Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Quanta umanità in tre metri quadrati? Indirizzi interpretativi circa i criteri di calcolo dello spazio vitale intramurario e problematica del bagno (di Francesca Tribisonna)


Il contributo riflette sugli approdi raggiunti da dottrina e giurisprudenza circa i criteri di valutazione del carattere inumano o degradante riservato al trattamento carcerario, in violazione dell’art. 3 Cedu. Dopo avere indagato i profili più problematici, quali quelli connessi al calcolo dello spazio vitale intramurario riconosciuto al detenuto e alla presenza del cd. bagno “a vista”, l’Autore svolge alcune osservazioni critiche circa la mancanza di sicuri “indici indicativi di disumanità” cui fare riferimento, capaci di guidare l’opera dell’interprete.

How much humanity is there in three square meters? Interpretative addresses about the criteria for calculating the intramural living space and the problem of the bathroom

The essay reflects on the results achieved by doctrine and jurisprudence about the criteria for evaluating the inhuman or degrading character reserved for the prison treatment, in violation of Article 3 ECHR. The Author also investigates the most problematic profiles, such as those related to the calculation of the intramural living space for each prisoner and the presence of the bathroom so-called “on sight”, and, at the end, she also makes some critical remarks about the lack of some fixed “indicative indices of inhumanity”, which could represent a guide for the judge’s work.

 
SOMMARIO:

La costruzione mediatica dell'insicurezza e l'importanza del linguaggio nel sentire comune - Umanità e dignità - I caratteri "mobili" di una detenzione inumana e degradante - Lo spazio minimo vitale... e non solo - L'annosa questione dei criteri di calcolo dei 3 metri quadrati - Criteri di computo dei servizi igienici e problematiche legate al cd. bagno "a vista" - Verso una normazione di possibili "indici indicativi di disumanità"? - NOTE


La costruzione mediatica dell'insicurezza e l'importanza del linguaggio nel sentire comune

Ormai da non pochi anni si assiste ad un fenomeno che si ripete inesorabile, lasciando sul tecnico del diritto l’amara constatazione di una produzione normativa di tipo sensazionalistico, votata all’esigenza di placare l’allarme sociale rispetto a fenomeni percepiti come particolarmente temibili. È la costruzione mediatica dell’insicurezza il nuovo motore che, per il tramite della creazione di norme manifesto che la alimentano, porta ad una legiferazione sempre più deficitaria, più “de-legificata”. Grazie al puntello mediatico, anche il tema della condizione carceraria è diventato un tòpos dei nostri tempi dopo che l’Europa ha acceso i riflettori sul sistema penitenziario italiano, denunciandone le gravi condizioni di sovraffollamento e di inumanità, così condannandola ad un rapido ed efficace adeguamento [1]. E, tuttavia, se situazioni di eccessiva affluenza carceraria avrebbero dovuto indirizzare le scelte politiche e legislative verso la via a senso unico della fuga dalla carcerazione, con il correlato amplificato accesso alle misure alternative ad essa, questo non pare essere quello che si è verificato nella pratica. Ancora una volta, la responsabile pare essere lei: la costruzione mediatica dell’insicurezza, quella che si alimenta dei fatti di cronaca nera, che fomenta il timore dei consociati e che reclama interventi sanzionatori più efficaci e inasprimenti delle pene quale unico grimaldello possibile di difesa della collettività dal reato [2]. Il tutto peraltro in un sistema che, se, da una parte, non riesce a ridurre drasticamente le occasioni che portano alla carcerazione, dall’altra, mostra però incontrovertibilmente di non avere più quella cieca fiducia sulla sola efficacia della pena principale [3], rispetto alla quale ancora fatica a garantire condizioni di trattamento rispettose del più ampio senso di umanità. Sorge, quindi, naturale domandarsi in che modo la fuga dall’umanità in fase di esecuzione della pena si trovi così strettamente correlata al momento storico-politico vissuto, al sentire dominante, alla cronaca dei nostri tempi. E il pensiero corre alla precisa scelta di rispondere alle sollecitazioni europee che volevano un rimedio efficace al fenomeno del sovrappopolamento carcerario con locuzioni che – a ben vedere – nulla [continua ..]


