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La Cassazione conferma l'operatività del divieto di reformatio in peius anche in sede di rinvio

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con sentenza n. 34147 del 21.04.2015 della sezione 2 di questa Corte diveniva irrevocabile - fatte salve le statuizioni di cui subito infra - la pronuncia emessa il 28.06.2014 dalla Corte di appello di Milano a carico di oltre 40 imputati, incentrata principalmente sull’affermazione dell’operatività, nel territorio del capoluogo lombardo e delle province limitrofe, dell’associazione di stampo mafioso nota come ndrangheta, “costituita da numerose locali, di cui 15 individuate, coordinate da un organismo denominato “(OMISSIS)”... (omissis) deputato a concedere agli affiliati “cariche” e “doti”, secondo gerarchie prestabilite e mediante cerimonie e rituali tipici dell’associazione mafiosa ...”: a significare, cioè, l’effet­tività, in seno alla tradizionale struttura giudizialmente accertata come propria della ndrangheta nel suo territorio di naturale elezione - di tipo gerarchico-piramidale, connotata tuttavia dalla coesistenza di singole ed articolate realtà territoriali - delle anzidette compagini criminose, diretta filiazione di quelle d’origine, pur nel riconoscimento di una propria autonomia, filtrata dal summenzionato organismo di vertice, chiamato altresì a garantire il dovuto coordinamento con i soggetti apicali dell’asso­ciazione calabrese d’origine.

Rispetto al quadro di estrema sintesi testè delineato, la citata sentenza di legittimità, nel rigettare ovvero dichiarare inammissibili la quasi totalità dei ricorsi proposti dagli imputati, nonché quello formalizzato dal P.G. di Milano, disponeva altresì, al di là di talune parziali statuizioni che qui non rilevano, l’annullamento con rinvio della pronuncia adottata dalla Corte ambrosiana nei confronti di L.B. - già ritenuto dal Tribunale meneghino a capo della “locale” di (OMISSIS), con conseguente sua condanna, per violazione dell’art. 416 bis c.p., comma 1, alla pena di anni quattordici di reclusione, ridotta ad anni dodici con la sentenza annullata - stante il rilevato, radicale difetto di motivazione, il giudice distrettuale essendo pervenuto alla conferma della sua colpevolezza pur senza trattarne sostanzialmente la posizione; nonché nei confronti di C.C.A., limitatamente alla sola pronuncia di confisca - ferme dunque le condanne alla pene di anni undici di reclusione, per i reati di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso ed intestazione fittizia di beni, con esclusione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, e di ulteriori anni uno di reclusione, per il reato di turbativa d’asta, anche in questo caso con esclusione dell’aggravante di cui al succitato D.L. n. 152 del 1991, art. 7, oltre che di quella di cui al capoverso della stessa norma incriminatrice dell’art. 353 c.p. - stante la rilevata erroneità dell’affermazione di diritto della Corte d’appello, circa l’irrilevanza di eventuali redditi non dichiarati ai fini della verifica dell’effettiva sproporzione fra le capacità economiche dell’imputato e l’accertata disponibilità di beni in capo allo stesso, a tale ultimo riguardo demandando altresì al giudice del rinvio il controllo in ordine alla ritualità dell’acquisizione della consulenza di parte pubblica, valorizzata in funzione della determinazione delle stime relative al valore del patrimonio dell’imputato di cui trattasi.

2. Con sentenza in data 15.03.2016, la Corte d’appello di Milano, in qualità di giudice del rinvio, confermava tanto la condanna del L. alla iniziale pena di anni quattordici di reclusione, quanto la statuizione di confisca della totalità del patrimonio del C.

3. Avverso l’illustrata sentenza entrambi gli imputati, ciascuno a mezzo del rispettivo difensore di fiducia, hanno interposto tempestiva impugnazione.

3.1 In particolare, il legale del L. denuncia:

a) vizi alternativi di motivazione, “in relazione alla ritenuta appartenenza del L. al sodalizio La Lombardia”, per avere la Corte territoriale “ignorato apoditticamente le censure pur formulate in maniera pertinente, specifica e puntuale nei molteplici atti defensionali”, a tal fine nuovamente esposte e sintetizzabili: nel mancato coinvolgimento del prevenuto in altri due procedimenti, coevi alle indagini da cui è scaturito il presente processo ed entrambi aventi ad oggetto la penetrazione di frange di ‘n­dran­gheta nel territorio di (OMISSIS); nella mancata attribuzione al L. di qualsivoglia atto d’intimi­dazione per la commissione di delitti o l’acquisizione del controllo di attività economiche, come pure della realizzazione di condotte d’intestazione fittizia di beni, avendo egli acquistato con proventi leciti il mobilificio gestito in prima persona; nel suo mancato coinvolgimento in traffici di sostanze stupefacenti; nell’assenza di prove significative del possesso di una “dote”; nella sua mancata partecipazione al summit cui parteciparono anche esponenti di vertice provenienti dalla Calabria; nell’assenza di sue relazioni con gli esponenti delle altre “locali” insediatesi in Lombardia, nonché con rappresentanti del “mondo politico”;

b) violazione di legge e vizi della motivazione, con riferimento agli elementi su cui il giudice del rinvio ha fondato la conferma della statuizione di colpevolezza dell’odierno ricorrente, costituiti “da intercettazioni telefoniche intercorse fra terzi”, da “alcune intercettazioni ambientali dirette” e da “alcune OCP”: elementi che vengono tutti ripercorsi dalla difesa, onde contestare il significato loro attribuito dai giudici di merito, direttamente ovvero sulla scorta di altre circostanze asseritamente trascurate, tali da rendere quanto meno dubbia l’esegesi proposta in chiave accusatoria;

