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Prescrizione del reato e revoca delle statuizioni civili: "nuove" frontiere in materia di impugnazioni da parte del pubblico ministero

di Matteo Rampioni (Dottore di ricerca in Procedura penale - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)

L’impostazione esegetica in esame consente al pubblico ministero di ricorrere contro il provvedimento di revoca delle statuizioni civili per l’intervenuta prescrizione del reato nonostante il suo interesse ad impugnare abbia natura pubblicistica.

Statue of limitations and withdrawal of civil provisions: "new" frontiers in matter of appeals by the Prosecutor Office

The exegetical setting under consideration allows the Public prosecutor Office to appeal against the decision to withdraw the civil provisions for statute of limitations, despite the own interest has public nature.

LA QUESTIONE

Con la sentenza in esame si torna sul principio “d’immanenza” della parte civile nel processo penale, deducendo la possibilità (anche) per il Procuratore generale di impugnare mediante ricorso per Cassazione (lamentando la violazione di legge) la sentenza di appello con cui si revoca la costituzione per l’intervenuta prescrizione del reato.

Se rispetto al cd. principio “d’immanenza” non paiono individuarsi, così come peraltro ampiamente sottolineato dallo stesso provvedimento («è stato chiarito, infatti, che la disposizione di cui all’art. 82, comma 2, c.p.p. opera solo per il processo di primo grado quando, nel caso di mancata presentazione delle conclusioni, non si determina il petitum sul quale il Giudice possa pronunciarsi, mente invece, le conclusioni rassegnate in primo grado restano valide in ogni stato e grado del processo in forza di quanto stabilito dall’art. 76, comma 2, c.p.p.»), particolari problematiche interpretative [1], i maggiori profili di incertezza gravitano attorno all’interesse ad impugnare le sole questioni civili da parte del pubblico ministero .

L’INTERESSE AD IMPUGNARE: CENNI

Come è noto, le impugnazioni costituiscono il mezzo mediante cui ottenere una nuova pronuncia in ordine ad una precedente statuizione ritenuta sfavorevole [2].

La materia è governata dal principio di tassatività enunciato dall’art. 568 c.p.p. (rubricato per l’ap­punto «regole generali») che stabilisce, al primo comma, «i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati» (la cd. impugnabilità oggettiva), al terzo e quarto comma invece, «il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce. Se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di esse. Per proporre impugnazione è necessario avervi interesse».

L’interesse ad impugnare rappresenta l’aspetto dinamico dello jus impugnandi [3], individua, cioè, l’onere a carico dell’impugnante di manifestare al giudice il vantaggio ricavabile dal gravame [4].

La norma di riferimento, che ricalca essenzialmente l’abrogato art. 190, comma 4, c.p.p. 1930 (eliminando solo l’inciso «in ogni caso»), contempla un concetto appartenente ad una formula ampiamente utilizzata nel processo civile, dove l’interesse all’impugnazione si identifica nella “soccombenza” [5] di una delle parti. Tale termine (soccombenza) presuppone, da un lato, l’esistenza di un processo contenzioso caratterizzato «da una lite intesa come conflitto di interessi» [6], dall’altro, la perdita del processo di una delle parti, per l’appunto il soccombente.

In letteratura si è ampiamente discusso circa l’ammissibilità o meno del concetto di “lite” nel processo penale: una parte [7] (orientamento maggiormente risalente) ammette tale possibilità, ritenendo che il conflitto vada inteso come contrasto tra l’interesse statuale di repressione e l’interesse individuale di libertà; altra parte [8], invece, ed è l’orientamento che oggi viene maggiormente condiviso, non ritiene ipotizzabile un vero e proprio conflitto, essendo lo Stato (attraverso il potere giudiziario) parimenti obbligato, da un lato, ad attuare l’interesse punitivo, dall’altro a tutelare la libertà personale, rendendo, in radice, incompatibile la suddetta idea di soccombenza utilizzata nel processo civile [9].

Ciò posto, si segnala come nel corso degli anni numerosi sono stati i tentativi di individuare una precisa definizione dell’interesse ad impugnare [10].

