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Doppio annullamento, giudizio di rinvio e divieto di reformatio in peius

di Antonella Marandola

Il contributo analizza gli spazi decisori che spettano al giudice di rinvio sul piano del trattamento sanzionatorio in seguito all’annullamento della sentenza d’appello da parte della Cassazione per motivi non riguardanti gli aspetti procedurali. L’elaborato affronta, segnatamente, la questione riguardante l’obbligo del giudice di rispettare (o meno) il divieto di reformatio in peius in assenza di una espressa statuizione normativa all’art. 627 c.p.p., a dispetto di quanto previsto nel giudizio d’appello, in caso di annullamento per difetto di motivazione sulla pena irrogata. Proprio l’aspetto sul quale è caduta la censura dei giudici di legittimità induce l’Autrice a proporre una soluzione divergente da quella del Supremo Collegio.

Double annulment, referral judgment and prohibitionof reformatio in peius

The contribution analyzes the decision-marking areas that are the reponsability of the referring court in terms of punishment following the annulment of the appeal by the Cassation for reasons not concerning the procedural aspects. The paper deals with the question concerning the obligation of the judge to respect (or not) the prohibition of the reformatio in peius in the absence of an express legislative provision to the art. 627 c.p. in spite of the provisions of the appeal, proceeding in the event of annulment due to lack of motivation of the penal treatment established.

Just the appearance on which the censorship of the judges of legitimacy has fallen causes the author to propose a solution that diverges from that advanced by the Supreme Court.

 

SULL’OPERATIVITÀ DEL DIVIETO DELLA REFORMATIO IN PEIUS NEL GIUDIZIO DI RINVIO

Il giudice di rinvio, chiamato ad esprimersi (per la seconda volta) in sede d’appello, deve prestare integrale ossequio al divieto di non peggiorare la pena (più mite) disposta nei confronti dell’imputato con una precedente sentenza della Corte d’appello annullata per difetto assoluto di motivazione proprio sul piano della conferma della colpevolezza dell’imputato?

Al quesito la Corte offre una soluzione di segno positivo, muovendo dal rilievo che i motivi d’in­validità della decisione non avrebbero alcuna ricaduta sul consolidamento della posizione di carattere sostanziale in capo all’imputato: si afferma, conseguentemente, che è fatto obbligo al giudice, chia­mato a decidere ex art. 627 c.p.p., di rispettare il divieto della reformatio in peius, cioè di osservare la pena più mite precedentemente statuita (in sede d’appello, rispetto a quella di primo grado).

Nel caso di specie accadeva, infatti, che la Corte d’Appello, in qualità di giudice di un secondo rinvio, confermava la condanna alla pena di anni quattordici di reclusione irrogata dal giudice di primo grado, piuttosto che quella di dodici anni, precedentemente applicata dalla Corte d’Appello in sede di primo rinvio, con sentenza poi annullata per radicale difetto di giustificazione del trattamento sanzionatorio.

Secondo la difesa, nel contesto di altri elementi dedotti con il ricorso, il dato configurava la violazione dell’art. 597, comma 3 c.p.p.

Accolto il motivo dedotto, non essendo mutati i singoli elementi che avevano concorso a determinare la pena [1], la Corte ha annullato senza rinvio la decisione, procedendo autonomamente all’appli­ca­zione del trattamento penale più favorevole ai sensi del novellato art. 620, lett. l) c.p.p.

LE RAGIONI SOTTESE ALL’ACCOGLIMENTO

La Sezione VI penale ha ritenuto il ricorso fondato muovendo dal rilievo che nel caso di specie la sequenza degli atti attraverso cui si è dipanata la celebrazione dell’iniziale processo d’appello è immune da censure di sorta, atteso che il vizio che ha condotto alla caducazione della sentenza di secondo grado - per quanto qui d’interesse - è quello derivante dalla mancata giustificazione della pena adottata.