c) ulteriore vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per “violazione dei criteri legali di valutazione della prova liberatoria e travisamento della prova”, avendo la Corte territoriale, per un verso, consapevolmente eliminato dal proprio percorso motivazionale “ogni elemento favorevole emerso nei riguardi del ricorrente” e, sotto altro profilo, ritenuto sussistente la nomina del L. a sostituto del nominato soggetto apicale della “Lombardia, in persona di Z.P., nonostante che “le estemporanee e immediatamente contestate espressioni verbali di Z. non costituiscono affatto la prova dell’affiliazione del­l’im­putato”;

d) ennesimo vizio di motivazione, per avere la Corte ambrosiana malamente disatteso la richiesta di rinnovazione delle trascrizioni ambientali concernenti gli incontri svoltisi fra il L. ed il CO., indebitamente svalutando gli elementi di incongruenza logica a tal fine evidenziati;

e) violazione di legge e vizio di motivazione, in rapporto alla mancata derubricazione del reato contestato nell’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 416 bis c.p., a tal fine reiterando argomentazioni già in precedenza esposte;

f) vizio di motivazione - sotto forma di “insufficienza” della stessa - in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, motivata dalla difesa con riferimento alla età, alla incensuratezza ed al comportamento processuale dell’imputato.

3.2 Il difensore del C. formula un unico ed articolato motivo d’impugnazione, alla stregua del quale deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), per essersi il giudice di merito “completamente sottratto al compito che la Corte di cassazione gli ha assegnato in sede di annullamento con rinvio, ossia al rigoroso apprezzamento della sproporzione del patrimonio (immobiliare) rispetto alle attività economiche svolte dall’imputato al momento dei singoli acquisti”. Ciò per avere la Corte distrettuale:

- apoditticamente ribadito in Euro 1.600.000,00 il presunto ammontare del patrimonio dell’imputato, avente consistenza esclusivamente immobiliare, sulla scorta di una consulenza tecnica del pubblico ministero, “mai acquisita al processo” - poiché depositata direttamente presso la cancelleria del Tribunale, successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado, ancorché in epoca anteriore al deposito della relativa motivazione - “e, ciò nondimeno, abusivamente utilizzata da tutti i giudici di merito”, con conseguente duplicità della violazione in tal modo commessa: “per aver utilizzato una prova decisiva inutilizzabile e per aver palesemente contravvenuto a quanto imposto dalla sentenza di annullamento con rinvio emessa dalla Cassazione”;

- omesso di considerare che - al di là dei rilievi di ordine formale appena esposti - “la stima degli immobili della famiglia C., effettuata dall’ing. G.”, ossia dal consulente del p.m., in quanto pari ad Euro 698.000,00, è “molto vicina alla stima fornita dal consulente tecnico della difesa”, la differenza rispetto al valore definitivo di Euro 1.600.000,00 non potendo che discendere da beni “dissequestrati e restituiti ai legittimi proprietari già con la sentenza di primo grado”, ovvero comunque appartenenti a terzi estranei (la società (OMISSIS));

- rapportato il patrimonio dell’imputato al solo ammontare di Euro 752.774,00, corrispondente alle entrate di cui il prevenuto ha potuto fruire, al netto delle imposte, per il periodo 2002-2009, senza valutare tuttavia che “gli acquisti immobiliari si collocano anche nel periodo precedente l’Euro”, con l’impiego altresì dei risparmi accumulati in precedenza, essendo stati inoltre sempre accompagnati “dall’accensione di mutui ipotecari di cui il giudice non ha minimamente tenuto conto, a dispetto della cospicua documentazione acquisita agli atti del processo”;

- sbrigativamente assunto, come punto di riferimento, l’anzidetta stima di Euro 1.600.000,00, “in aperto contrasto con quanto richiesto dalle già citate Sezioni Unite “Montella”, secondo cui la rigorosa stima dei valori economici in gioco non va riferita “al patrimonio come complesso unitario”, come invece ha fatto la Corte d’appello di (OMISSIS), “ma alla somma dei singoli beni, con la conseguenza che i termini di raffronto dello squilibrio ... non vanno fissati nel reddito dichiarato o nelle attività al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel reddito e nelle attività nei momenti dei singoli acquisti, rispetto al valore dei beni volta a volta acquisiti”;

- reputato contraddittoriamente superflua la verifica circa la legittimità dell’acquisizione della consulenza di cui innanzi, come detto posta a base del pur censurato ragionamento sviluppato ai fini dell’adozione della statuizione contestata, disattendendo altresì la richiesta di accertamento peritale della difesa;

- erroneamente affermato - in relazione al secondo punto oggetto di annullamento - “che la prova dei redditi non dichiarati al fisco incomba sulla difesa e che tale onere non sia stato assolto”, laddove si assume che “la ricostruzione delle attività economiche diverse dai redditi dichiarati al fisco non può che essere compito del pubblico ministero e del giudice, trattandosi di elemento costitutivo della fattispecie ablatoria”, e che comunque la difesa ha fornito dimostrazione adeguata anche delle ulteriori entrate in questione.

Donde la richiesta conclusiva di ulteriore annullamento della sentenza impugnata.

4. In data 12.06.2017 sono state depositate due distinte memorie, entrambe nell’interesse del L.

4.1 Con la prima di esse, sottoscritta dall’avv. Bonanni, già firmatario dell’illustrato ricorso, sono ribadite ed ampliate le censure oggetto del primo e dell’ultimo motivo sviluppati con l’atto d’impugna­zione, l’uno relativo alla contestata appartenenza dell’imputato, nella veste di “capo e organizzatore”, alla “locale” di (OMISSIS), ad onta della sintomatica genericità della formulazione del capo d’accusa, monco del riferimento a comportamenti concreti, in palese contrasto con la tecnica di redazione utilizzata per gli altri originari coimputati, ritenuti depositari del medesimo ruolo qualificato in seno alle altre “locali”; l’altro inerente alla dedotta, assoluta insufficienza della motivazione posta a fondamento delle denegata concessione delle invocate attenuanti generiche.

