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La necessità di motivazione sulla attualità della pericolosità per gli indiziati di "appartenenza mafiosa" riceve l´avvallo delle Sezioni Unite

di Maria Francesca Cortesi

La Corte di cassazione, a Sezioni Unite, nella decisione in esame, contribuisce ad uniformare il sistema della prevenzione personale ai canoni di garanzia imposti dalle fonti nazionali e sovranazionali. Proprio la linearità e chiarezza del percorso intrapreso evidenzia in modo ancora più marcato il differente atteggiamento interpretativo adottato, invece, in riferimento agli strumenti di matrice reale, ove si confermano impostazioni interpretative distanti dal consentire una effettiva tutela del proposto.

The need to state reasons regarding the topicality of the danger for the suspects of "mafia membership" receives the backing of the United Sections

The United Sections of the Corte di cassazione, in the present decision, contribute to standardize the system of personal prention to the guaranteed standards imposed by national and supranational sources. The straightforwardness and the clearness of the Court decision shows in a more marked way the different interpretative attitude adopted, instead, with reference to the in rem preventive measures, where different interpretative views, far from allowing effective protection of the proposed, are corfirmed.

 

La questione

Le Sezioni Unite si sono da qualche tempo riservate un ruolo primario nel processo di “giurisdizionalizzazione” e “costituzionalizzazione” della prevenzione personale, contribuendo al superamento di contrasti interpretativi ed offrendo un approccio ermeneutico di valore.

Siffatto ruolo viene ribadito anche nella decisione in esame.

La questione di diritto rimessa alla Suprema Corte riguarda la necessità o meno, nell’ambito del procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali, di accertare il requisito dell’attualità della pericolosità del soggetto proposto in presenza di elementi ritenuti indizianti circa la pregressa appartenenza ad una associazione di stampo mafioso.

Così come emerge nella stessa ordinanza di rimessione [1], la risoluzione della questione riveste una significativa importanza, poiché consente di giungere ad una definizione della “perimetrazione del­l’ob­bligo motivazionale” in capo ai giudici del merito, che, dopo aver realizzato con esito positivo il preliminare inquadramento all’interno di una delle categorie soggettive delineate ai sensi dell’art. 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia), intendono accogliere la proposta di applicazione della misura di prevenzione.

Si tratta, dunque, di comprendere se e, eventualmente, entro quali limiti, esista in materia una presunzione di pericolosità nei confronti del prevenuto; la fonte della stessa, ove sussistente, e le conseguenti ricadute di tale assetto sull’andamento motivazionale del provvedimento applicativo.

Appare chiaro, ancor prima di inoltrarsi in una riflessione più attenta, come vengano in tal modo coinvolti aspetti portanti del sistema di prevenzione personale su cui si misurano, tra l’altro, le imprescindibili garanzie di tutela nei confronti dell’interessato.

Le prospettive interpretative in argomento, sedimentatesi nel corso degli anni ed in presenza di differenti legislazioni sul tema, sono tre.

La prima, su cui si basa, tra l’altro, il provvedimento oggetto di impugnazione nel caso di specie, è la più radicata nella giurisprudenza, sebbene sia risalente e si ispiri ad un sistema normativo ormai superato.

Essa sostiene che il giudizio di pericolosità nei confronti di coloro che sono indiziati di appartenere ad una organizzazione mafiosa venga desunto ex lege [2].

Tale lettura esalta, invero, la precedente dizione legislativa che pareva richiedere solo nei casi di pericolosità “generica”, contenuti nell’art. 1, l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), e non anche in quelli di pericolosità “qualificata”, di cui agli artt. 1 e 2, l. 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), l’accertamento concreto ed attuale della pericolosità, arrivando a ritenere la stessa, in dette ultime ipotesi, presunta [3].

Elemento di rilievo, sottolineato anche nella pronuncia in esame, è, però, il fatto che il predetto orien­tamento, pur con marginali correttivi, ha continuato a prevalere nell’interpretazione giurisprudenziale nonostante il d.lgs. n. 159 del 2011, oggi vigente, contenga una diversa impostazione normativa. L’art. 6, d.lgs. n. 159 del 2011 impone, infatti, ai fini dell’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, la verifica circa la sussistenza attuale della pericolosità sociale per tutte le categorie soggettive potenziali destinatarie degli istituti de quibus, eliminando qualsivoglia differenziazione seppur solo testuale.

Il secondo indirizzo interpretativo, formatosi già nella vigenza della pregressa disciplina, accoglie, invece, una lettura intermedia che considera “affievolita” la presunzione di appartenenza ad una associazione mafiosa per effetto del decorrere del tempo, con la conseguenza che, in siffatte circostanze, si richiede un controllo più approfondito in ordine al requisito dell’attualità [4].

Il terzo indirizzo, infine, anch’esso precedente all’introduzione della attuale sistema di prevenzione personale, considera sempre necessaria una motivazione in positivo sul punto dell’attualità della pericolosità [5].

L’impostazione metodologica che contraddistingue tali approcci interpretativi, con particolare riguardo alle posizioni più estreme, è chiaramente assai distante, essendo fondata su una concezione della struttura ante delictum personale ontologicamente differente.

Ciò che, però, a parere di chi scrive, deve indurre ad una attenta valutazione non è solo la circostanza che nella decisione in analisi sia prevalsa la lettura più garantista, che impone, dunque, una verifica in positivo in ordine all’attualità della pericolosità, ma piuttosto il percorso argomentativo e motivazionale che ha condotto i giudici a ribaltare l’orientamento fino ad oggi prevalente.

Come anticipato, infatti, gli indirizzi interpretativi sul punto si erano già delineati nel vigore della pregressa disciplina ed erano rimasti pressocché inalterati anche con l’avvento del d.lgs. n. 159 del 2011 a testimonianza di come non sia stato il mero mutamento del dato testuale ad influenzare la scelta compiuta oggi dalla giurisprudenza, bensì qualcosa di nuovo ed ulteriore.

Attraverso l’analisi di tali novità, alcune delle quali emergono nella motivazione della pronuncia in esame, potrà risultare ancora più evidente e marcata anche la diversa prospettiva ermeneutica utilizzata dai giudici di legittimità tra il settore della prevenzione personale ed il settore della prevenzione reale.