Riprendendo la linea di demarcazione prospettata da tempo dalla maggioritaria parte della giurisprudenza in materia, secondo la quale il divieto di reformatio in peius esplica la propria efficacia anche in sede di giudizio di rinvio solo se la sentenza di secondo grado non sia stata annullata per ragioni esclusivamente processuali [2], la Corte ribadisce che nel caso in esame, vertendosi principalmente attorno ad una violazione di carattere sostanziale, che non incide sulle ragioni della decisione medesima [3], ricade sul giudice di rinvio l’obbligo di non peggiorare il regime penale: la condanna irrogata, quindi, non andava - secondo il giudice di legittimità - rapportata alla più grave pena di quattordici anni applicata con sentenza di primo grado, ma a quella, più tenue, seppur annullata, di secondo grado di anni dodici.

Peraltro, nel caso di specie, potendo procedere direttamente alla rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 620, lett. l) c.p.p., come recentemente riformato dalla l. n. 103 del 2017 e “interpretato” dalle Sezioni Unite [4], al condannato è stata applicata la pena di anni dodici in luogo di quella (illegale) di anni quattordici.

Invero, la soluzione raggiunta dal Supremo Collegio non appare, nel caso di specie, del tutto condivisibile.

I DUBBI SULLA FONDATEZZA DELLA SOLUZIONE PROSPETTATA DALLA CORTE

Mette conto osservare, innanzitutto, che non s’ignora certo che la prospettazione offerta dalla Sezione VI trova avallo negli approdi già raggiunti sul tema dalle Sezioni Unite [5], le quali, abbracciando una nota teoria prospettata da autorevole dottrina [6], che condiziona l’operatività del divieto sulla base della natura o carattere del rinvio, hanno affermato che il divieto in esame non è applicabile quando la trasmissione degli atti venga disposta in funzione puramente prosecutoria, vale a dire ogniqualvolta l’in­vestitura del nuovo giudice discende dai limiti di competenza funzionale della Cassazione, e che, al contrario, vada ammesso quando il rinvio è operato in funzione puramente restitutoria, cioè, ogniqualvolta appaia indispensabile far regredire il processo allo stadio in cui si è verificato il vizio [7].

Invero, tale risalente ricostruzione non considera che il rinvio, in quanto tale, costituisce una prosecuzione di un’ulteriore fase di un unico processo, condizionata, tuttavia, dalle scelte effettuate nei precedenti gradi di giudizio [8].

Si è, in secondo luogo, affermato che il divieto in esame deve trovare applicazione nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento pronunciato dalla Cassazione, su ricorso del solo imputato, della sentenza impugnata, purché l’annullamento non travolga gli atti propulsivi [9]. Anche ammettendo che la condizione operi a seconda della finalità “integrativa” o “restitutoria” perseguita dal singolo giudizio di rinvio [10] proprio l’ipotesi contemplata nella sentenza in commento manifesta come non sempre quella distinzione possa essere netta: invero, al di là delle (altre) ipotesi di vizi processuali menzionate nella decisione (annullamento del giudizio d’appello disposto in forza della rilevata, omessa citazione del­l’imputato a dibattimento; concordato in appello eseguito dal sostituto del difensore di fiducia del­l’imputato, in difetto della procura speciale; riscontrata violazione del diritto di difesa, per rigetto della richiesta di nomina dell’interprete, con nullità estesasi, a cascata, su tutti gli atti successivi), anche quella che cade sulla parte motiva del trattamento penale della decisione sembra configurabile come un annullamento di carattere “restitutorio” [11].

A contrastare la soluzione raggiunta, induce il fatto che l’operatività del vincolo de quo è essenzialmente ricostruito attraverso un’opera di carattere sistematico, mentre com’è noto, quel parametro legale era, invece, espressamente previsto anche in sede di giudizio di rinvio nell’ambito della disciplina prevista dal codice del 1913, allorquando l’annullamento fosse stato pronunciato su ricorso proposto dal solo imputato, e, ancor prima, dal codice di rito penale del 1865 [12].

La mancata replica di analogo divieto all’art. 627 c.p.p, induce a considerare che quel limite non necessariamente deve operare dopo una statuizione con rinvio della Corte: in altri termini, il codice vigente consente al giudice chiamato ad esprimersi dopo l’annullamento di infliggere anche una pena più grave di quella comminata nella sentenza d’appello annullata su ricorso del solo imputato, purché la nuova pena non superi quella stabilita nella sentenza del giudice di primo grado, ove l’appello sia stato esperito dal solo imputato [13]; né peraltro, deve necessariamente ritenersi possibile l’estensione analogica del divieto espressamente previsto agli artt. 464, comma 4, e 597, comma 3, c.p.p. [14].

