonianza “volontaria” [30] in grado di “disinnescare” l’operatività della scusante prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. [31]. Una soluzione del genere sembra realizzare il miglior bilanciamento possibile tra l’esigenza di tutelare il diritto del dichiarante a non essere costretto ad esporre fatti contrari ai suoi interessi e la salvaguardia dell’interesse della Giustizia alla formazione di prove attendibili all’interno del processo penale.
[1] L’imputato era stato assolto con la formula “il fatto non sussiste” dal momento che il pubblico ministero non aveva soddisfatto l’onere della prova in ordine alla detenzione per uso non personale della sostanza stupefacente rinvenuta.
[2] C. cost., sent. 21 novembre 2006, n. 381, in Dir. pen. proc., 2006, p. 318, con nota di C. Conti, Imputato assolto per non aver commesso il fatto: deve essere equiparato al testimone comune.
[3] L’espressione, come noto, è ispirata al témoin assisté del code de procédure pénale: v. P. Tonini, Imputato “accusatore” e “accusato” nei principali ordinamenti processuali dell’Unione europea, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, p. 262.
[4] Così P. Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, II ed., Milano, 2014, p. 286. Per una esauriente analisi sulla funzione difensiva nel corso della testimonianza assistita si veda C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità, Padova, 2003, p. 281 ss.; cfr. anche M. Daniele, La testimonianza “assistita” e l’esame degli imputati in procedimenti connessi, in R.E. Kostoris (a cura di), Il giusto processo. Tra contraddittorio e diritto al silenzio, Torino, 2002, p. 220 ss.; Id., Lacune della disciplina sulla testimonianza assistita, in Cass. pen., 2005, p. 713; P. Morosini, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, in P. Tonini (a cura di), Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1° marzo 2001, n. 63), Padova, 2001, p. 314.
[5] In senso critico verso l’estensione della regola di valutazione di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni rese dai testimoni assistiti M. Bargis, Il regime della connessione, riunione e separazione dei processi, in AA.VV., Il giusto processo. Tra contraddittorio e diritto al silenzio, Torino, 2002, p. 152; V. Grevi, Prove, in Conso-Grevi, Compendio di procedura penale, VII ed., Padova, 2014, p. 347-348. Sul punto cfr. anche C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso, cit., p. 300; S. Corbetta, Principio del contraddittorio e riduzione del diritto al silenzio, in Dir. pen. proc., 2001, p. 685; P. Morosini, Il “testimone assistito” tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, cit., p. 314. Più in generale, sul rapporto tra il principio del libero convincimento del giudice e i criteri legali di valutazione delle prove, si veda P. Ferrua, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Questione giustizia, 1998, p. 587 ss. Per il rilievo che qualsiasi prova «dalla confessione alla testimonianza deve essere riscontrata» v. F.M. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano, 1997, p. 177.
[6] Queste distinzioni dei dichiaranti a seconda degli stati di relazione con i fatti oggetto del procedimento penale erano già state effettuate dalla Corte costituzionale nell’ord. 22 luglio 2004, n. 265, in Cass. pen., 2004, p. 4065, con riferimento ad un caso in cui un imputato connesso concorrente, dopo avere patteggiato la pena, era stato sentito ai sensi dell’art. 197-bis c.p.p. In tale pronuncia, la Corte non ha ritenuto ingiustificata la necessità dei riscontri per la valutazione del narrato, per la ragione che l’originario coinvolgimento nel fatto «lascia residuare un margine di continuità rispetto al procedimento che si riflette sulla valenza probatoria delle dichiarazioni».
[7] Cfr. al riguardo le considerazioni di M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. proc., 2011, p. 11. A proposito del testimone assistito parla di «ibridazione di un ibrido» G. Illuminati, L’imputato che diventa testimone, in Ind. pen., 2002, p. 403, in quanto figura a metà strada tra il testimone e l’imputato di procedimento connesso, che a sua volta è a metà strada tra l’imputato e il testimone.
[8] La radicale incompatibilità a testimoniare dell’imputato connesso concorrente nel medesimo reato, ancora sub iudice, ha superato il vaglio di legittimità costituzionale in ragione dell’unicità del fatto-reato e della stretta interferenza tra la posizione del dichiarante e quella dell’imputato principale: C. cost., ord. 26 novembre 2002, n. 485, in Giur. cost., 2002, p. 4028; C. cost., ord. 28 giugno 2004, n. 202, ivi, 2004, p. 2063.
[9] Sul frequente uso retorico del tertium comparationis cfr., anche per gli ampi riferimenti bibliografici, M.E. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 308. In ordine ai vaghi contorni del sindacato costituzionale di ragionevolezza v. pure M.L. Di Bitonto, La Corte costituzionale riapre il dibattito sulla testimonianza assistita, in Cass. pen., 2007, p. 499.