Se, infatti, la Suprema Corte pare essersi, in un caso, finalmente sintonizzata su parametri rispettosi dei fondamentali canoni costituzionali e sovranazionali, nell’altro, continua, quasi del tutto inspiegabilmente, ad arroccarsi su letture stridenti con le più elementari forme di garanzia.

Il presupposto della pericolosità sociale nelle misure di prevenzione personali

Appare, in primo luogo, doveroso tracciare alcune linee generali in riferimento al requisito della pericolosità sociale, per la cui neutralizzazione vengono adottate proprio le misure de quibus e che costituisce una condizione indispensabile al fine di attivare il complesso meccanismo in analisi.

La sicurezza pubblica è messa in pericolo allorquando la “delinquenza” può passare da una fase programmatica ad una fase di attuazione del crimine, indebolendo le condizioni di garanzia che consentono il pacifico svolgimento della vita associata e l’ordinato esercizio delle funzioni inerenti ai pubblici poteri [6].

La prevenzione del crimine costituisce, pertanto, «... un compito imprescindibile per lo Stato, che si pone come un prius rispetto alla potestà punitiva» [7].

In ragione di ciò, le limitazioni, anche notevoli, a taluni diritti costituzionalmente garantiti, non possono essere considerate illegittime, essendo informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale, principio, destinato ad assicurare l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra i cittadini, che viene garantito, oltre che da un sistema repressivo dei fatti illeciti, da uno parallelo, costituito da misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell’avvenire.

Siffatta struttura corrisponde, dunque, ad una esigenza fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta anche nella nostra Costituzione agli artt. 13, 16 e 17 Cost. [8].

La sussistenza della pericolosità sociale costituisce, in detta prospettiva, la causa che giustifica l’intervento statuale a tutela della difesa sociale. Essa deve essere descritta dalla legge attraverso il richiamo a fattispecie predeterminate, dal momento che su tale parametro deve fondarsi l’accertamento giudiziale [9].

Nella sua accezione più generica la pericolosità sociale non necessita di alcun collegamento con una violazione della legge penale ed in ciò si differenzia dall’omonimo concetto sviluppatosi in tema di misure di sicurezza che si identifica, a contrario, con la probabilità di commissione di ulteriori reati.

In virtù di tale diversa natura parte della dottrina ritiene che essa, nell’ambito in esame, corrisponda ad una nozione più ampia ed indeterminata, contraddistinta da un connotato positivo: il richiamo alla sicurezza pubblica e da un connotato negativo: la non necessità di previsione della perpetrazione di nuovi reati [10].

Originariamente il sistema di prevenzione personale si riferiva solo ad un concetto di pericolosità “generica” o comune, confluito all’interno dell’art. 1, d.lgs. n. 159 del 2011, la cui estrema genericità e vaghezza è stata, da ultimo, stigmatizzata dai giudici europei [11].

Nell’evolversi del sistema di prevenzione penale e con il costante ampliamento dei soggetti destinatari degli strumenti in esame, il legislatore si è, però, progressivamente allontanato da tale concetto di pericolosità, utilizzando sempre più spesso il richiamo a condotte penalmente rilevanti al fine di individuare le categorie di persone pericolose per la sicurezza pubblica.

La pericolosità “qualificata” viene, dunque, forgiata sulla falsa riga di alcune fattispecie codicistiche, quantunque per la sussistenza della medesima sia richiesto un quid minus rispetto a ciò che è necessario nel procedimento penale per il raggiungimento della prova in ordine alla commissione del fatto di reato.

Si inaugura così un meccanismo che si affianca al rito penale, destinato ad applicare misure di prevenzione, che si aggiungono alle eventuali sanzioni comminate in detta sede ovvero che si sostituiscono ad esse laddove ivi non sia raggiunta la prova della colpevolezza dell’interessato.

Le due manifestazioni di pericolosità, come sottolineato dalle stesse Sezioni Unite [12], pur riconnettendosi a fenomenologie criminali profondamente diverse per coefficiente di gravità ed allarme sociale, costituiscono, comunque, distinte espressioni di un sistema unitario rappresentato proprio dal sistema di prevenzione.

Al di là, infatti, della ontologica diversità dei contesti di riferimento, le due forme di pericolosità presentano un comune denominatore: entrambe sollecitano risposte ordinamentali non già a fatti costituenti reato, ma a stili di vita e metodiche comportamentali che si collocano al di fuori degli ordinari schemi della civile convivenza e del sistema democratico. In un caso, si richiama l’abituale dedizione al crimine, eletto a fonte di sostentamento; nell’altro, il riferimento è a scelte esistenziali ed a sistematici comportamenti antitetici alle regole del consorzio civile, ma, in ogni caso, orientati a logiche di profitto e di facile arricchimento.

In ordine alle dinamiche applicative, come già evidenziato, l’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, nel disciplinare le diverse tipologie di misure di prevenzione personali ed i relativi presupposti, richiede non solo l’appartenenza ad una delle categorie soggettive di cui all’art. 4, d.lgs. n. 159 del 2011, ma anche l’autonoma prova della sussistenza del pericolo per la sicurezza pubblica.

Il giudizio di pericolosità che deve essere formulato ai fini prevenzionali si risolve, dunque, in una prognosi sul futuro comportamento del soggetto desunto da elementi sintomatici, che devono, evidentemente, giustificare una particolare cautela e vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza nei confronti del destinatario.

Deve, quindi, essere compiuto un esame complessivo della personalità del proposto con una valutazione globale della sua condotta.

Non bastano, però, meri sospetti, ma occorrono fatti concreti ed elementi obiettivi aventi sicuro valore sintomatico [13]. Si tratta di una “zona grigia” intermedia di circostanze di fatto, oggettive e controllabili, che, seppur incapaci di per se stesse a provare la commissione di un reato, sono sufficienti per fondare il giudizio di pericolosità richiesto nella legislazione preventiva [14].

L’accertamento della sussistenza della pericolosità sociale del proposto presuppone, pertanto, che la stessa si manifesti con condotte concrete e specifiche, a cui deve aggiungersi anche un ulteriore requisito costituito dall’attualità, elemento indispensabile per giustificare l’adozione di strumenti capaci di incidere sulla libertà personale del destinatario, in assenza del quale essi sarebbero del tutto privi di giustificazione [15].