4.2 La seconda memoria, redatta dall’avv. Mariconti, formula, rispetto all’iniziale ricorso, una ulteriore doglianza, da ritenersi peraltro “ricompresa nei capi e nei punti della decisione già oggetto del­l’impugnazione” e comunque rilevabile d’ufficio dal giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 609 del co­dice di rito, in quanto concernente l’avvenuta irrogazione, a carico del L., di una pena illegale, per violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3: ciò per avere la Corte ambrosiana, quale giudice del rinvio, confermato la pena di anni quattordici di reclusione, irrogata all’odierno ricorrente dal Tribunale di Milano, senza considerare che il giudice d’appello, con la sentenza poi annullata dalla Suprema Corte, aveva comunque ridotto ad anni dodici, in accoglimento del gravame dell’imputato, il trattamento sanzionatorio a suo carico (come dal relativo dispositivo, espressamente allegato alla memoria in questione).

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Entrambe le impugnazioni meritano accoglimento, quanto a quella relativa al L. nei ristretti e limitati termini che saranno di seguito precisati.

2. Iniziando da tale ultima posizione, giova ribadire che il punto di partenza della presente disamina - come lealmente riconosciuto nell’incipit del ricorso in esame - non può che essere costituito dagli esiti ormai definitivi scaturiti dalla stessa sentenza di questa Corte, che ha officiato il giudice del rinvio di una nuova valutazione dell’atto di appello a suo tempo proposto nell’interesse del L.

Dunque, è ormai giudizialmente ed irrevocabilmente stabilito che, quanto meno fino al 06.12.2012 - data di pronuncia della sentenza di primo grado e, per l’effetto, di cessazione della permanenza, atteso il carattere “aperto” della contestazione elevata ai sensi dell’art. 416 bis c.p. - ha operato in Lombardia una filiazione della ‘ndrangheta calabrese, strutturata in numerose articolazioni territoriali diffuse nel territorio regionale, aventi ciascuna una propria organizzazione, ma confluenti tutte in un unico organismo rappresentativo, denominato “(OMISSIS)”, deputato altresì - al di là delle varie vicissitudini, contraddistinte anche da spinte autonomistiche, represse nel sangue attraverso la consumazione di omicidi eccellenti - a fungere da elemento di raccordo con la consorteria madre, in terra di (OMISSIS).

Non solo, ma soprattutto - per quanto qui in particolare rileva - è giudizialmente ed irrevocabilmente stabilito che, fra le varie “locali” operanti e federate in seno a “(OMISSIS)”, va collocata anche la “locale” di (OMISSIS), rivestendo tale inequivocabile significato la condanna definitiva alla pena di anni nove e mesi tre di reclusione riportata da M.G., sempre per violazione dell’art. 416 bis c.p., giusto quale partecipe della “locale” anzidetta, di cui ha rappresentato altresì - come recita il comune capo d’accusa, nella parte a suo carico - “un importante punto di riferimento per gli altri affiliati nella spartizione del lavoro del movimento terra”.

3. Circoscritto l’ambito della cognizione qui rilevante al solo tema del coinvolgimento o meno del L. - ed in quale veste - la Corte milanese ha innanzi tutto ripercorso, anche mediante la riproduzione testuale dei vari passaggi argomentativi, gli elementi di prova più rappresentativi, convergenti nel senso della penale responsabilità del prevenuto, con il ruolo di “capo” della “locale” di (OMISSIS). Elementi così indicati:

- individuazione del L. quale sostituto, in sua assenza, pubblicamente compiuta da Pasquale Z., anch’egli appartenente alla medesima “locale” di (OMISSIS), subito dopo la sua designazione unanime, nel corso della riunione degli “stati generali” tenutasi a Paderno Dugnano il 31 ottobre 2009, quale “mastro generale” de “(OMISSIS)”;

- plurimi riferimenti al prevenuto, effettuati da soggetti di spicco della ‘ndrangheta lombarda quali MA.Vi. e P.P.F., rispettivamente a capo della “locale” di Bollate e di quella di (OMISSIS), nell’ambito delle numerosissimente conversazioni intercettate che li vedono quali interlocutori, nel corso delle quali - fra l’altro - nel commentare, ad alcuni mesi di distanza dall’evento, la morte per cause naturali di B.P. - che la sentenza impugnata definisce “personaàggio molto importante nel contesto ‘ndranghetistico, assai stimato per l’autorevolezza con la quale gestiva la spartizione dei lavori di movimento terra tra i padroncini calabresi” - osservano che la sua scomparsa ha lasciato vacante la carica dallo stesso ricoperta, che, precedentemente a lui, era stata assegnata al L., di cui viene rappresentata la prudenza nell’agire e stigmatizzato il rapporto di tipo personalistico, anziché a nome de “(OMISSIS)”, intrattenuto con i referenti in (OMISSIS);

- rapporti personalmente intrattenuti dal L. con personaggi di ‘ndrangheta di assoluto rilievo, fra i quali vengono in particolare sottolineati quelli con CO.Gi. (detto “(OMISSIS)” per via dell’attività di sarto svolta presso la lavanderia (OMISSIS), ubicata all’interno del centro commerciale in (OMISSIS)), in quanto documentati dalle captazioni eseguite, che danno conto del quanto mai illuminante oggetto delle conversazioni, con cui l’anziano imputato (cl. (OMISSIS)) espone le proprie lamentale per la situazione creatasi in (OMISSIS) e chiede ragguagli sulle decisioni assunte dall’organizzazione madre, ovvero viene reso edotto delle nuove nomine ai vertici della struttura apicale che coordina la ‘ndrangheta calabrese, ovvero ancora viene richiesto della formula rituale per il conferimento di un grado particolarmente elevato in seno alla consorteria criminosa, di cui egli è già titolare;