Fermo restando che il giudice di rinvio decide con gli stessi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, la conclusione secondo la quale, nonostante l’assenza di una espressa indicazione normativa all’interno dell’art. 627 c.p.p., ogniqualvolta il processo regredisca alla fase di appello, per un motivo che non inficia il procedimento di grado precedente, il giudice di rinvio incontra sul piano decisorio il limite del divieto di reformatio in peius non è, rispetto al caso in commento, pacifica, se si pensa che la ritenuta carenza di motivazione originariamente prodotta possa o meno esplicare i suoi effetti sul trattamento penale applicato ovvero la carenza o l’integrale difetto di giustificazione possa sostanziare l’irrogazione di una pena (il)legittima. In altri termini: l’incapacità di indicare l’esposizione logica del quantum di pena disposta consente di ritenere, comunque, legale la pena irrogata dal (primo) giudice d’appello?

Al quesito dovrebbe darsi una risposta negativa.

I due elementi sono fra loro interdipendenti: posta l’invalidità dell’apparato giustificativo, mal si comprende su quali basi possa, infatti, reggere il (conseguente) trattamento sanzionatorio irrogato, di anni dodici.

Se così è il giudice di seconde cure chiamato a pronunciarsi dopo l’annullamento della prima statuizione ben poteva ritenersi autonomamente investito del potere di stabilire una pena diversa, purché adeguatamente motivata.

A confortare la corretta osservanza di quest’ultima prescrizione induce, invero, il fatto che nel caso di specie sia stata la stessa Corte a procedere alla determinazione del quantum di pena, dando per postulata la validità dell’apparato motivazionale (e, dunque, dell’accertata responsabilità) che, non essendo stata (nuovamente) rimessa alla sua attenzione deve ritenersi ormai pacificamente passata in giudicato.

Non è, pertanto, censurabile l’attività del giudice di rinvio che, vista annullata la sentenza di seconde cure per “radicale difetto di motivazione” ha confermato la responsabilità dell’imputato e fatto buon uso del suo potere decisorio ex art. 133 c.p. irrogando in sede di condanna la pena di anni quattordici.

L’approdo raggiunto, colloca, in realtà, sullo sfondo la questione se debba (o meno) ritenersi che il divieto della reformatio in peius in sede di rinvio operi quale espressione del diritto di difesa [15] o del potere dispositivo. La devoluzione, nel caso del rinvio avviene, infatti, in ragione della sentenza di annullamento e non della domanda di parte: tra l’iniziativa della parte che chiede l’annullamento e il giudizio ex art. 627 c.p.p. s’inerisce “necessariamente” la pronuncia del Supremo Collegio che interrompe il rapporto fra l’impugnazione (ricorso) ed il nuovo giudizio.

Peraltro, la soluzione raggiunta nello specifico caso affrontato, non consente di accedere all’imposta­zione secondo la quale, anche in assenza di una espressa menzione, la preclusione va intesa quale principio di portata generale per cui - come afferma una parte della Cassazione - opera anche nell’ambito di quel processo, quando ricorrente sia stato il solo imputato, non potendosi in alcun caso ammettere che costui veda aggravarsi una posizione che non aveva accettato in forza di un atto che mirava proprio a rimuoverla.

Una volta ammessa la sua operatività, è pacifico, come insegna la migliore dottrina, che il raffronto vada operato tra la pena inflitta con la decisione annullata e quella applicata dal giudice di rinvio [16] ma è altrettanto pacifico che deve trattarsi di pene legittimamente irrogate.

Se, come si è indicato, le stesse Sezioni Unite hanno precisato che il divieto di infliggere una pena più grave non opera nel nuovo giudizio, sia esso di primo che di secondo grado, conseguente ad annullamento pronunciato dal giudice di appello ovvero dalla Cassazione a causa della nullità dell’atto introduttivo o di altra nullità assoluta ovvero a carattere intermedio non sanata, che si sia riversata sul­l’atto conclusivo, mutatis mutandis, analoga condizione pare ricorrere nel caso in cui il trattamento penale venga disposto sulla scorta di una immotivata statuizione.