Le argomentazioni delle sezioni unite

Nell’ambito di tale quadro caratterizzato, invero, da diversi tratti piuttosto oscuri ed evanescenti che mal si conciliano con l’esigenza di concepire un sistema chiaro e rispettoso dei canoni di tutela più elementari per l’individuo si inserisce la decisione in commento, che, nonostante quanto premesso, sorprende per la capacità dei giudici di invertire una rotta interpretativa da lungo tempo tesa solo a negare spazio alle garanzie.

L’esigere un obbligo motivazionale positivo in capo al tribunale di prevenzione sul punto dell’at­tualità della pericolosità costituisce, infatti, un passo significativo per ritenere abbandonata, almeno nel settore della prevenzione personale, qualsivoglia forma di presunzione o di automatismo applicativo, uniformandosi, pur nelle comprensibili difformità, ai meccanismi tipici del processo penale.

Le Sezioni Unite nello sviluppare un percorso argomentativo, che da tale punto di vista non può che rivelarsi interessante, individuano un primo punto fermo, ancorato al combinato disposto degli artt. 4 e 6, d.lgs. n. 159 del 2011, in virtù del quale si impone che, ai fini della applicazione di una misura di prevenzione personale, superata la prima fase di mero inquadramento criminologico, debba essere formulato un autonomo giudizio di pericolosità soggettivo.

Tale giudizio nell’ipotesi di persona indiziata di appartenere ad associazione mafiosa non può, però, a parere dei giudici, svilupparsi attraverso il mero richiamo alla massima di esperienza, che, desume la tendenziale stabilità del vincolo associativo in ragione della sua natura e della sua tipologia, poiché per poter ritenere effettuato l’accertamento dell’attualità è necessaria una conferma positiva nel caso specifico oggetto della proposta, rifuggendo da qualsivoglia forma di presunzione.

Sin dalla premessa, pertanto, la Corte svela l’esito a cui porterà il suo ragionamento: l’accertamento dell’attualità della pericolosità non può essere presunto e deve essere ancorato ad elementi fattuali specifici.

L’esigenza di attuare un doppio ordine di verifiche è, tra l’altro, un argomento già ampiamente sviluppato dalla Corte costituzionale che ha, da sempre, sottolineato come le misure di prevenzione non possano essere adottate sulla base di semplici sospetti, essendo necessaria per la loro applicazione una valutazione oggettiva dei fatti [16], all’interno della quale non può non rientrare, secondo i giudici di legittimità, anche l’analisi circa l’attualità della pericolosità, “dato strettamente connesso al concetto stesso di prevenzione”.

L’ulteriore passaggio motivazionale della decisone in esame si incentra, poi, sul concetto di “appartenenza”, su cui ruota l’individuazione della peculiare categoria soggettiva di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011.

La Suprema Corte richiama, a tal fine, l’univoca interpretazione giurisprudenziale e dottrinale che riconnette nell’ampio concetto de quo, condotte che, seppur non connotate dalla stabilità del vincolo, sono astrattamente riconducibili alla figura del concorso esterno, ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p. [17].

Per “appartenenza” si deve intendere, dunque, una collaborazione occasionale, espressa in un unico o diluito contesto temporale, realizzata con riferimento a circoscritte esigenze del gruppo, ontologicamente priva della connotazione tipica della condotta partecipativa, costituita dallo stabile inserimento nell’organizzazione criminale con caratteristica di spiccata e persistente pericolosità, derivante dalla connotazione strutturale [18], ed estranea, altresì, alla mera collateralità o vicinanza al gruppo criminale.

La correttezza di siffatta chiave interpretativa troverebbe conferma, secondo i giudici, nelle recenti modifiche normative intervenute con la novella del 2017, che ha, tra l’altro, ampliato il novero dei soggetti potenziali destinatari degli strumenti di prevenzione comprendendovi anche gli indiziati di attività di fiancheggiamento di un gruppo illecito, a norma dell’art. 418 c.p. (art. 4, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011).

Tale inclusione avvalorerebbe, pertanto, l’impossibilità di qualificare all’interno della nozione di appartenenza la condotta di chi, pur se nella consapevolezza dell’illecito, si muova «… in una indefinita area di contiguità o vicinanza al gruppo, che non sia riconducibile ad un’azione, ancorché isolata, che si caratterizzi per essere funzionale agli scopi associativi».

La connessione occasionale di suddetta attività rispetto agli scopi fondanti del gruppo impedirebbe una verifica sistematica circa la stabilità dell’apporto, circostanza che farebbe venir meno il presupposto pragmatico della ritenuta assolutezza della massima di esperienza su cui è fondato l’orientamento giurisprudenziale prevalente in argomento, connotandolo di “irriducibile relatività”.

A ciò si aggiunge, secondo i giudici, la progressiva erosione nell’ambito della prevenzione personale dell’attendibilità della valutazione presuntiva circa la sussistenza dell’attualità della pericolosità derivante dalla presenza di elementi di appartenenza a strutture associative, che si lega, poi, al connesso monito sulla imprescindibilità della valutazione parametrata al singolo caso concreto, così come ribadito anche dalla Corte costituzionale che ha messo in discussione proprio la natura insuperabile della presunzione de qua [19].

Secondo la Corte fornisce, poi, importanti elementi in ordine al profilo dell’attualizzazione, la posizione interpretativa sedimentatasi in tema di esigenze cautelari in ipotesi di gravi indizi di colpevolezza del reato di partecipazione associativa, poiché, seppur nelle diversità che caratterizzano entrambi gli istituti, i presupposti applicativi degli strumenti cautelari hanno in comune con quelli richiesti in materia di prevenzione lo svolgimento di una analisi di condotte pregresse ai fini della proiezione nel futuro della pericolosità e della previsione prognostica della stabilità del vincolo.

Nonostante, infatti, l’art. 275, comma 3 c.p.p., a differenza dell’attuale testo normativo dettato in materia di prevenzione personale, introduca una presunzione di pericolosità ove i gravi indizi si riconnettano al reato associativo, la giurisprudenza sia costituzionale sia di legittimità ha espressamente delimitato siffatta presunzione “ad una forma di valutazione precostituita, superabile da dimostrazione contraria, rigorosamente circoscritta alla ricorrenza di ipotesi che ontologicamente richiamino la stabilità del vincolo, e non siano suscettibili di sottoposizione a differente lettura”.