Da un lato, l’interesse va inteso sotto due diversi profili: innanzitutto, andrebbe ricercato dentro la norma «essendo un elemento che non si deve aggiungere alla titolarità del diritto di impugnazione essendovi ricompreso, meglio cristallizzato nelle norme processuali che regolano le impugnazioni […] e si evidenzia solo nei casi dubbi e controversi di titolarità»; quindi, l’interesse sarebbe il criterio di delimitazione dell’esercizio di attività processuali astrattamente concesse alle parti.

Altra opinione [11] ritiene che l’interesse sia espressione del concetto di «economia processuale», per cui deve ritenersi estraneo al soggetto che attraverso l’impugnazione non è in grado di sortire effetti reali e concreti a tutela della propria posizione processuale.

Tuttavia, vi è anche chi sostiene [12] che l’interesse si concreterebbe nella semplice instaurazione del procedimento di secondo grado prescindendo dalla decisione che vi porrà fine.

Oggi il criterio pienamente metabolizzato è un criterio “misto” (secondo taluni, “utilitaristico”): il sistema delle impugnazioni appare strutturato, sia per tutelare l’interesse pubblico ad una corretta amministrazione della giustizia, sia per garantire la posizione delle parti coinvolte nel processo [13].

Si è chiarito (complici anche i numerosi interventi delle Sezioni Unite [14]) a più riprese che l’interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, c.p.p., quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione e requisito soggettivo del relativo diritto, deve essere correlato agli effetti primari del provvedimento da impugnare, e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento sfavorevole, una situazione immediata pratica più vantaggiosa per l’impugnante.

Per tali ragioni l’interesse ad impugnare deve presentare i caratteri della concretezza e dell’attualità: l’impugnante, verosimilmente, (oltre a mirare alla eliminazione dell’effettivo pregiudizio che asserisce di aver subito) dovrà chiarire con l’atto di gravame quale risultato intende perseguire, non soltanto in maniera teoricamente corretta ma anche praticamente favorevole, non ammettendo, infatti, la legge processuale l’esercizio del diritto di impugnazione, avente di mira la sola esattezza teorica della decisione o la correttezza formale del procedimento [15].

Secondo quanto stabilito dall’art. 73 ord. giud., il pubblico ministero (e dunque anche la Procura Generale presso la Corte di Appello) ha l’obbligo di vigilare sulla corretta osservanza della legge e sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia. Ciò vuol dire che «Il pubblico ministero è, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge e si qualifica come un magistrato appartenente all’ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere, che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge. Pertanto, come organo di giustizia è obbligato a ricevere tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato, pur operando nel rispetto assoluto dei principi del sistema accusatorio e del ruolo di parte›› [16]Pertanto, secondo una prospettiva assai generalista, tutte le volte in cui il magistrato d’ac­cusa ravvisi, nel provvedimento emesso, una decisione in qualsiasi modo ingiusta, quali che possano essere le conseguenze, favorevoli o svantaggiose per l’imputato, è legittimato ad impugnare il provvedimento emesso, senza necessità di alcun altro specifico requisito su cui commisurare la concretezza e la giuridica rilevanza a volte richieste per valutarne la consistenza.

IL PUBBLICO MINISTERO TUTELA INTERESSI PRIVATI?

L’impostazione adottata non convince pienamente, né per la soluzione offerta (che consentirebbe alla Procura di impugnare la revoca delle statuizioni civili disposta dalla corte di appello), né per le argomentazioni utilizzate.

Sin da subito è possibile notare come in linea di fondo tale prospettiva operi una sorta di sovrapposizione, ai fini degli interessi ontologicamente protetti dal pubblico ministero, tra la figura dell’im­pu­tato e quella della parte civile: si tenta cioè di applicare la medesima linea guida in materia di impugnazioni del magistrato d’accusa indipendentemente dal fatto che si tratti dei diritti dell’accusato o della parte civile, permettendo un ricorso per cassazione diretto a garantire la corretta applicazione della legge anche quando la denunciata violazione riguardi le aspettative del danneggiato.