[10] Al fine di confermare la ragionevolezza di un identico trattamento per gli assolti con le due formule più liberatorie, la Corte fa anche un cenno alla nostra tradizione processuale. Invero, nel codice di rito del 1930, l’incompatibilità a testimoniare per l’imputato veniva a cadere in caso di assoluzione sia per insussistenza del fatto che per non aver commesso il fatto (art. 348, comma 3, c.p.p. 1930).
[11] Nella precedente occasione la Corte costituzionale aveva svolto alcune considerazioni in ordine all’assistenza difensiva dell’imputato chiamato a deporre come testimone assistito dopo la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto: «la presenza del difensore in funzione di assistenza del dichiarante, nella fase di acquisizione della prova, postula [...] una ragione normativa che appare del tutto incompatibile con la natura e gli effetti del giudicato di assoluzione, di cui è stato già destinatario il soggetto dichiarante. [...] L’assistenza difensiva necessaria, infatti, oltre a non essere presidiata da alcuna giustificazione normativa apprezzabile - ed, anzi, apparendo in logico contrasto con la neutralità del dichiarante rispetto al giudizio, già affermata dal giudicato di assoluzione - configura un indubbio vulnus al principio di eguaglianza sostanziale, atteso che, proprio in forza della presenza del difensore, la categoria dei dichiaranti in esame risulta soggetta, quanto alle modalità di assunzione della prova, ad un trattamento irragionevolmente diverso rispetto alla generalità degli altri testi» (così C. cost., sent. 18 gennaio 2006, n. 381, in Giur. cost., 2006, p. 3979).
[12] La suggestione relativa alla supposta estraneità del dichiarante ai fatti oggetto del giudicato era già stata formulata in passato da G. Cascini, Contraddittorio e limiti del diritto al silenzio, in Quest. giust., 2001, p. 303.
[13] Cfr., in particolare, M. Bontempelli, L’efficacia della sentenza di assoluzione irrevocabile tra garanzie di autodifesa e terzietà del testimone, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 790 ss.; G. Frigo, Operazione di maquillagecostituzionale sulla figura del “testimone assistito”, in Guida dir., 2006, n. 46, p. 76; O. Mazza, Lo strano caso del testimone-imputato assolto per non aver commesso il fatto, in Giur. cost., 2006, p. 3981 ss.
[14] Così si esprime O. Mazza, Lo strano caso del testimone-imputato assolto per non aver commesso il fatto, cit., p. 3982, il quale aggiunge un’altra interessante riflessione: il testimone assolto potrebbe essere condizionato, in modo più o meno consapevole, a mantenere ferma l’eventuale narrazione già fornita nell’altra sede processuale nella veste di imputato, con l’“ombrello” quindi della facoltà di mentire.
[15] Osserva M.L. Di Bitonto, La Corte costituzionale riapre il dibattito sulla testimonianza assistita, cit., p. 498, che la sentenza di assoluzione con le formule più liberatorie non ha effetto vincolante extrapenale «nel caso in cui il danneggiato non si sia costituito nel giudizio penale o non sia stato posto in condizione di farlo (arg. ex art. 652, comma 1 c.p.p.); in caso di esercizio di un’azione civile diversa da quella di danno; nel caso in cui la sentenza di assoluzione si fondi su una prova assunta con incidente probatorio al quale il danneggiato non sia stato consentito di partecipare, sempre che non ne abbia fatto accettazione anche tacita della prova de qua(art. 404 c.p.p.); in caso di giudizio amministrativo contabile nonché, secondo la prevalente opinione di dottrina e di giurisprudenza, anche nel caso in cui l’assoluzione dell’imputato sia stata determinata dalla mancanza, contraddittorietà o insufficienza di prove a carico».
[16] In passato si era prospettato che l’applicazione della regola di valutazione di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. agli assolti con sentenza definitiva potesse risultare in contrasto con l’art. 101 Cost.: in tal senso v. P. Morosini, Il testimone assistito tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l’autoincriminazione, cit., p. 326.
[17] Si veda C. Conti, Assolto irrevocabile per insussistenza del fatto: la Consulta elimina difensore e corroboration ma la testimonianza resta coatta, in Dir. pen. proc., 2017, p. 468.