- partecipazioni del L. a matrimoni o funerali - direttamente accertate o risultanti dalle captazioni in atti - in ragione del significato che assume la presenza in tali eventi nella simbologia rituale della consorteria criminosa di cui trattasi (fra essi risulta in particolare meritevole di citazione la ricordata partecipazione del prevenuto alle esequie di N.C. - già reggente de “(OMISSIS)” ed assassinato per le pretese autonomistiche di affrancarsi dalla madrepatria calabrese, giusta le dichiarazioni di uno degli autori dell’omicidio, poi divenuto collaboratore di giustizia, BE. An., cui si fa riferimento nella sentenza di primo grado ed in quella impugnata - poiché ad essa si riconnettono le conversazioni pure indicate dalla Corte territoriale, in ordine ai tentativi degli aspiranti alla successione di ottenere i favori del L., in funzione dell’esito vittorioso delle loro candidature).

3.1 Fermo quanto sopra, la Corte ambrosiana, richiamato previamente il consolidato insegnamento giurisprudenziale circa la sostanziale unicità del corpo argomentativo delle sentenze conformi di primo e secondo grado, ove esse si fondino sui medesimi elementi oggetto di concorde valutazione, rileva come “le difese dell’appellante per lo più ripropongono (senza alcun elemento di novità) questioni già sottoposte al vaglio del primo giudice e da quest’ultimo disattese - all’esito di una scrupolosa e analitica disamina del materiale probatorio - con motivazione congrua, rispondente a criteri di logica e conforme al diritto, coerente con le risultanze processuali”, delle quali ultime evidenzia l’ampiezza ed esaustività, con conseguente rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria a suo tempo avanzata nell’interesse dell’odierno ricorrente. Osserva, inoltre, che “la condotta di L. è esattamente conforme ai parametri forniti, con specifico riferimento a (OMISSIS), dalla Corte di Cassazione nella sentenza resa nel presente processo”, avuto riguardo a “la concreta valenza indiziaria della partecipazione a summit oppure solo a semplici incontri allargati con altri sodali, la partecipazione a matrimoni o a funerali di mafiosi, il possesso di doti o di cariche, la conoscenza delle dinamiche e dei ruoli associativi”.

4. Alla stregua di tali doverose premesse, vanno ora vagliati i motivi di ricorso, quali si sono in precedenza illustrati.

I primi tre motivi della proposta impugnazione possono senz’altro essere affrontati congiuntamente, poiché ineriscono tutti, ancorché sotto vari profili, ai vizi logici che si assume inficino la sentenza del giudice distrettuale.

4.1 Per ciò che concerne il primo di essi, evidente ne è l’assoluta inconsistenza: in buona sostanza, la difesa del L. lamenta che non siano stati apprezzati gli elementi di segno negativo da essa elencati - il mancato coinvolgimento del L. in pregresse indagini relative all’insediamento della ‘ndrangheta in Lombardia, pur aventi avuto ad oggetto il territorio di (OMISSIS); l’assenza di reati specifici, a tal fine esemplificati, cui notoriamente si riconosce valenza di “spia” della connotazione mafiosa del loro autore, ecc. - nonostante il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, per cui “In sede di legittimità non è censurabile la sentenza, per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame, quando questa risulta disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, essendo sufficiente, per escludere la ricorrenza del vizio previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della prospettazione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa” (cfr., fra le tante, Sez. 5, sent. n. 607 del 14.11.2013 - dep. 09.01.2014, Rv. 258679 e Sez. 2, sent. n. 1405 del 10.12.2013 - dep. 15.01.2014, Rv. 259643). Essendo appena il caso di osservare, a maggior supporto del principio cristallizzato nella massima riprodotta, che gli elementi perorati dalla difesa attengono a circostanze palesemente estranee al perimetro dell’imputazione che qui rileva - circoscritto alla sola implicazione dell’imputato, con ruolo qualificato, in seno alla consorteria ‘ndranghetista insediatasi in (OMISSIS) e non esteso ad altri addebiti - ovvero comunque non incompatibili, come nel caso del suo mancato coinvolgimento in precedenti procedimenti penali, sempre per violazione dell’art. 416 bis c.p..

4.2 Per ciò che attiene alla seconda doglianza, essa si risolve in un motivo non consentito, poiché pretende di sterilizzare la valenza probatoria di (taluni) elementi in atti:

- quanto a quelli offerti dalle conversazioni intercorse fra terzi, valorizzate dalle sentenze dei giudici di merito e non contestate nel loro inequivocabile significato, opponendovi il tenore di altre captazioni, pure indicate testualmente dalla sentenza di primo grado, “chirurgicamente” estrapolate dal contesto loro proprio, di cui vi è ampia traccia nella sentenza impugnata - che in parte riporta anche detti colloqui - ove si dà atto e si rimarca il rapporto negativo che lo scomparso B.P. aveva con il L., al pari del mancato apprezzamento nei confronti dell’imputato da parte di MA.Vi., per via della diversa “politica” di cui i due erano portatori nei confronti dell’organizzazione madre (così fornendo anche risposta implicita alle obiezioni in questione);

- analogamente, quanto a quelli risultanti dalle “due intercettazioni ambientali dirette” - si tratta delle conversazioni con il “(OMISSIS)” CO.Gi., cui si è accennato in precedenza - tentando di svilirne la portata mediante l’enfatizzazione di dati marginali o istituendo collegamenti con altre captazioni, che comunque lasciano fermi i tratti essenziali su cui i giudici di merito hanno soffermato la propria attenzione;

- quanto a quelli dedotti dai servizi di osservazione a carico del L., proponendone un’alternativa lettura, in chiave difensiva.