È un ragionamento molto semplicistico che sottovaluta il diverso ruolo delle due (distinte) parti processuali private [17]: l’imputato subisce il procedimento penale e, per i rischi collegati alla sua posizione, il legislatore predispone a suo vantaggio (incluso l’art. 73 ord. giud.) una serie di meccanismi (es., artt. 358 c.p.p. e 568, comma 4-bis, 632, comma 1, lett. a), c.p.p.) volti a limitare o rimediare agli errori giudiziari dai quali dipende la lesione delle libertà fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalle Carte sovranazionali. In tal caso, l’interesse del pubblico ministero ad impugnare anche a favore dell’imputato assume tutta la sua pregnanza pubblicistica, diretta a garantire posizioni soggettive di rilievo meta-individuale. La parte civile invece, per la sua “eventualità” [18], la cui presenza è finalizzata al solo risarcimento del danno, non gode dello stesso livello di tutela che spetta all’imputato [19] a causa della valenza privatistica degli interessi sottesi alla sua domanda. Tale aspetto si riverbera anche nel trattamento della parte civile, la quale non gode simmetricamente degli stessi diritti processuali dell’accu­sato, profilo largamente giustificato dalla possibilità di vantare le proprie pretese dinanzi alla giurisdizione civile dove - lì si - vanterebbe delle stesse prerogative del convenuto. Se così stanno le cose, la specificità privatistica sottesa alla domanda della parte civile non può essere confusa con le situazioni soggettive processuali dell’imputato; solo la natura pubblicistica di queste ultime permette un loro assorbimento nel più generale interesse del pubblico ministero ad impugnare per conseguire il rispetto della legge penale e processuale penale.

Peraltro, sotto un profilo diverso, la sentenza in commento appare ambigua sulla base dei suoi stessi argomenti. Sostenendo che l’interesse all’impugnazione non può essere «solo teoricamente corretto» [20], ma deve risultare, vista la finalità risarcitoria della costituzione, anche «praticamente favorevole» all’impu­gnante, appare chiaro come, di fronte ad una totale inerzia della parte civile (evidentemente “disinteressata” [21]), l’atto di gravame dell’Ufficio di Procura, non possa determinare alcun beneficio in capo all’accusa, alla quale sarà sempre inibito riscuotere, in luogo della parte civile, le somme di denaro liquidate dal Giudice di primo o secondo grado.

L’accoglimento di una simile impostazione comporta, inoltre, ulteriori conseguenze. Innanzitutto, offrendo agli uffici di Procura la possibilità di perseguire interessi privatistici laddove l’ordimento non lo prevede (diversa sarebbe l’ipotesi dell’art. 77 c.p.p. che stabilisce «In caso di assoluta urgenza, l’azione civile nell’interesse del danneggiato incapace per infermità di mente o per età minore può essere esercitata dal pubblico ministero […]» [22]), si produrrebbe lo sconfinamento dai compiti istituzionali pubblicistici; poi, verrebbero meno le note finalità di economia processuale cui si ispira il codice di rito, con il rischio di instaurare un giudizio d’impugnazione senza la partecipazione della parte civile che, per le più disparate ragioni, potrebbe non essere più interessata a perseguire la pretesa risarcitoria nel processo penale.

In adesione all’orientamento [23] secondo cui l’interesse all’impugnazione è anche espressione dell’«e­conomia processuale», tutte le volte in cui il pubblico ministero proponga impugnativa contro le statuizioni civili, il giudice adito dovrebbe dichiarare l’inammissibilità per carenza di interesse [24].

Infine, del tutto fuorviante appare l’affermazione secondo cui la posizione «della parte civile nel processo penale è oggi oggetto di importante riflessione anche e soprattutto su sollecitazione del legislatore comunitario (cfr., la Direttiva 2012/20 UE cui il legislatore interno ha dato attuazione con il D.Lgs. n. 212 del 2015) e la cui tutela, proprio alla luce di una serie di importanti imput derivanti dalla normativa e dalla giurisprudenza sovranazionale, si può certamente affermare essere un obiettivo che risponde ad un interesse generale». Se è vero, infatti, che il d.lvo 15 dicembre 2015, n. 212, attuativo della Direttiva UE, ha generato la modifica di alcune previsioni del Codice di procedura penale, è anche vero che tali modifiche riguardano la sola persona offesa dal reato (in particolare, quella “vulnerabile”) e non anche la parte civile; ma, soprattutto, occorre tener conto che l’intervento normativo non tocca la materia delle impugnazioni relativamente alle pretese risarcitorie.