[18] L’odierna declaratoria di illegittimità non era del tutto attesa (ma non è di questo avviso R.A. Ruggiero, Cronaca di una incostituzionalità annunciata, in www.penalecontemporaneo.it). Già subito dopo la pronuncia relativa alla formula assolutoria dell’imputato “per non avere commesso il fatto” si notava che la Corte costituzionale, se «avesse ritenuto estendibile la ratio della sua decisione ad altre categorie di prosciolti, avrebbe avuto l’obbligo di pronunciare l’illegittimità derivata ai sensi dell’art. 27 l. cost. 11 marzo 1953 n. 1»: così O. Mazza, Lo strano caso del testimone-imputato assolto per non aver commesso il fatto, cit., nota 12, p. 3984. Peraltro, a livello teorico, il dictum della sentenza costituzionale n. 381 del 2006 avrebbe potuto estendersi anche alla formula assolutoria per insussistenza del fatto sulla base dell’argumentum a fortiori: in senso dubitativo su questa prospettazione v. P. Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 296, nota 230.
[19] Per indicare la figura del dichiarante forgiata dalla Corte costituzionale si è impiegata l’espressione “testimone garantito”, proprio in considerazione della possibilità di avvantaggiarsi della speciale garanzia di inutilizzabilità contemplata nel comma 5 dell’art. 197-bis c.p.p.: si veda P. Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 294; C. Conti, Assolto irrevocabile per insussistenza del fatto: la Consulta elimina difensore e corroboration ma la testimonianza resta coatta, cit., p. 471.
[20] Sul tema v. P. Ferrua, L’attuazione del giusto processo con la legge sulla formazione e valutazione della prova, (I), Introduzione, in Dir. pen. proc., 2001, p. 591. Per una lettura della garanzia de qua in chiave premiale, v. A. Sanna, L’esame dell’imputato sul fatto altrui tra diritto al silenzio e dovere di collaborazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 492 ss.
[21] Così E.M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, cit., p. 317, la quale interpreta la garanzia di inutilizzabilità in questione non come una clausola di chiusura, quanto piuttosto come un indice di sfiducia del legislatore «nella capacità preventiva del complesso di cautele che accompagnano l’assunzione della testimonianza assistita». Per un parallelismo tra la speciale garanzia in parola e la use immunity di common law cfr. C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità, cit., p. 297 ss.
[22] Per tale espressione cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, XVII ed., Milano, 2016, p. 299.
[23] Così C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità, cit., p. 283 ss.
[24] Sotto questo profilo all’imputato assolto in via definitiva viene riservato un trattamento deteriore rispetto al condannato che aveva esercitato il proprio diritto al silenzio o si era limitato a negare la propria responsabilità: così E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3592, il quale aveva auspicato l’estensione in via interpretativa di tale privilegio anche all’assolto. In merito alla mancata estensione a quest’ultimo del privilegio sul giudicato E. M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, cit., p. 314, ravvisa «una netta frattura tra la disciplina in esame e il generale principio nemo tenetur se detegere - di rilevanza costituzionale e immanente al sistema organico della legge processuale - che informa anche il regime della prova testimoniale».
[25] In tal senso v. G. Illuminati, L’imputato che diventa testimone, cit., p. 406. Analogamente M.L. Di Bitonto, La Corte costituzionale riapre il dibattito sulla testimonianza assistita, cit., p. 498.
[26] Si veda Cass., sez. VI, 18 luglio 2007, P., in Cass. pen., 2008, p. 2466, secondo cui non è punibile ai sensi dell’art. 384 c.p. per falsa testimonianza colui che, per salvaguardare il proprio onore, dichiara il falso per non ammettere di avere erogato prestiti a tassi pacificamente usurari, pur se già prosciolto da tale imputazione. Cfr. anche Trib. Genova, 16 settembre 2006, in Corr. merito, 2007, p. 761, e G.i.p. Trib. Genova, 14 ottobre 1997, Fortunato, in Cass. pen., 1998, p. 341.
[27] Per simili considerazioni cfr. G. Giostra, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost., 1992, p. 991.
[28] Così O. Mazza, Lo strano caso del testimone-imputato assolto per non aver commesso il fatto, cit., p. 3986.
[29] Per questa proposta si veda C. Conti, Assolto irrevocabile per insussistenza del fatto: la Consulta elimina difensore e corroboration ma la testimonianza resta coatta, cit. p. 472.
[30] In questa direzione si muoveva il progetto P. Ferrua-P. Tonini, Testimonianza volontaria dell’imputato e tutela del contraddittorio, in Cass. pen., 2000, p. 2868.
[31] Cfr., con riferimento ai prossimi congiunti dell’imputato, Cass., sez. un., 29 novembre 2007, Genovese, in Cass. pen., 2008, p. 2339: «in tema di falsa testimonianza, la causa di esclusione della punibilità dello stato di necessità non opera nell’ipotesi in cui il testimone abbia deposto il falso, pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi e avendovi rinunciato»; nello stesso senso, in precedenza Cass., sez. VI, 23 maggio 1995, Nizzola, ivi, 1996, p. 3654.