In materia penale, infatti, si è sedimentata, ormai da tempo, la considerazione che le presunzioni assolute, soprattutto se determinano una limitazione di un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza se sono arbitrarie o irrazionali e non rispondono a dati di esperienza generalizzati e, quindi, ogni volta in cui sia agevole formulare ipotesi alternative.

Siffatta linea interpretativa ha reso ancora più stringente, in materia cautelare, l’esigenza di attualizzare i pregressi indicatori di pericolosità con particolare riguardo alla figura del concorrente esterno [20], verifica che risulta ancora più essenziale in virtù della immediata esecutività delle misure de quibus.

Se, dunque, è tale l’orientamento ermeneutico a fronte di una espressa previsione normativa che richiede la valutazione della gravità indiziaria inerente alla consumazione di un fatto reato, ancora più rigoroso deve essere, a parere della Corte, il vaglio circa l’attualità della pericolosità nell’ambito della prevenzione penale, ove è richiesto un minus rispetto alla legittima applicazione di una misura cautelare. Il concetto di “appartenenza”, richiamato dall’art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011, attribuisce, infatti, importanza, come prima rammentato, a condotte che, sebbene prive di rilievo penale, generano elementi indicativi di una attività di collaborazione, anche non continuativa.

In tali ipotesi non è, dunque, possibile ricorrere a presunzioni semplici, «… la cui valenza è radicata nelle caratteristiche del patto sociale, la cui ideale sottoscrizione, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, costituisce il substrato giustificativo che l’apporto occasionale non possiede per definizione». L’accertamento dell’attualità della pericolosità non può che essere ancorato a valutazioni specifiche in ordine alla ripetitività dell’apporto, alla permanenza di determinate condizioni di vita ed interessi comuni.

A siffatta impostazione ricavabile dall’analisi delle norme devono essere accompagnate, a parere dei giudici, riflessioni di ordine sistematico.

Le Sezioni Unite rammentano, infatti, come le misure di prevenzione personali siano state sottoposte ad un processo di “costituzionalizzazione”, coinvolgendo le stesse un bene, quale la libertà personale, presidiato a norma dell’art. 13 Cost. e ad un processo di “giurisdizionalizzazione”, allo scopo di assicurarne, pur in presenza di evidenti peculiarità strutturali rispetto al procedimento di cognizione, le garanzie difensive.

Tale progressiva equiparazione procedimentale ha, a parere dei giudici, gradualmente avvicinato le tutele previste in fase di applicazione della misura di prevenzione alle tutele dettate per l’applicazione di misure cautelari o di sanzioni penali e siffatto sviluppo appare ormai del tutto antitetico rispetto al ricorso a presunzioni valutative, che, tra l’altro, non trovano più neppure legittimazione nel dato normativo contenuto nel d.lgs. n. 159 del 2011.

Ciò determina, secondo la Suprema Corte, la necessità di abbandonare interpretazioni fondate su un’astratta semplificazione probatoria anche in riferimento alla fattispecie di pericolosità in esame, in cui si autorizza una incisione sulla libertà di circolazione del prevenuto, pur in mancanza di connessioni tra la condotta del medesimo e la realizzazione di un fatto di reato.

Se i giudici europei hanno sollecitato proprio in materia di prevenzione personale l’esigenza di utilizzare formulazioni tassative e tipizzanti al fine di definire i contorni delle categorie soggettive di pericolosità, tale esigenza non può non coinvolgere, secondo i giudici di legittimità, anche i criteri applicativi delle stesse, i cui perimetri devono, pertanto, essere disegnati in modo specifico, onde evitare il richiamo a qualsivoglia forma di automatismo applicativo.

Alla luce, pertanto, dell’assetto strutturale in materia di prevenzione penale previsto nel d.lgs. n. 159 del 2011, a cui si accompagna una maggiore sensibilità interpretativa da parte della giurisprudenza, le Sezioni Unite precisano che, nell’ipotesi di soggetto indiziato di appartenenza ad una associazione di tipo mafioso, il rinvio alle presunzioni semplici deve essere corroborato da elementi di fatto capaci di sostenerle ed idonee ad evidenziare la natura costitutiva dell’apporto prestato dal singolo, in modo che esse possano giustificare la connessione con la fase applicativa della misura ante delictum personale.

In modo simile a ciò che accade nel procedimento di cognizione in sede cautelare, per valutare la persistenza della pericolosità occorre, dunque, confrontarsi con qualsiasi elemento di fatto suscettibile, anche sul piano logico, di mutare il giudizio in ordine all’appartenenza del soggetto al gruppo associativo, al di là della sussistenza di un formale recesso che può essere connesso solo ad una condotta partecipativa, esaltando condizioni quali il decorso di un rilevante periodo temporale ovvero il mutamento delle condizioni di vita, che devono palesarsi come incompatibili con la permanenza del vincolo.

Riflessioni critiche

La struttura motivazionale approntata dalle Sezioni Unite per sorreggere il principio di diritto in esame merita condivisione.

Tale lettura rafforza, infatti, in modo soddisfacente non solo l’apparato decisionale necessario ai giudici del merito per giustificare l’applicazione degli strumenti de quibus, ma, ancora prima, impone uno standard probatorio più elevato in capo ai soggetti chiamati a formulare la proposta di prevenzione, i quali non possono “adagiarsi” su parametri meramente presuntivi né tantomeno affidarsi ad una inversione dell’onere della prova in capo all’interessato, inversione da ritenere, comunque, in palese contrasto ai canoni costituzionali.

Nel raggiungere tale obiettivo la Suprema Corte percorre in maniera pressocché ineccepibile l’evo­luzione normativa e giurisprudenziale in materia, assestandosi su una lettura che, come già sottolineato, si inserisce all’interno di un filone interpretativo volto, più in generale, a rendere i meccanismi di prevenzione personale nonché la relativa procedura applicativa rispondenti ai canoni convenzionali e costituzionali.

La soluzione offerta, per quanto attesa, non era affatto scontata.