Per organicità di trattazione, appare opportuno affrontare qui il quarto motivo di censura, incentrato sulla mancata rinnovazione della perizia trascrittiva delle intercettazioni in atti, limitatamente a quelle intercorse con il CO., di cui si è appena detto.

Trattasi di motivo generico e, insieme, manifestamente infondato: generico, poiché è del tutto silente sulla decisività della chiesta riapertura istruttoria, che costituisce, per contro, il requisito essenziale ai fini della determinazione che il giudice d’appello deve assumere ai sensi dell’art. 603 c.p.p., ossia della norma rispetto alla quale si denuncia il vizio di motivazione; manifestamente infondata, poiché pretende di far scaturire l’inattendibilità della trascrizione in atti da una (1) pretesa incongruenza nel corpo della totalità della conversazione in oggetto - quella relativa ai periodi dell’anno in cui l’organizzazione madre consente il conferimento delle doti da parti delle articolazioni lombarde - in difetto di qualsivoglia dato ulteriore a tal fine apprezzabile, vale a dire senza indicare quale sarebbe la corretta trascrizione del passaggio in questione e senza neppure prendere in considerazione le capacità dialettiche e grammaticali dei parlatori.

4.3 La rilevanza dei colloqui intrattenuti dal L. con il CO. è tema che forma oggetto anche della terza censura, concernente - come si legge in proposito nel ricorso - la “consapevole esclusione nelle motivazioni di ogni elemento favorevole emerso nei riguardi del ricorrente”, avente quale effetto “quello - inaccettabile - di una totale omissione della valutazione delle prove a discarico, in spregio ai fondamentali canoni di valutazione probatoria”.

In realtà, anche qui ci si trova in presenza del medesimo schema in precedenza tratteggiato, poiché si assiste, di fatto, ad una difforme interpretazione del significato della conversazione, mascherato dietro il fragile paravento del vizio di motivazione.

4.4 Per doverosa completezza, va dato atto che il motivo in esame riguarda anche un altro elemento di prova, indubbiamente dotato di considerevole significatività (ancorché non il solo), rappresentato dalla ricordata indicazione del L., ad opera dello Z., quale suo sostituto, in occasione della nomina di quest’ultimo al vertice de “(OMISSIS)” (“... nel caso non ci sono io c’è compare B....”).

Qui, per vero, il vizio denunciato è quello di travisamento della prova, sulla scorta della trascrizione della totalità dei passaggi che interessano, asseritamente tratta da pag. 181 della sentenza di primo grado, del seguente testuale tenore:

Z.: “a questo punto è meglio che PP nel caso non ci sono io (voci sovrapposte) questa è una cosa che giustamente... nel caso non ci sono io c’è compare B... che è uno... (voci sovrapposte)”.

MA.: “PP e dite se non trovate me, mi lasciate l’ambasciata con S. e lui me la lascia con S. va bene o no?”

Z.: “benissimo”.

Secondo il ricorrente, in particolare, “l’iniziale ed unilaterale indicazione dello Z. (“nel caso non ci sono io c’è compare B.... che è uno...”) viene subito energicamente smentita dal MA., che si affretta a darne una seconda in favore di altra e diversa persona (“e dite se non trovate me, mi lasciate l’ambasciata con S. e lui me la lascia con S. va bene o no?”), con l’effetto di provocare la prontissima ed incondizionata adesione di Z. (“benissimo”)”.

Ciò posto, è noto che “Il vizio di travisamento della prova deducibile in cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), può essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti del processo specificamente indicati ed è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia” (così Sez. 2, sent. n. 47035 del 03.10.2013, Rv. 257499). Con l’opportuna puntualizzazione, per cui “Il vizio di travisamento della prova dichiarativa, per essere deducibile in sede di legittimità, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto ed è pertanto da escludere che integri il suddetto vizio un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima” (cfr. Sez. 5, sent. n. 9338 del 12.12.2012 - dep. 27.02.2013, Rv. 255087).

Ora, è di tutta evidenza che la portata delle frasi pronunciate dal MA. non è affatto chiarissima, onde basterebbe tale annotazione per denotare l’inconsistenza del vizio denunciato, essendosi semmai al cospetto di un travisamento del fatto, non consentito in sede di legittimità poiché si risolve in un diverso apprezzamento del dato probatorio.

Ma v’è di più.

La difesa del ricorrente non contesta affatto che il riferimento compiuto dallo Z. riguardi il L., nel quale, dunque, s’identifica con certezza il “compare B.” di cui si parla: ne consegue che la sentenza impugnata - al pari di quella di primo grado ed a prescindere dal pur richiesto requisito della decisività - non ha affatto introdotto, nel proprio costrutto argomentativo, un’informazione inesistente. Non solo, ma detta informazione è stata valorizzata al fine di dar conto della qualità di partecipe del L., che è un dato rispetto al quale la veste di sostituto dello Z., nominato al vertice de “(OMISSIS)”, contestata con l’atto d’impugnazione, assume valore del tutto secondario.