Alla luce di quanto si qui detto, sembra possibile stabilire, almeno ad avviso di chi scrive, che le statuizioni risarcitorie debbano essere impugnate solo dalla parte che le rivendica nel giudizio penale, l’unica in grado di conseguire un’utilità dal gravame; seguendo la tesi offerta dall’orientamento in questione, si corre il pericolo, oltre alle torsioni già indicate, di dar vita ad un nuovo e atipico “effetto esten­sivo” dell’impugnazione dove la parte civile si gioverebbe, nonostante la sua inerzia, degli effetti benefici eventualmente conseguiti dalle doglianze fatte valere dal magistrato d’accusa ipotesi che, peraltro, collide con l’idea di evitare qualsiasi commistione processuale tra pubblico ministero e parte civile [25].

 

NOTE

[1] È l’art. 76, comma 2, c.p.p. a stabilire il principio secondo cui la costituzione di parte civile, una volta validamente intervenuta in primo grado in virtù di procura speciale conferita ai sensi dell’art. 100 c.p.p., produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, nel senso che il difensore della parte civile può resistere all’impugnazione dell’imputato, presentare conclusioni e la nota spese senza necessità di altro mandato. Sul punto la giurisprudenza è assolutamente costante (Cass., sez. un., 20 dicembre 2012, n. 6509, in Cass. pen., 2013, 2956; si veda inoltre, sulla stessa scia, Cass., sez. III, 15 maggio 2003, n. 21284, in P. Corso (a cura di), Codice di procedura penale annotato, Piacenza, La Tribuna, 2016, p. 241; Cass., sez. II, 20 maggio 2008, n. 24063, in Cass. pen., 2009, p. 3937; Cass., sez. VI, 23 maggio 2013, n. 25012, in CED Cass., n. 257032). Per una ricostruzione storica del principio in questione, G. Barrocu, Costituzione di parte civile nei successivi gradi di giudizio, in Dir. pen. proc., Milano, Ipsoa, 2008, p. 901.

[2] P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2015, p. 844: «Il termine, dal punto di vista etimologico, viene dal latino pugnare, che significa lottare. L’oggetto contro cui si lotta, in questo caso è una sentenza». Ancora, A. De Caro, Le impugnazioni, in A. Scalfati (a cura di), Manuale di diritto processuale penale, Torino, Giappichelli, 2017, p. 741; G. Tranchina, Impugnazioni (dir. proc. pen.), in Enc. dir., 1959, p. 699 ss.; G. Spangher, Impugnazioni penali, in Dig. disc. pen., 1988, p. 217 ss.; G.D. Pisapia, Lineamenti del nuovo processo penale, Padova, Cedam, 1989, p. 1 ss.; F. Cordero, Codice di procedura penale commentato, Torino, Utet, 1990, p. 637.

[3] G. Tranchina, Impugnazioni (dir. proc. pen.), in op. cit., p. 712; F. Nuzzo, Brevi appunti sulla legittimazione del pubblico ministero a impugnare per gli interessi civili, in Cass. pen., 2008, p. 1103; G. Spangher, Impugnazioni, in G. Spangher(a cura di), Trattato di procedura penale, Torino, Utet, 2009, p. 28; F. Nuzzo, L’appello nel processo penale, Milano, Giuffrè, 2005, p. 73.

[4] G. De Roberto, sub Art. 568 c.p.p., in G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, II ed., VIII, Milano, Giuffrè, 2003, p. 146.

[5] Sul concetto di «soccombenza», G. Chiovenda, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, Utet, 1901, p. 242; T. Siciliani, Spese giudiziali civili, in Ns. Dig. it., XII, 1940, p. 728; P. Pajardi, La responsabilità per le spese e i danni del processo, Milano, Giuffrè, 1959, p. 33.

[6] S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, Cedam, 1959, p. 90.

[7] N. Jaeger, La lite penale, in Riv. it. dir. pen., 1942, p. 315 ss.; G. Leone, Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, Jovene, p. 180; G. Bellavista, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, Giuffrè, 1965, p. 41.