Le stesse Sezioni Unite, non a caso, rammentano come, nonostante le previsioni contenute nel d.lgs. n. 159 del 2011 presentino una struttura lessicale da cui emerge la necessità di una verifica concreta e specifica circa la sussistenza della pericolosità sociale per tutti i soggetti a cui esse sono destinate, fino ad oggi, ha continuato a prevalere l’indirizzo ermeneutico contrario, secondo cui nei confronti dei soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis c.p. tale requisito deve considerarsi presunto [21].

Il percorso seguito dai giudici di legittimità merita, pertanto, un plauso.

Esso, come già accennato, si inserisce nell’alveo di alcune decisioni che, pur affrontando temi affatto similari, presentano quale tratto comune l’aver assunto inequivoche posizioni circa la necessità di una verifica puntuale nel caso di applicazione di misure di prevenzione personali del requisito della pericolosità, trattandosi di presupposto su cui ruota la stessa conformità ai parametri legali dell’intero sistema degli strumenti di matrice personale.

In siffatta prospettiva e secondo un ordine squisitamente cronologico giova rammentare come all’in­terno di tale orientamento si ascriva, in primo luogo, la sentenza n. 291 del 2013 della Corte costituzionale, in cui, tra l’altro, si ribadisce che la pericolosità sociale in materia di prevenzione deve risultare attuale nel momento in cui la misura viene eseguita, giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale sarebbero prive di giustificazione; la sentenza delle Sezioni Unite Spinelli [22], che, nel prendere atto di come non abbia più senso parlare di attualità con riferimento agli istituti di natura reale, ha, però, precisato che «… rispetto alla misura di prevenzione personale il requisito della persistente pericolosità continua ad avere una ragion d’essere, in quanto, ben potendo quella risolversi nel tempo o grandemente scemare, sarebbe aberrante - siccome oggettivamente inutile, se non per finalità surrettizie o pretestuose - una misura di prevenzione applicata a soggetto non più socialmente pericoloso»; la sentenza della Corte Edu De Tommaso c./Italia [23], la quale, pur soffermandosi sugli strumenti ante delictum irrogabili nei casi di pericolosità “generica”, formula censure che non possono non avere riflessi su tutte le categorie criminologiche individuate all’art. 4, d.lgs. n. 159 del 2011 ed, infine, la sentenza delle Sezioni Unite Paternò [24], ove, più in generale, si rammenta che il compito della Suprema Corte è di operare una rilettura delle norme di diritto interno aderente alla CEDU e subordinata al prioritario compito di adottare una interpretazione costituzionalmente conforme.

I frutti di tale impostazione ermeneutica si riflettono, tra l’altro, anche nella struttura normativa, che mostra di recepire gli sforzi effettuati.

La recente novella del 2017 ha, infatti, riformulato, tra i diversi precetti, l’art. 7, d.lgs. n. 159 del 2011, regolante l’udienza davanti al tribunale della prevenzione, e l’art. 14, d.lgs. n. 159 del 2011, in ordine alla decorrenza della sorveglianza speciale, inserendo modifiche che, da un lato, contribuiscono a rendere il giudizio di prevenzione più aderente alla tutela dei diritti della difesa, dall’altro, introducendo una procedura incidentale di verifica circa la persistenza della pericolosità sociale, allorquando la misura, sospesa a cagione dello stato detentivo dell’interessato, venga eseguita dopo almeno due anni, in ossequio alle indicazioni della Corte costituzionale del 2013, prima citata.

Il sistema della prevenzione personale, pur non essendo ancora del tutto esente da difetti, presenta, oggi, tratti soddisfacenti e capaci di rispondere ad esigenze di tutela.

Proprio l’importanza del contributo giurisprudenziale nonché la chiarezza delle posizioni dalla stessa assunte evidenzia, però, in modo, se possibile, ancora più palese la differenza di approccio tra gli istituti di prevenzione personali e gli istituti di prevenzione patrimoniali.

A fronte, infatti, di una maturata consapevolezza circa la necessità di adeguare i mezzi ante delictum che incidono sui diritti della persona ai parametri convenzionali e costituzionali, si contrappone una ostinata negazione dei medesimi in riferimento agli strumenti di matrice reale, negazione dei diritti non solo del prevenuto, ma anche dei terzi estranei al procedimento di prevenzione, che subiscono, quasi senza difesa, gli effetti pregiudizievoli dell’ablazione dei patrimoni ritenuti illeciti.

Si rileva, infatti, che se, da un lato, come accade nella decisione in commento, i giudici di legittimità si spingono ad affermazioni di estremo rilievo sistematico come il riconoscimento di una progressiva equiparazione procedimentale tra procedimento di cognizione penale e procedimento di prevenzione, in ragione del riconoscimento della natura “afflittiva” delle misure personali, che giustifica ed impone anche un “avvicinamento” delle relative tutele; dall’altro, in riferimento ai meccanismi di matrice patrimoniale, il parallelismo con le sequenze del processo penale è usato solo con l’espressa volontà di sottolinearne le insuperabili antinomie rispetto al procedimento di prevenzione.

Il sospetto è che, quindi, l’assetto interpretativo, a cui aderiscono le Sezioni Unite in riferimento agli strumenti di natura personale non rappresenti un punto di arrivo capace di rivoluzionare l’intero sistema i cui al d.lgs. n. 159 del 2011, ma solo un “perverso compromesso” generato dalla riflessione che l’obiettivo che maggiormente interessa in materia di prevenzione continua ad essere rappresentato, solo e soltanto, dall’ablazione dei patrimoni illeciti, ablazione che continua ad essere regolamentata attraverso sequenze e modelli legali ben lungi dal poter essere considerati capaci di fornire idonee tutele.

I destini della prevenzione personale e patrimoniale appaiono, dunque, irrimediabilmente scissi.

L’autonomia tra gli istituti ante delictum che deriva dal precetto di cui all’art. 18, d.lgs. n. 159 del 2011, giustificata per motivi di razionalità ed economia, ha generato, quindi, effetti sconcertanti: l’indi­pen­denza strutturale delle sequenze procedimentali ed una giurisprudenza “a due velocità”, sensibile all’esigenze di garanzia solo quando queste non sono idonee ad incidere sui reali obiettivi a cui tende l’odierna legislazione di prevenzione.