4.5 Inammissibile è anche il quinto motivo di ricorso.

La difesa del L. indica gli elementi che la sentenza impugnata pone a base del riconoscimento al prevenuto del ruolo apicale in seno alla “locale” di (OMISSIS), che pretende poi di confutare o sulla base di elementi già presi in esame e disattesi motivatamente dal giudice d’appello - il riferimento deve intendersi alle accuse provenienti dal collaboratore BE. ed alla pretesa inaffidabilità di quest’ultimo - ovvero in forza del proprio diverso apprezzamento dei dati che si sono già indicati in precedenza - le numerose intercettazioni in cui oggetto della conversazione è il L.; gli esiti dei servizi di osservazione a carico del prevenuto; le captazioni ambientali concernenti gli incontri con il CO. per i quali si rimanda a quanto detto sopra, al paragrafo 4.2. Quanto, poi, all’ultimo elemento su cui l’atto d’impugnazione sofferma la propria attenzione - la dote in possesso del L., rispetto a quella del MA. e del P., circostanza sulla quale nuovamente si denuncia un intervenuto travisamento della prova - è palese la mancanza di decisività del punto, che peraltro viene non a caso trattato in termini molto riduttivi, nel senso che molteplici sono i riferimenti contenuti nella sentenza impugnata al grado assai elevato in possesso del L. ed all’altrettanto sintomatico potere in capo al medesimo, di conferimento di doti a soggetti affiliati. Né rilevano, conclusivamente, le considerazioni svolte sul punto in sede di motivi aggiunti: invero, non è affatto determinante che non siano emersi “i contributi sistematicamente prestati dal L.”, in funzione della organizzazione della “locale” di (OMISSIS), poiché detto ruolo è stato comprovato dai giudici di merito attraverso la dimostrazione del riconoscimento, da parte di membri influenti della consorteria, anche non in particolare sintonia con le sue posizioni (v. il più volte citato MA.), del ruolo apicale suo proprio e dei poteri di cui è depositario (in aggiunta al potere di conferimento delle doti, si vedano, a mò di esempio, i ripetuti cenni alle decisioni del L. di non partecipare ad alcune riunioni de “(OMISSIS)”, per non esporre a rischio l’intera organizzazione, in ragione delle indagini a carico della “locale” di (OMISSIS), di cui si era acquisita contezza a seguito della scoperta di talune “cimici”, come pure i sintomatici riferimenti alla “politica” coltivata dal L. in seno all’organizzazione periferica lombarda, logicamente rilevante in virtù della sua posizione di vertice).

4.6 Eguale valutazione s’impone, infine, in ordine al sesto ed ultimo motivo del ricorso originario, in tema di attenuanti generiche: la motivazione sviluppata in proposito dalla Corte territoriale - che non consta affatto dei soli passi riportati nell’atto d’impugnazione - non è per nulla generica ed appare logicamente coerente, da ciò discendendo la sua incensurabilità nella presente sede.

4.7 Merita accoglimento, per contro, il motivo da ultimo prospettato con la memoria a firma del­l’avv. Mariconti.

La relativa sollecitazione s’incentra sull’avvenuta irrogazione di una pena illegale: essa concerne, dunque, un punto che, diversamente da quanto si sostiene dalla difesa, non può dirsi ricompreso fra quelli devoluti al vaglio di questo giudice di legittimità con il descritto ricorso, atteso che il motivo dedicato alle attenuanti generiche involge un punto diverso da quello inerente al quantum di pena in senso stretto, di contro al vincolo, notoriamente gravante sull’imputato onde eludere aggiramenti della normativa in tema di termini dell’impugnazione, di formulare doglianze che, pur non rappresentate in precedenza, devono essere comunque ricollegabili ai capi e punti già oggetto di deduzione, in conformità a quanto prescritto dall’art. 581 dello stesso codice; nondimeno, trattasi di sollecitazione che ben può essere recepita dal Collegio, ai sensi dell’art. 609, u.c., del codice di rito (cfr., di recente, Sez. 5, sent. n. 46122 del 13.06.2014, Rv. 262108, che ha anzi affermato l’operatività del principio anche in presenza di ricorso inammissibile).

È un dato obiettivo che il giudice di primo grado, la cui decisione la pronuncia impugnata ha integralmente confermato, aveva irrogato al L. la pena di anni quattordici di reclusione, ridotta a dodici dalla sentenza d’appello annullata da questa Corte.

Ciò posto, è principio consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, che il divieto di reformatio in peius esplica la propria efficacia anche in sede di giudizio di rinvio, con la puntualizzazione, tuttavia, che, qualora la sentenza di secondo grado sia stata annullata per ragioni esclusivamente processuali, il parametro cui occorre fare riferimento è costituito dalle statuizioni contenute nella pronuncia del primo giudice (cfr. Sez. 3, sent. n. 9698 del 17.11.2016 - dep. 28.02.2017, Rv. 269277; Sez. 6, sent. n. 44488 del 30.09.2009, Rv. 245107; Sez. 6, sent. n. 10251 del 25.06.1999. Rv. 214386).

La ratio del principio testè enunciato - che il Collegio condivide appieno e da cui non ha dunque motivo di discostarsi - consiste nel fatto che, nelle ipotesi indicate, non vi è stato il consolidamento di alcuna posizione di carattere sostanziale in capo all’imputato, onde legittimamente il principio del divieto di reformatio in peius va declinato in rapporto a quanto statuito dalla sentenza di primo grado.

Esemplificativa, nel senso che si è appena indicato, è la casistica che si trae dalle sentenze sopra citate: così, nel caso di cui all’arresto del 1999, l’annullamento del giudizio d’appello risulta disposto in forza della rilevata, omessa citazione dell’imputato a dibattimento; in quello oggetto della pronuncia del 2009, l’annullamento è scaturito dalla constatazione che il concordamento in appello, giusta l’allora vigente art. 599 c.p.p., comma 4, era stato eseguito dal sostituto del difensore di fiducia dell’imputato, in difetto della procura speciale che lo abilitasse al compimento di tale atto; infine, nell’ipotesi oggetto della sentenza del 2016, l’annullamento si ricollega alla riscontrata violazione del diritto di difesa, per via del rigetto della richiesta di nomina dell’interprete, con nullità estesasi, a cascata, su tutti gli atti successivi. A significare, cioè, che in tutte le vicende anzidette si è in presenza di errores in procedendo che, avendo irrevocabilmente minato la legittimità dello svolgimento del giudizio - per aver addirittura impedito la costituzione di un valido rapporto processuale, ovvero per effetto della nullità di atti di carattere propulsivo, poi propagatasi ex lege a quelli susseguenti - non hanno consentito, per usare l’e­spressione ricorrente nelle sentenze in questione e già sopra riportata, “il consolidamento di alcuna posizione sostanziale” a favore dell’imputato, per aver fatto venire meno, in radice, la sentenza di secondo grado e, quindi, Quel termine di paragone, cui riferire il divieto di reformatio in peius.