Umanità e dignità

Con la sentenza pilota Torreggiani [7], la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione da parte dello Stato italiano del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti sancito dall’art. 3 Cedu, a causa del grave sovraffollamento [8] degli istituti penitenziari; un sovraffollamento definito a «carattere strutturale e sistemico» [9], da eliminare in tempi ristretti e con misure e azioni mirate a realizzare efficaci forme di deflazione carceraria [10]. Ciò, peraltro, mediante l’introduzione di misure accessibili ed effettive, da considerarsi tali sotto il duplice profilo dell’idoneità ad inibire in tempi brevi la violazione della previsione convenzionale e, anche laddove questa fosse cessata, a garantirne adeguata riparazione [11]. Per scongiurare il fenomeno del sovrappopolamento carcerario, allora, la pena detentiva dovrebbe cessare di essere una sanzione inflazionata e, quando inevitabile, svolgere appieno la propria funzione risocializzativa, così profondamente connaturata all’essere “uomo” del soggetto in vinculis. Proprio partendo dal concetto di umanità e dai moniti della giurisprudenza europea, si è altresì rianimata [12] la riflessione sui diritti dei detenuti in generale, sull’effettiva tutela degli stessi, sulle prerogative e sulle guarentigie poste a salvaguardia della loro dignità, specie allorquando si discuta di fenomeni intollerabili, quali il sovraffollamento carcerario, che i giudici costituzionali hanno definito tali da «pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale» [13]. Un carcere sovraffollato è, infatti, un luogo che calpesta i diritti e la dignità di chi lo abita [14] e un sistema giuridico che non riesca a proteggere i diritti dell’uomo commette un illecito internazionale, rischiando di affievolire o vanificare del tutto la tutela offerta dalla Convenzione [15]. Come si è osservato, nessun processo “umanizzante” potrà mai condurre ad eguagliare le condizioni della vita detentiva a quelle normali della vita esterna, senza con ciò privare la pena stessa delle sue funzioni [16] e, tuttavia, una pena rispettosa del senso di umanità e, ancor prima, della dignità del detenuto, rappresenta una condizione sacrosanta [continua ..]


I caratteri "mobili" di una detenzione inumana e degradante

Se si parte dall’assunto di base secondo cui la detenzione disposta legalmente non sia affatto incompatibile con il rispetto della dignità e dei diritti della persona, risulterà consequenziale la verifica circa il fatto che i “modi” e le “condizioni” della stessa non siano tali da comportarne un’ingiustificata compressione. Come si è osservato, «il problema è che però stabilire a priori il giusto equilibrio, e cioè stabilire quando determinate restrizioni dei diritti fondamentali siano consentite in quanto connaturate alla detenzione e quando risultino invece oltrepassare la misura è estremamente difficile. E ciò vale non solo per i diritti legittimamente comprimibili (bilanciabili con altri controinteressi), ma anche per un diritto assoluto e inderogabile, quale, in particolare, quello a non subire pene inumane o degradanti: se è vero che il carattere assoluto di tale diritto esclude qualsiasi problema di reperimento del giusto punto di equilibrio nel bilanciamento con altri controinteressi, tuttavia il problema si sposta dall’individuazione della giusta misura della compressione del diritto alla determinazione della sussistenza della lesione, in quanto è estremamente difficile stabilire a priori quando una detenzione carceraria, nella sua configurazione astratta o nelle sue concrete modalità di applicazione, abbia carattere inumano o degradante» [29]. A ben vedere, le due caratteristiche riferite al trattamento vietato – “inumano” o “degradante” – non ricevono un’interpretazione univoca [30], essendo concetti mutevoli, da valutarsi in maniera contestualizzata e da parametrare al caso concreto. Sul punto, nel ricordare come venga qualificato “inumano” quel trattamento «che provoca volontariamente sofferenze mentali e fisiche di una particolare intensità» e “degradante” quello, meno grave del trattamento inumano, che «umilia fortemente l’individuo davanti agli altri e che è in grado di farlo agire anche contro la sua volontà o coscienza», è stato osservato come le due definizioni si focalizzino più sulle sofferenze fisiche inflitte, nel primo caso, e su quelle di tipo emotivo e morale, nel secondo [31]. In mancanza di statuizioni chiarificatrici o catalogazioni vincolanti, si [continua ..]


Lo spazio minimo vitale... e non solo

Uno dei temi fondamentali di cui ormai da tempo si discute al fine di verificare il carattere inumano o degradante del trattamento carcerario è senza dubbio quello relativo alle dimensioni dello spazio vitale intramurario riconosciuto al detenuto; un tema che non può non assumere rilievo dirimente nel momento in cui si discute di soggetti privati della libertà personale e, a cagione di ciò, costretti alla vita detentiva e ad una permanenza forzata in ambienti per definizione ristretti. Diverse sono le pronunce che hanno avuto modo di tracciare – per passaggi successivi – i tasselli di una condizione detentiva all’interno delle celle che rispettasse i precetti di cui all’art. 3 Cedu, così provando a tappare le falle di un sistema che, come detto, non prevede a monte la tipizzazione delle condotte integratrici il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti in esso contemplato. Con precipuo riferimento allo spazio vitale, si osserva come la legislazione penitenziaria nulla stabilisca nello specifico [40], ma si limiti a distinguere negli edifici penitenziari i «locali per le esigenze di vita individuale» da quelli «per lo svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose» all’art. 5 ord. penit. e a riferirsi ad un’«ampiezza sufficiente» allorquando, all’art. 6 ord. penit., descrive gli ambienti nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati. Ciò con l’unica precisazione di maggior dettaglio secondo cui «i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti» [41]. Peraltro, nemmeno a livello di regolamento penitenziario – e, quindi, agli artt. 6-7 d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 – vengono prefissati criteri quantitativi di definizione degli spazi a disposizione dei detenuti, di talché risulta davvero difficile stabilire a priori delle regole vincolanti. Un pur blando riferimento è contenuto, poi, nelle Regole penitenziarie europee [42] che, al n. 18, par. 1, affermano che «i locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata», ma anch’esse non definiscono quale sia la superficie intramuraria da [continua ..]


