Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali (di Alberto Camon)


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La relazione mette in luce carenze e virtù della disciplina italiana sulla prova genetica, proponendo alcuni spunti di riflessione e di riforma; si toccano pure gli aspetti operativi propri delle diverse fasi del procedimento probatorio.

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DNA evidence between investigative practices and rules of procedure

This essay aims to bring into focus the major virtues and flaws of Italian legislation on DNA evidence, suggesting avenues for further reflection and for reform; it also touches upon the practical aspects proper to the different phases of probative procedure.

Il titolo del tema che m’accingo ad affrontare gioca sulla contrapposizione fra due poli: la prassi e le regole. Cercherò di tener presente questo binomio, svolgendolo lungo le scansioni in cui s’articola la prova del DNA. Per comodità espositiva, spezzerò il procedimento probatorio in tre fasi: l’individua­zione e la raccolta del reperto biologico; il prelievo del campione dal corpo d’un individuo; l’estrazione del profilo dal reperto e dal campione ed il raffronto fra i dati ottenuti. Naturalmente si tratta d’una classificazione convenzionale e, come tutte le convenzioni, ha un certo grado d’arbitrarietà; malgrado ciò, la tripartizione è utile, perché permette d’avvicinarsi rapidamente ad un paradosso: in ambito penale, la prova del DNA è stata disciplinata con una legge del 2009 (la l. 30 giugno 2009, n. 85), la quale non s’è occupata né della prima né della terza ma soltanto della seconda fase, cioè dell’unica porzione del procedimento che potrebbe anche mancare (a volte, infatti, non c’è bisogno di toccare una persona per procurarsi un suo campione biologico; lo si può fare altrimenti; oppure può succedere che il suo profilo genetico sia già archiviato in una banca dati). Questa scelta legislativa ha una spiegazione nota: il caso della madonnina di Civitavecchia; la dichiarazione d’incostituzionalità della norma (art. 224, comma 2, c.p.p.) che fino ad allora aveva consentito di procacciarsi coattivamente i campioni di sostanza organica da sottoporre all’analisi [1]; l’apertura d’un periodo d’interregno, durante il quale gli organi dell’investigazione, privi d’uno strumento normativo appropriato, furono costretti ad escogitare stratagemmi (alcuni estrosi, alcuni discutibili) per procurarsi il campione senza però incidere sulla libertà personale del sospettato; infine, l’esigenza impellente di colmare il vuoto aperto dalla Consulta. La lacuna normativa è dunque comprensibile; però non è indolore: lo capiamo accostandoci alla prima fase del procedimento. Anche se non si può escludere il ricorso ad altri strumenti ed in particolare ad alcuni mezzi di ricerca della prova quali le ispezioni o le perquisizioni, per lo più il reperto viene raccolto nel corso del sopralluogo. La disposizione che regola tale attività (art. 354 c.p.p.) fu redatta nel 1988 e, in seguito, è stata ritoccata solo su aspetti che non hanno stretta attinenza con la nostra materia; siccome il test del DNA fu adoperato nel processo per la prima volta in una vicenda del 1987 [2], questo significa che l’art. 354 c.p.p. è stato scritto senza nemmeno sapere che la prova genetica esistesse. Non solo: nei ventisette anni ormai trascorsi da quando il [continua..]

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Fascicolo 6 - 2015