Così non è nel caso di specie: qui, invero, la sequenza degli atti attraverso cui si è dipanata la celebrazione dell’iniziale processo d’appello è immune da censure di sorta, poiché il vizio che ha condotto alla caducazione della relativa sentenza - per quanto qui d’interesse - essendo consistito nella mancata giustificazione della decisione adottata nei confronti del L., in forza dell’assenza di motivazione in ordine alla sua posizione processuale, concretizza principalmente una violazione di carattere sostanziale, poiché preclude la ricostruzione dell’iter attraverso cui il giudice è pervenuto alla decisione cristallizzata nel dispositivo emanato e, dunque, incide sulle ragioni della decisione medesima (v., anche se con riferimento a difforme vicenda, Sez. 2, sent. n. 48580 del 20.02.2011, Rv. 252060; v. inoltre, ai fini di una compiuta ricostruzione dell’istituto della reformatio in peius, la parte motiva di Sez. Un., sent. n. 16208 del 27.03.2014, ric. C.).

Logico corollario di quanto precede è che, nella presente fattispecie, il limite derivante dalla pur immotivata riduzione di pena disposta nei confronti dell’odierno ricorrente deve ritenersi operante, onde la disposta conferma non può che essere rapportata, per ciò che attiene al trattamento sanzionatorio, alla meno gravosa pena irrogata con la sentenza della Corte d’appello di Milano annullata con la ricordata pronuncia n. 34147 del 21.04.2015, in tal senso potendo direttamente procedere alla rideterminazione della pena questa Corte, ai sensi dell’art. 620, lett. l) del codice di rito.

S’impone, quindi, l’affermazione del seguente principio di diritto:

“Qualora la sentenza d’appello sia stata annullata per ragioni diverse da quelle di tipo esclusivamente processuale, il divieto di reformatio in peius, che opera anche nel giudizio di rinvio, va rapportato non alla sentenza di primo grado, ma a quella annullata”.

5. Alla stregua di quanto precede, vanno poste a carico del ricorrente le spese del grado sostenute dalla costituita parte civile Federazione Antiracket Italiana (F.A.I.), nella misura indicata in dispositivo.

6. Come anticipato, anche il ricorso proposto nell’interesse di C.C.A. merita accoglimento.

7. Si è già avuto modo di ricordare che la pronuncia n. 34147/2015, poco sopra richiamata, nel far luogo all’annullamento della sentenza a carico del prevenuto, limitatamente alla statuizione di confisca della totalità del suo patrimonio, faceva carico al giudice del rinvio di attenersi al principio di diritto incentrato sulla rilevanza anche di redditi leciti non dichiarati (“in nero”) ai fini dell’accertamento circa l’effettiva sproporzione fra le capacità economiche dell’imputato ed il valore dei beni in capo allo stesso, a tal fine demandando allo stesso anche il controllo in ordine alla legittimità dell’acquisizione della consulenza di parte pubblica, valorizzata in funzione della determinazione delle stime relative al valore del patrimonio del C.

A fronte di tanto, la Corte ambrosiana ha reputato che non fosse stata fornita dall’imputato, “con il necessario rigore”, la prova della “esistenza di beni sottratti all’imposizione fiscale e destinati all’ac­quisto dei beni in discussione”, per il resto rilevando come, pur a fronte della stima dei beni di proprietà del C. fornita dal consulente di quest’ultimo - tale, dunque, da rendere “superflua la verifica sulla ritualità del deposito della consulenza cui la Corte d’appello ha fatto riferimento per desumere la stima del patrimonio permanesse una sensibile e non colmabile sproporzione tra redditi dichiarati e beni acquisiti, anche alla luce dell’elevatissimo tenore di vita dell’appellante e della mancata produzione di redditi da parte della moglie e della figlia del menzionato C., l’una e l’altra gravanti perciò interamente, dal punto di vista del mantenimento, a carico del prevenuto, al pari della donna con cui lo stesso intratteneva una relazione.

8. Il giudice del rinvio solo in apparenza ha prestato integrale ossequio alle statuizioni di questa Corte di legittimità, dalle quali, in realtà, si è in parte discostato, con conseguente valenza assorbente di tale rilievo.

8.1 Immune da censure è la statuizione della sentenza impugnata, in ordine al primo profilo oggetto di annullamento: in proposito il giudice distrettuale ha preso in esame le deposizioni in atti, provenienti - si legge - da “i quattro titolari degli studi odontoiatrici citati dalla difesa (il quinto si è avvalso della facoltà di non rispondere)”, in cui - sempre secondo la prospettazione difensiva - il C. avrebbe svolto l’attività di direttore sanitario, percependo compensi in nero; sennonché - prosegue ancora la motivazione - i testi “non hanno, sostanzialmente, confermato tale circostanza”, da ciò traendo conferma della correttezza della conclusione cui già era pervenuto il Tribunale, nel senso, cioè, “che si trattasse comunque di piccole somme, nell’ordine di poche centinaia di Euro, certamente non tali da introdurre elementi di reddito significativi nella prospettiva sperata dalla difesa”.