Tutte le delineate ipotesi condividono, certo, con la fattispecie in oggetto, la riconducibilità fra le violazioni di l. ex art. 606 c.p.p., per cui analoghe debbono essere le loro conseguenze processuali: se non v’è dubbio alcuno che la Corte Suprema risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’a­dem­pimento dell’obbligo della motivazione o sulla coerenza logica della stessa, è, però, altrettanto vero che i poteri decisori attribuiti al giudice di rinvio divergono a seconda che l’annullamento sia stato pronunciato per violazione o erronea applicazione della legge penale oppure per mancanza o manifesta illogicità della motivazione [17].

Così, mentre nella prima ipotesi, resta ferma la valutazione dei fatti come accertati dal provvedimento annullato, nel secondo caso, invece, l’annullamento travolge gli accertamenti e le valutazioni già operate e, dunque, i poteri del giudice di rinvio hanno la massima latitudine. In quest’ultima evenienza, dunque, il decidente è chiamato a compiere un nuovo, completo esame del materiale probatorio con i medesimi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata.

Se il divieto discende dal collegamento causale e giuridico intercorrente tra il provvedimento di annullamento ed il giudizio di rinvio [18], la prospettiva qui coltivata muove essenzialmente dalla conferma del­l’esistenza di quel principio di portata generale che permea l’intero sistema delle impugnazioni, ma che nel caso in esame pare inapplicabile proprio in ragione del peculiare aspetto sul quale è caduto l’annulla­mento.

Anche volendo far dipendere quella regola dalla domanda e dall’interesse di parte [19], in tal caso  venuta meno la seconda (ingiustificata) pronuncia sarebbe carente l’esistenza stessa di ogni termine di paragone - rappresentato da una precedente sentenza - che in difetto rende inapplicabile il divieto di reformatio in peius, la cui operatività è interdetta dall’inesistenza di un provvedimento valido e capace di irrogare effetti [20] e neutralizzare la stessa posizione sostanziale favorevole sul piano del trattamento sanzionatorio dell’imputato.

Ma ad analoga conclusione si giunge considerando il rinvio come puramente prosecutorio, che consente sì al giudice un nuovo esame del merito, ma che impone di tener conto del fatto che la Cassazione ha fornito un criterio idoneo a disciplinare una determinata motivazione, escludendola.

Non viola, infatti, l’obbligo di conformarsi al c.d. giudicato interno il giudice di merito che, dopo l’annullamento per vizio di motivazione, pervenga nuovamente all’affermazione di responsabilità del­l’imputato sulla scorta di un percorso argomentativo in parte diverso ed in parte arricchito rispetto a quello censurato in sede di legittimità [21]. La stessa Cassazione indica, peraltro, che, nel caso in cui il giudice di legittimità annulla con rinvio la sentenza impugnata per vizio di motivazione, al di là della possibile indicazione dei punti specifici di carenza o contraddittorietà, il potere decisorio del giudice di rinvio non è limitato all’esame dei singoli punti specificati, ma, avendo gli stessi poteri del giudice di merito originariamente compente egli può compiere ogni valutazione dei dati processuali, nell’ambito del capo della sentenza colpito da annullamento [22].

È evidente, allora, come la conclusione raggiunta rende impraticabile e puro esercizio accademico tanto la questione relativa all’ipotesi di molteplici giudizi di rinvio, che pur ricorrono nella fattispecie in esame, nel qual caso, afferma la più recente giurisprudenza, la comparazione fra le distinte decisioni, necessaria per l’individuazione del trattamento meno deteriore dell’imputato, va eseguita tenendo conto di quella di primo grado e quelle rese nei giudizi - restando invalicabile in peius l’esito per lui più favorevole tra quelli intervenuti, a seguito di sua esclusiva impugnazione - atteso che una delle decisioni, sul versante dell’applicazione dell’art. 133 c.p.p., era stata censurata dalla Corte.

 

NOTE

[1] Cass., sez. V, 9 luglio 1998, n. 493, in Cass. pen., 1999, p. 2554.

[2] Cass., sez. III, 17 novembre 2016, n. 9698in CED Cass. n. 269277; Cass., sez. VI, 30 settembre 2009, n. 44488, in CED Cass. n. 245107; Cass., sez. VI, 25 giugno 1999, n. 10251, in CED Cass. n. 214386.