 

NOTE

[1] Cass., sez. I, 10 ottobre 2017, n. 48441, inedita, ove, tra l’altro, si sottolinea che «…la condizione di «pericolosità soggettiva attuale» è infatti l’in sé del sistema di prevenzione personale posto che le misure in questione - limitative della libertà personale, quantomeno sul fronte della libertà di circolazione e movimento - si inseriscono nel sistema costituzionale se ed in quanto finalisticamente orientate a contrastare una condizione di attuale pericolosità del destinatario, mutuando l’aspetto teleologico (sia pure in un contesto procedimentale e strutturale diverso) delle affini misure di sicurezza».

[2] Cass., sez. II, 24 marzo 2017, n. 17128, in CED Cass., n. 270068, secondo cui «Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazioni di tipo mafioso, non è necessaria alcuna particolare motivazione in punto di attuale pericolosità, una volta che l’appartenenza risulti adeguatamente dimostrata e non sussistano elementi dai quali ragionevolmente desumere che essa sia venuta meno per effetto del recesso personale, non essendo dirimente a tal fine il mero decorso del tempo dall’adesione al gruppo o dalla concreta partecipazione alle attività associative»; Cass., sez. II, 31 gennaio 2017, n. 18756, in CED Cass., n. 269742 (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi il provvedimento che, a fronte di una condanna per partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso, in difetto di atteggiamenti dissociativi chiari ed espliciti, aveva escluso che la corretta condotta mantenuta agli arresti domiciliari negli ultimi cinque anni fosse idonea a superare la presunzione di appartenenza al sodalizio); Cass., sez. VI, 10 novembre 2016, n. 52775, in CED Cass., n. 268622 (la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte territoriale secondo cui, alla luce della latitanza del soggetto protrattasi per oltre un anno e dei vincoli familistici del proposto con i promotori, il decorso di un periodo di circa sei anni dal provvedimento applicativo della misura di prevenzione alla sentenza definitiva di condanna, non fosse sufficiente a vincere la presunzione di appartenenza); Cass., sez. V, 12 ottobre 2016, n. 51735, in CED Cass., n. 268849 (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi il provvedimento che, in assenza di condotte dissociative, aveva escluso che lo stato di detenzione per sei anni e il corretto comportamento in carcere fossero idonei a superare la presunzione di appartenenza al sodalizio); Cass., sez. II, 21 gennaio 2016, n. 8106, in CED Cass., n. 266155 (fattispecie nella quale la Corte territoriale, anche dalla posizione “non centrale” del proposto nell’ambito dell’associazione, aveva ritenuto che il trascorrere di circa tre anni dall’ultima scarcerazione alla successiva carcerazione per esecuzione di pena non fosse sufficiente a vincere la presunzione di appartenenza, in difetto di chiari atteggiamenti dissociativi); Cass., sez. V, 18 marzo 2015, n. 43490, in CED Cass., n. 264927; Cass., sez. II, 9 marzo 2015, n. 24782, in CED Cass., n. 264367; Cass., sez. VI, 1 ottobre 2014, n. 41977, in CED Cass., n. 260437; Cass., sez. V, 10 gennaio 2014, n. 17067, in CED Cass., n. 262849; Cass., sez. V, 22 marzo 2013, n. 3538, in CED Cass., n. 258658; Cass., sez. VI, 21 novembre 2008, n. 499, in CED Cass., 242379; Cass., sez. VI, 10 aprile 2008, n. 35357, in CED Cass., n. 241251; Cass., sez. II, 16 febbraio 2006, n. 7616, in CED Cass., n. 234746; Cass., sez. VI, 23 novembre 2004, n. 114, in CED Cass., n. 231448; Cass., sez. VI, 22 marzo 1999, n. 950, in Cass. pen., 2000, p. 1778.

[3] Cass., sez. II, 16 dicembre 2005, n. 1014, in CED Cass., n. 233148, secondo cui «In tema di misure di prevenzione, in virtù delle previsioni di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 575 del 1965 è legittima l’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza sulla base della sola esistenza di indizi di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso, in quanto, in tal caso, la pericolosità del proposto è presunta dal legislatore e non richiede, a differenza di quanto previsto per le misure di cui alla l. n. 1423 del 1956 (art. 3, comma 1), l’accertamento in concreto della pericolosità»; Cass., sez. V, 27 settembre 2004, n. 43432, in CED Cass., n. 231016.

[4] Cass., sez. VI, 15 giugno 2017, n. 33923, in CED Cass., n. 270908, secondo cui «Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazione di tipo mafioso, non è necessaria alcuna particolare motivazione in ordine all’attualità della pericolosità, una volta che l’appartenenza risulti adeguatamente dimostrata e non sussistano elementi dai quali desumere che essa sia venuta meno per effetto del recesso personale ovvero della disintegrazione del sodalizio stesso, tuttavia, la presunzione della pericolosità non è assoluta ed è destinata ad attenuarsi, facendo risorgere la necessità di una specifica motivazione, quanto più gli elementi rilevatori siano lontani nel tempo»; Cass., sez. V, 19 gennaio 2017, n. 28624, in CED Cass., n. 270554; Cass., sez. VI, 30 novembre 2016, n. 52607, in CED Cass., n. 269500; Cass., sez. V, 17 dicembre 2015, n. 1831, in CED Cass., n. 265863; Cass., sez. II, 3 giugno 2014, n. 39057, in CED Cass., n. 260781 (fattispecie nella quale è stato annullato per carenza di motivazione il provvedimento impugnato che aveva ritenuto, sulla base di criteri meramente presuntivi, la sussistenza della pericolosità sociale del condannato rimasto in stato di detenzione per quindici anni).