Le obiezioni mosse dalla difesa non colgono nel segno: il ricorso dell’imputato deduce, al riguardo, il vizio di travisamento della prova, ma l’assunto resta confinato in affermazioni totalmente generiche, senza che il ricorrente abbia adempiuto all’onere che su di esso in tal caso incombe (cfr., a contrario, Sez. 1, sent. n. 25834 del 04.05.2012, Rv. 253017, secondo cui “Rispetta il principio di autosufficienza il ricorso in cassazione che, denunciando il vizio di travisamento di una prova testimoniale, dopo aver indicato la citazione saliente della prova operata dai giudici di merito, riporti, inserendola nel corpo del ricorso, la riproduzione xerografica dello stralcio della trascrizione della testimonianza medesima, in modo da consentire l’effettivo apprezzamento del vizio dedotto”). Né maggior fondamento riveste l’asserzione ulteriore della difesa, circa la spettanza, in ogni caso, al pubblico ministero, prima, ed al giudice, poi, della “ricostruzione delle attività economiche diverse dai redditi dichiarati al fisco... omissis... trattandosi di elemento costitutivo della fattispecie ablatoria rappresentato, appunto, dalla capacità economica che denota, nel rapporto col valore del patrimonio, la sproporzione”.

A tale ultimo riguardo, si è in presenza di una prospettazione solo suggestiva: è bensì vero che compete all’accusa - e, quindi, al giudicante che ne recepisca l’impostazione - l’onere di comprovare la sussistenza della fattispecie incriminatrice contestata, in tutti i suoi elementi costitutivi, ma è altrettanto indubitabile che, una volta fornita la dimostrazione che l’imputato non svolge un’attività in grado di consentirgli l’acquisizione della provvista necessaria per l’acquisto del bene, l’onere della prova s’inverte, per effetto dell’avvenuta formazione di una presunzione (relativa) di illecito accumulo patrimoniale, ed incombe alla parte privata dar conto da quale reddito legittimo proviene la titolarità effettiva del bene medesimo (cfr. Sez. 2, sent. n. 29554 del 17.06.2015, Rv. 264147, nonché Sez. 6, sent. n. 45700 del 20.11.2012, Rv. 253816; adde anche Sez. 5, sent. n. 3682 del 12.01.2011, Rv. 249711).

8.2 Discorso diverso s’impone in relazione all’altro profilo che la sentenza di annullamento aveva demandato al giudice del rinvio, circa la verifica della “ritualità del deposito della consulenza cui la Corte di appello ha mostrato, in motivazione, di aver fatto riferimento per desumere le stime de quibus e che, dalla documentazione allegata al ricorso, sembrerebbe irritualmente acquisita”.

Qui è indiscutibile che il giudice milanese si sia sottratto al compito cui era tenuto, atteso che nulla la sentenza dice in proposito, pur avendo riportato testualmente il dictumdell’annullamento e, di più, pur continuando ad assumere, quale fulcro del proprio discorso giustificativo della contestata statuizione, la stima di valutazione del patrimonio confiscato, in misura di Euro 1.600.000,00, indicata giusto dalla consulenza in questione, che la difesa deduce essere stata redatta su incarico conferito dal p.m. e, soprattutto, lamenta essere stata inopinatamente depositata nella cancelleria del Tribunale l’8 maggio 2013 - dunque, successivamente alla pronuncia di primo grado, avvenuta il 6 dicembre 2012, ma al tempo non ancora depositata - e ciò nonostante, di fatto valorizzata in motivazione dallo stesso Tribunale, come pure dal giudice di secondo grado e, ora, da quello di rinvio.

La stessa sentenza, del resto, non ne fa mistero, essendo esplicita nel dichiarare di ritenere “superflua la verifica sulla ritualità del deposito della consulenza” in questione, salvo però fornire giustificazione di tale modus agendi sulla scorta di un ragionamento inficiato da evidente incongruenza logica, poiché fa derivare l’anzidetta valutazione di superfluità dall’ammontare dei redditi percepiti dal C. nel periodo 2002-2010, pari ad Euro 752.774,00, pur maggiorati della “stima degli immobili di proprietà di C. Eva...” - trattasi della figlia dell’imputato - “... pari a Euro 517.998,00”, compiuta dal consulente della difesa, dimenticando che la linearità di siffatta argomentazione è irrimediabilmente incrinata dall’in­certezza sul corretto impiego processuale del dato di raffronto, su cui questo giudice di legittimità aveva appunto invitato la Corte alla doverosa verifica, onde stabilire previamente se esso fosse stato ritualmente acquisito; premessa imprescindibile, al fine di stabilire l’utilizzabilità del dato, peraltro contestato ex adverso, fermo restando altresì che il patrimonio - salva diversa dimostrazione - non costituisce un’entità statica, cosicché il giudizio di proporzionalità rispetto alle capacità economiche dell’im­putato va compiuto avendo riguardo al suo ammontare nel momento coincidente con quello della singola acquisizione.

La statuizione di confisca a carico del C. va perciò nuovamente annullata, rimettendo gli atti al giudice del rinvio in funzione di un nuovo giudizio in proposito, da compiersi mediante l’accertamento della circostanza già oggetto della pregressa sentenza 21.04.2015 di questa Corte e, all’esito, di quelle ulteriori testè tratteggiate.

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.C.A. e rinvia per nuovo giudizio sulla confisca ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Annulla altresì, senza rinvio, la sentenza medesima nei riguardi di L.B., limitatamente all’entità della pena, che ridetermina in anni dodici di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso del L. e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile F.A.I., che liquida complessivamente in Euro 4.000,00 oltre 15% per spese generali, I.V.A. e C.P.A.

 

[Omissis]