[8] P. Calamandrei, Il concetto di lite nel pensiero di Francesco Carnelutti, in Riv. dir. proc. civ., I, 1928, p. 16; G. Tranchina, Impugnazioni (dir. proc. pen), in op. cit., p. 713; F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, Cedam, 1936, p. 40; A. De Marsico, Dogmatica e politica nella scienza del processo penale, in Nuovi studi di diritto penale, Napoli, Jovene, 1951, p. 94; G. Guarnieri, Le parti nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1941, p. 29; A. De Caro, L’illegittimità costituzionale del divieto di appello del pubblico ministero tra parità delle parti e diritto al controllo di merito della decisione, in Dir. pen. proc., 2007, p. 621.

[9] Di medesimo avviso le Sezioni Unite: secondo Cass., sez. un., 27 ottobre 2011, n. 6624, in Cass. pen., 2013, p. 105, «Nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale».

[10] G. Spangher, Impugnazione del pubblico ministero nell’interesse della legge e concomitante impugnazione dell’imputato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1972, p. 844.

[11] E. Massari, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, Napoli, Jovene, 1934, p. 42.

[12] G. Sabatini, Ancora sull’interesse ad impugnare, in Giur. completa Cass. pen., 1945, p. 165; E. Garbagnati, La sostituzione processuale nel nuovo codice di procedura civile, Milano, Giuffrè, 1942, p. 74.

[13] Tra i molti sul tema dell’interesse ad impugnare, G. Spangher, Impugnazioni, cit., p. 28 ss.; C. Santalucia, Art. 568 c.p.p., in G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Agg., VIII, Milano, Giuffrè, 2008, p. 37; G. Canzio-R. Bricchetti, Impugnazioni, in E. Aprile (coordinato da), Codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2017, p. 4085 ss.; G. Spangher, Impugnazione del pubblico ministero nell’interesse della legge e concomitante impugnazione dell’imputato, in op. cit., p. 844; E. Turco, Legittimazione e interesse ad impugnare in tema di sequestro preventivodualismo teorico? in Cass. pen., 2003, p. 2367; C.U. Del Pozzo, voce Impugnazioni(Dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XX, Milano, Giuffrè, 1970, p. 713; L. Salveneschi, L’interesse ad impugnare, Milano, Giuffrè, 1990, p. 338; M. Ramajoli, La nuova disciplina delle impugnazioni nel codice di rito penale, in Riv. it. dir. proc. pen., III, 1990, p. 301; M. Prestipino, In tema di interesse e legittimazione ad impugnare del pubblico ministero d’udienza, in Giur. it., 1994, II, p. 204.

[14]Cass. S.U., 16 marzo 1994, in Cass. pen., 1994, p. 2400; Cass., S.U., 13 dicembre 1995, n. 42, in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 72; Cass., S.U., 27 settembre 1995, n. 10372, in Foro it., 1996, II, p. 283; Cass. S.U., 9 ottobre 1996, in Cass. pen., 1997, p. 691; Cass., sez. un., 27 ottobre 2011, n. 6624, in Cass. pen., 2013, p. 105.

[15] Cass., S.U., 27 settembre 1995, n. 10372, in Cass. pen., 1996, p. 67 ss.

[16] C. cost., sentenza n. 88 del 1991, in www.cortecostituzionale.it. In termini analoghi: C. cost., sentenza n. 190 del 1970, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sentenza n. 96 del 1975, in www.cortecostituzionale.it.

[17] Sul punto appare corretta, anche solo se con esclusivo riferimento all’impugnazione delle sentenze di condanna da parte dell’accusa, l’affermazione di A. De Caro, La deflazione delle impugnative, in A. Scalfati (a cura di), La riforma della giustizia penale, Commento alla legge 23 giugno 2017, n. 103, Torino, Giappichelli, 2017, p. 342, «La riduzione dell’area di appellabilità della sentenza di condanna da parte dell’accusa deve essere valutata, dal punto di vista generale e del principio che esprime, con favore nella misura in cui viene operata una distinzione dell’interesse dei vari soggetti a proporre gravame di merito. Non può, infatti, essere invocata l’uguaglianza assoluta, ma deve ragionevolmente distinguersi tra imputato e pubblico ministero in ragione del rispettivo interesse ad impugnare e secondo le prerogative dell’uno e dell’altro assolutamente non assimilabili».

[18] Cfr. A. Giarda-G. Spangher, sub art. 74 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, Milano, Ipsoa, 2007, p. 601: «essa costituisce un’anomalia o un’alterazione del sistema processuale genericamente inteso, che non richiede affatto la presenza di parti plurime a sostegno dell’azione».