[5] Cass., sez. II, 31 gennaio 2017, n. 8921, in CED Cass., n. 269555, secondo cui, ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di un condannato per il reato di associazione di tipo mafioso, qualora sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra l’accertamento in sede penale e la formulazione del giudizio di prevenzione, è onere del giudice compiere l’ac­certamento  dell’attualità della pericolosità sociale in rapporto ai tre indicatori fondamentali, costituiti dal livello di coinvolgimento del proposto nella pregressa attività del gruppo criminoso, dalla tendenza del gruppo di riferimento a mantenere intatta la sua capacità operativa nonché dalla manifestazione, in tale intervallo temporale, da parte del proposto di comportamenti denotanti l’abbandono delle logiche criminali in precedenza condivise; Cass., sez. VI, 11 novembre 2016, n. 53157, in CED Cass., n. 268518, secondo cui, ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazioni di tipo mafioso, è onere del giudice verificare in concreto la persistenza della pericolosità del proposto, specie nel caso in cui sia decorso un apprezzabile periodo di tempo tra l’epoca dell’accertamento in sede penale e il momento della formulazione del giudizio in sede di prevenzione, e, tra la pregressa violazione della legge penale e tale ultimo giudizio sia decorso un periodo detentivo tendente alla risocializzazione o comunque esente da ulteriori condotte sintomatiche di pericolosità; Cass., sez. VI, 11 novembre 2016, n. 51666, in CED Cass., n. 268087; Cass., sez. I, 11 febbraio 2014, n. 23641, in CED Cass., n. 260104, secondo cui, in tema di misure di prevenzione personali, la valutazione del requisito di attualità della pericolosità sociale deve essere effettuata per tutte le categorie dei soggetti indicati nell’art. 4, d.lgs. n. 159 del 2011, che possono essere assoggettati a misure di prevenzione personali con la conseguenza che, non essendo ammissibile una presunzione di pericolosità derivante esclusivamente dall’esito di un procedimento penale, è onere del giudice verificare in concreto la persistenza della pericolosità del proposto, specie nel caso in cui sia decorso un apprezzabile periodo di tempo tra l’epoca dell’accertamento in sede penale e il momento della formulazione del giudizio di prevenzione; Cass., sez. I, 18 luglio 2013, n. 44327, in CED Cass., n. 257637, secondo cui, in tema di misure di prevenzione, anche per gli appartenenti ad associazioni di tipo mafioso deve essere accertata la presenza, al momento della valutazione finalizzata alla applicazione della misura, di elementi sintomatici dell’attualità della pericolosità sociale; Cass., sez. I, 10 marzo 2010, n. 17932, in CED Cass., n. 247053, secondo cui, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione, l’attualità della pericolosità sociale del prevenuto può essere presunta dalla sua appartenenza ad una associazione mafiosa solo se tale presunzione si fondi sulla verifica del ruolo concretamente svolto in seno al sodalizio, in modo da consentire di escludere l’impossibilità che venga ricoperto anche in futuro nonché, alla luce delle eventuali allegazioni difensive, dei comportamenti tenuti dallo stesso prevenuto nel periodo intercorso tra l’accertamento del reato e il momento di applicazione della misura.

[6] P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enc. dir., vol. XXVI, Milano, Giuffrè, 1976, pp. 639-640; Gius. Sabatini, Misure di prevenzione nei confronti di persone pericolose per la sicurezza e la moralità pubblica, in Nuoviss. dig. it., X, Torino, Utet, 1964, p. 775.

[7] P. Nuvolone, Relazione introduttiva al IX Convegno di studi E. De Nicola, in AA.VV., Le misure di prevenzione, Milano, Giuffrè, 1973, p. 16.

[8] C. cost., 20 aprile 1959, n. 27, in Foro it., 1959, II, p. 713, che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l. n. 1423 del 1956, in riferimento agli artt. 2 e 17 Cost., ha, altresì precisato che la Costituzione, nel riconoscere la necessità di limitazioni ai diritti di libertà, dispone, che queste limitazioni possono essere stabilite soltanto dalla legge e per atto motivato dell’autorità giudiziaria.

[9] C. cost., 4 marzo 1964, n. 23, che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, l. n. 1423 del 1956, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., ha rammentato che, in ragione delle finalità delle misure di prevenzione, l’adozione di esse può essere collegata, nelle previsioni legislative, non al verificarsi di fatti singolarmente determinati, ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una “condotta”, assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale. Discende, pertanto, dalla natura di dette misure che nella descrizione delle fattispecie il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui si procede alla determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa fare riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire meno rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione, rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene.

[10] G. Neppi Modona, Misure di prevenzione e presunzione di pericolosità, in Giur. cost., 1975, pp. 3100-3102.

[11] Corte e.d.u., Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, ove, tra l’altro, si sottolinea che i diritti sanciti dall’art. 2 § 1 del quarto Protocollo addizionale alla Convenzione europea - concernenti la libertà di circolare e di fissare la propria residenza nel territorio di uno Stato membro, valevoli per chiunque si trovi regolarmente nel territorio medesimo - possono essere oggetto di restrizioni “previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica” (art. 2, § 4); il presupposto della statuizione legislativa implica che la normativa soddisfi i requisiti di “accessibilità” e di “prevedibilità”: detto ultimo crisma postula che la fattispecie sia formulata in maniera tale da consentire ai cittadini di prevedere - con ragionevole grado di precisione - quali possono essere le conseguenze dei propri comportamenti, allo scopo di conformare le loro condotte al precetto normativo; si tratta di garanzie volte ad arginare gli arbitri della pubblica autorità. (In conformità di ciò i giudici hanno ritenuto vulnerata la norma in esame, con riferimento a questo specifico profilo, a causa della indeterminatezza sottesa tanto all’an, quanto al quomodo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, di cui agli artt. 3 e 5, l. n. 1423 del 1956 [oggi artt. 1 e 6, d.lgs. n. 159 del 2011]; è stata, inoltre, ravvisata la violazione di cui all’art. 6, § 1, CEDU per non aver potuto il ricorrente beneficiare di una pubblica udienza innanzi alla giurisdizione nazionale).       

[12] Cass., sez. un., 26 giugno 2014, Spinelli, in Dir. pen. e proc., 2015, p. 707, secondo cui la progressiva assimilazione, quantomeno sul versante applicativo, delle due fattispecie di pericolosità è il frutto di lenta evoluzione normativa, non sempre coerente, in verità, nell’individuazione degli ambiti soggettivi di riferimento, sì da ingenerare non pochi dubbi interpretativi. Nondimeno, tale tendenziale assimilazione - che ha trovato il suo epilogo nell’organica disciplina contenuta nel d.lgs. n. 159 del 2011 - fa sì che i molteplici profili problematici da trattare in materia di pericolosità “generica” possano essere riferiti - e contestualmente risolti - anche in riferimento alla pericolosità “qualificata”.