[3] V., per una difforme vicenda, Cass., sez. II, 20 febbraio 20122, n. 48580, in CED Cass. n. 252060; cfr. anche, ai fini di una compiuta ricostruzione dell’istituto della reformatio in peius, la parte motiva di Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 16208, in CED Cass. n. 258652.

[4] V., Cass., sez. un., 24 gennaio 2018, n. 3464, in www.processopenaleegiustizia.it.

[5] Cass., sez. un., 11 aprile 2006, Maddaloni, in Giur. it., 2007, p. 2297.

[6] E. Amodio, Rinvio prosecutorio e reformatio in peius, in Riv. dir. proc., 1975, p. 543; A. Gaito, Divieto di reformatio in peius e giudizio di rinvio, in Cass. pen., 1976, p. 1190.

[7] G. Spangher, Divieto della reformatio in peius o poteri del giudice di rinvio?, in Cass. pen., 2006, p. 3136.

[8] M.MMonaco, Disorientamenti interpretativi e questioni applicative, in A. Gaito (a cura di), Impugnazioni penali, vol. II, Torino, Utet, 1998, p. 96.

[9] V., Cass. sez. un., 14 aprile 2014, C.E., in Cass. pen., 2014, p. 66, le quali hanno peraltro puntualizzato l’irrilevanza del fatto che la sentenza di primo grado sia stata appellata dal pubblico ministero; contra, Cass., sez. II, 15 marzo 2012, C.S., in CED Cass. n. 252482.

[10] V., sempre, M.M. Monaco, Disorientamenti interpretativi e questioni applicative, cit., p. 766.

[11] Per una tale distinzione v., già, O. Campo, Contributo allo studio della natura del giudizio penale di rinvio, in Indice pen., 1971, p. 15; G. Spangher, voce Suprema Corte di Cassazione (ricorso per), in Dig. pen., vol. XVI, Torino, 1999, p. 135.

[12] V., A. Martucci, Il giudizio di rinvio (dopo l’annullamento nel processo penale), Napoli, A. Morano, 1934, pp. 144-145.

[13] G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, XII ed., Torino, Giappichelli, 2017, p. 773 ss.

[14] R. Malavasi, Applicabilità del divieto di reformatio in peius nel secondo grado di giudizio di rinvio, in Cass. pen., 2003, p. 159.

[15] Per una tale esegesi, v. G. Lozzi, Favor rei e processo penale, Milano, Giuffrè, 1968, p. 111; adde, G. Canzio, Il ricorso per cassazione, in M. Chiavario-E. Marzaduri (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Torino, Utet, 2005, p. 529; M.M. Monaco, Disorientamenti interpretativi e questioni applicative, cit., p. 764.

[16] F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Milano, Giuffrè, 1987, p. 1054; G. Spangher, voce Reformatio in peius, in Enc. dir., XXXIX, Milano, Giuffrè, 1988, p. 302.

[17] In altri termini, quello di rinvio è un giudizio “a geometrie variabili”: così, per tutti, E. Savio, Il giudizio di rinvio dopo l’annullamento in Cassazione, Padova, Cedam, 2014, p. 70.

[18] F. Dinacci, Il giudizio di rinvio nel processo penale, Padova, Cedam, p. 172 ss.

[19] Ancora, A. Gaito, op. cit., p. 1190; G. Riccio, La volontà delle parti nel processo penale, Napoli, Jovene, 1969, p. 207; per la dottrina più risalente, G. Bellavista, Il principio dispositivo nel procedimento penale d’impugnazione, in Id., Studi sul processo penale, II, Milano, Giuffrè, 1960, p. 281; C. Massa, Il principio dispositivo nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1961, p. 386 ss.

[20] V., ancora, Cass., sez. un., 11 aprile 2006, Maddaloni, cit.

[21] Cass., sez. IV, 1° dicembre 2011, n. 44644, in CED Cass. n. 251660; Cass., sez. V, 11 giugno 1999, n. 2136, in CED Cass. n. 213765; Cass., sez. I, 10 dicembre 1997, 1397, in CED Cass. n. 209692.

[22] Cass., sez. IV, 21 giugno 2005, n. 30422, in CED Cass. n. 232019; Cass., sez. V, 17 gennaio 2005, n. 5678, in CED Cass. n. 230744.