[19] Tra i molti sul tema: G. Leone, Azione civile e processo penale, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1959, p. 830; B. Lavarini, Azione civile nel processo penale e principi costituzionali, Torino, Giappichelli, 2009, p. 3; A. Pennisi, L’accessorietà dellazione civile nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1981, p. 29 ss.; P. Della Sala, Natura giuridica dell’azione civile nel processo penale e conseguenze sul danno, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 1079; N. Spagnoli, L’esercizio dell’azione civile nel processo penale tra favor rei e favor separationis, in Giur. it., 2013, p. 2647; A. Chiliberti, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, Giuffrè, 2006, p. 1 ss.; E. Strina-S. Bernasconi, Persona offesa, parte civile. Difesa e processo, Milano, Giuffrè, 2001, p. 4; A. Anceschi, La costituzione di parte civile nel processo penale, Torino, Giappichelli, 2009, p. 17 ss.; E. Squarcia, Persona offesa dal reato e persona danneggiata dal reato, una distinzione non sempre agevole, in Cass. pen., 2001, p. 3119.

[20] Sul punto la giurisprudenza è assolutamente orientata nello stabilire che «Non integra gli estremi della revoca della costituzione di parte civile, ex art. 82, comma 2, c.p.p., la mancata presentazione di conclusioni scritte nel giudizio di appello, posto che, in virtù del principio di immanenza della costituzione di parte civile, le conclusioni rassegnate in primo grado restano valide in ogni stato e grado del processo, con la conseguenza che deve escludersi, in forza della clausola di applicabilità enunciata dall’art. 598 c.p.p., l’operatività in appello della disposizione sanzionatoria, in chiave processuale prevista dall’art. 82 c.p.p.». Tra le molte, Cass., sez. V, 12 aprile 2006, n. 12959, in CED Cass., n. 234536; Cass., sez. V, 27 ottobre 2006, p. 38942, in Cass. pen., 2007, p. 4675; Cass., sez. VI, 11 dicembre 2008, n. 48397, in CED Cass., n. 242132; Cass., sez. IV, 28 maggio 2008, n. 24360, in Cass. pen., 2009, p. 4799; Cass., sez. II, 15 gennaio 2013, n. 18269, in CED Cass., n. 255752; Cass., sez. II, 13 febbraio 2014, n. 7021, in CED Cass., n. 259553.

[21] È per tale ragione che una parte della giurisprudenza ai fini dell’immanenza della costituzione richiede che la parte civile si riporti, quantomeno, all’atto originario di costituzione. Cass., sez. V, 14 febbraio 2002, n. 20475, in Dir. e giustizia, 2002, p. 76; Cass., sez. IV, 27 giugno 2007, n. 39595, in Cass. pen., 2009, p. 657; Cass., sez. IV, 19 aprile 2012, 21210, in www.dirittoegiustizia.it, 30 novembre 2012 .

[22] G. Conso, Capacità processuale penale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1960, p. 134; S. Satta, Capacità processuale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Milano, 1960, p. 130.

[23] E. Massari, Il processo penale nella nuova legislazione italianaop. cit., 1934, p. 42.

[24] Nell’esperienza del codice Rocco la giurisprudenza era costante nello stabilire che l’impugnazione del pubblico ministero non produce effetti per quanto attiene alle statuizioni civili, essendo prevista in linea eccezionale la tutela di interessi privatistici affidata al pubblico ministero nei soli casi disciplinati dall’art. 196 c.p.p. 1930. Cass., sez. IV, 13 marzo 1986, n. 138, in Giust. pen., III, 1987, p.172; Cass., sez. IV, 7 febbraio 1984, in Cass. pen. mass. ann., 1984, 167.065; Cass., sez. IV, 4 giugno 1981, in Cass. pen. mass. ann., 1981, 150.532.

[25] Si ricordi, ad esempio, che sostenere le conclusioni del pubblico ministero a cura della parte civile, senza che quest’ultima rassegni le proprie conclusioni, rappresenta causa di revoca tacita della costituzione stessa. Cass., sez. V, 24 novembre 2017, n. 9936, in Dir. e giustizia, 6 marzo 2018.