[13] S.P. Fragola, Le misure di prevenzione, Padova, Cedam, 1992, pp. 17-23, il quale rileva che «… è possibile enucleare alcuni parametri valutativi per l’accertamento in discorso sulla base di elementi antigiuridici ovvero riguardanti la morale genericamente intesa, elementi che possono prescindere da eventuali fatti di reato ma debbono comunque riguardare l’intera condotta di vita, tenuto conto di pregresse manifestazioni di pericolosità purché la pericolosità persista e, quindi, sia attuale».

[14] E. Gallo, Misure di prevenzione, in Enc. giur., XX, Roma, Treccani, 1990, pp. 5-7.

[15] Cfr. C. cost., 6 dicembre 2013, n. 291, in Dir. pen. proc., 2014, 4, p. 389.

[16] Cfr. C. cost., 17 marzo 1969, n. 32, secondo cui «... l’appartenenza a quelle categorie è invero condizione necessaria, ma non sufficiente per la sottoposizione a misure di prevenzione: perché in concreto tali misure possano essere adottate, occorre, infatti, anche un particolare comportamento che dimostri come la pericolosità sia effettiva ed attuale e non meramente potenziale»; C. cost., 4 marzo 1964, n. 23, ove, tra l’altro, si precisa che dalle finalità delle misure di prevenzione deriva «… che l’adozione di esse può essere collegata, nelle previsioni legislative, non al verificarsi di fatti singolarmente determinati, ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una ‘condotta’, assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale. Discende, pertanto, dalla natura delle dette misure che nella descrizione della fattispecie il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui si procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa fare riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione, rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene».

[17] Cass., sez. I, 17 maggio 2013, n. 39205, in CED Cass., n. 256769; Cass., sez. II, 16 febbraio 2006, n. 7616, in CED Cass., n. 234745.

[18] Cass., sez. VI, 8 gennaio 2016, n. 3941, in CED Cass., n. 266541, secondo cui il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione richiede una situazione di contiguità all’associazione stessa che risulti funzionale agli interessi della struttura criminale, nel senso che il proposto deve offrire un “contributo fattivo” alle attività ed allo sviluppo del sodalizio criminoso; Cass., sez. VI, 29 gennaio 2014, n. 9747, in CED Cass., n. 259074, secondo cui il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, richiesto ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, va distinto da quello di “partecipazione”, necessario ai fini dell’integrazione del corrispondente reato: quest’ultima richiede una presenza attiva nell’ambito del sodalizio criminoso, mentre la prima è comprensiva di ogni comportamento che, pur non integrando gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, sia funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa; Cass., sez. II, 21 febbraio 2012, n. 19943, in CED Cass., n. 252841; Cass., sez. II, 16 febbraio 2006, n. 7616, in CED Cass., n. 234745, secondo cui in tema di misure di prevenzione, il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa che - pur senza integrare il fatto-reato tipico del soggetto che organicamente partecipe (con ruolo direttivo o meno) del sodalizio mafioso - risulti funzionale agli interessi della struttura criminale e nel contempo denoti la pericolosità sociale specifica che sottende al trattamento prevenzionale.

[19] C. cost. 2 dicembre 2013, n. 291, cit., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui non prevedeva che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura. Si segnala, in argomento, che, in ossequio alla predetta sentenza, il legislatore con la novella del 2017 ha inserito l’art. 14, comma 2-ter, d.lgs. n. 159 del 2011 ove prescrive, a chiare lettere, che l’esecuzione della sorveglianza speciale resti sospesa durante il tempo in cui il soggetto è sottoposto a detenzione per espiazione di pena. Dopo la cessazione dello status di detenuto, se esso si è protratto per almeno due anni, il tribunale verifica, anche d’ufficio, sentito il pubblico ministero che ha esercitato le relative funzioni nel corso della trattazione camerale, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato, assumendo le necessarie informazioni dall’amministrazione penitenziaria e dall’autorità di pubblica sicurezza nonché dagli organi di polizia giudiziaria. A tale subprocedimento si applicano le regole dettate per il giudizio di primo grado ai sensi dell’art. 7, d.lgs. n. 159 del 2011. Se persiste la pericolosità sociale, il tribunale della prevenzione emette un decreto con cui ordina l’esecuzione della misura, il cui termine di durata continua a decorrere dal momento in cui viene comunicato all’interessato, salvo quanto disposto dal citato art. 14, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011. Se, invece, in seguito a siffatti accertamenti la pericolosità sociale risulta cessata, emette un decreto con cui revoca il provvedimento applicativo della misura di prevenzione.

[20] C. cost., 25 febbraio 2015, n. 48, in Dir. pen. proc., 2015, 6, p. 672, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p., è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. In particolare, la Corte rammenta come la differenza tra il partecipante “intraneus” all’associazione mafiosa e il concorrente esterno risiede nel fatto che il secondo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur offrendo un apporto casualmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento, e, sotto il profilo soggettivo, è privo dell’“affectio societatis”, laddove, invece, l’“intraneus” è animato dalla coscienza e volontà di contribuire alla realizzazione dell’accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente.

[21] Cfr. C. cost. 25 febbraio 2015, n. 48, cit., ove, in riferimento alla natura del delitto associativo di stampo mafioso si sottolinea che esso è normativamente connotato - di riflesso ad un dato empirico-sociologico - come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria.

[22] Cass., sez. un., 26 giugno 2014, Spinelli, in Dir. pen. e proc., 2015, p. 707, le quali hanno elaborato il principio di diritto secondo cui «Le modifiche introdotte dal d.l. n. 92 del 2008 (conv. dalla l. n. 125 del 2008) e dalla l. n. 94 del 2009 all’art. 2-bis, l. n. 575 del 1965 non hanno modificato la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, di guisa che rimane tuttora valida l’assimilazione alle misure di sicurezza e, dunque, l’applicabilità, in caso di successioni delle leggi nel tempo, della previsione di cui all’art. 200 c.p.».

[23] Corte e.d.u., Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia.

[24] Cass., sez. un., 27 aprile 2017, n. 40076, inedita, secondo cui l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011. Essa può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione personale.