L'annosa questione dei criteri di calcolo dei 3 metri quadrati

Peraltro, nemmeno il criterio dei tre metri quadrati adottato dalla sentenza Torreggiani risulta di univoca interpretazione né, invero, di facile recepimento [73], non essendo chiarito in maniera assoluta come debbano essere computati i medesimi e se si debba valutare lo spazio contenuto nella cella al lordo dei mobili, definendo così il cd. “spazio vitale”, ovvero al netto degli arredi fissi, indagando dunque il cd. “spazio abitabile”, ovvero ancora calcolando lo “spazio calpestabile”, ossia quello al netto di ogni tipo di ingombro. La giurisprudenza di legittimità, sul tema della compatibilità degli spazi carcerari con i principi espressi nell’art. 3 Cedu, ha elaborato, in conformità alla stessa evoluzione della giurisprudenza convenzionale, non criteri rigidi ma opzioni interpretative connotate da quella necessaria elasticità che consente una globale valutazione delle condizioni generali di detenzione. In particolare, nel nostro Paese, la Corte di cassazione [74] risulta essersi assestata sull’opzione interpretativa che individua «la superficie di tre metri quadrati come c.d. “spazio individuale minimo” [75] di disponibilità del singolo detenuto in cella collettiva e, pertanto, non come rigido criterio dimensionale, quanto, piuttosto, indice di riferimento, a partire dal quale deve effettuarsi ogni altra valutazione necessaria all’accertamento della lesione dei diritti del detenuto». Ebbene, seppure nelle più recenti sentenze di legittimità [76], si sia dato atto del consolidamento di tale principio anche nell’ambito della giurisprudenza convenzionale [77], considerando la pronuncia della Grande Camera nel caso Mursic «espressione di quel diritto convenzionale consolidato, idoneo a generare l’onere di interpretazione adeguatrice in capo al giudice comune italiano» [78], non è difficile riscontrare come, partendo da questo dato assodato, proprio i consiglieri di piazza Cavour si siano discostati dai criteri di calcolo “geometrico” enucleati da quella pronuncia per riconoscere una tutela ancora più ampia al detenuto. La Grande Camera del caso Mursic [79], infatti, con sentenza del 20 ottobre 2016, non ha solo ribadito che, in caso di sovraffollamento grave, la mancanza di spazio in cella costituisce [continua ..]


Criteri di computo dei servizi igienici e problematiche legate al cd. bagno "a vista"

Con riferimento ai criteri di calcolo della fatidica misura dei tre metri quadrati pro capite quale spazio minimo vitale all’interno della cella, autonoma questione ha costituito quella dell’inclusione o meno nel computo, oltre che degli arredi fissi e del letto, anche delle parti destinate ai servizi igienici [102], connotate dal fatto di essere senza dubbio ingombranti, ma anche preordinate al soddisfacimento di esigenze del tutto diverse da quelle di movimento del soggetto recluso, quali l’igiene personale e l’espletamento delle funzioni vitali. In particolare, in caso di mancata separazione dei sanitari dal resto della cella, non sono mancate le pronunce che hanno visto effettuare il computo mediante la sola detrazione delle “installations sanitaires” e, dunque, solamente dei sanitari e non della totalità del locale bagno [103]. Si tratta di un’interpreta­zione che avrebbe potuto condurre alla situazione paradossale di poter detrarre l’intera area destinata ai servizi igienici nell’evenienza più fortunata di chiara distinzione dalla cella e di ritenere, invece, lo spazio immediatamente prospiciente l’ingombro del water e a ridosso del lavandino quale spazio vitale nella ben più gravosa situazione di una cella con bagno “a vista”. Un paradosso, che, nel caso esaminato dalla Corte, è stato scongiurato solo grazie alla considerazione di dati diversi rispetto alle dimensioni della stanza e alla valorizzazione della situazione di contesto, ivi inclusa la significativa mancanza di intimità nell’uso del bagno. Concetti che, talvolta, dovrebbe essere superfluo valorizzare, essendo pacifica la violazione dei principi basilari in materia di riservatezza, pudore e, conseguentemente, della dignità umana in simili circostanze. Ciò detto, si deve del pari dare atto come la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, sia generalmente concorde nel ritenere che lo spazio dedicato ai servizi igienici non debba essere computato nella valutazione dello spazio minimo vitale. In questo caso, ad essere più severa, a danno del detenuto, è invece parte della dottrina, la quale osserva che il fatto che il bagno costituisca “una dotazione dei locali detentivi”, destinata ad un uso libero ed esclusivo da parte dei soggetti assegnati alla camera, potrebbe indurre a ricomprendere [continua ..]


Verso una normazione di possibili "indici indicativi di disumanità"?

La circostanza che la natura casuistica dell’operato della Corte europea non consenta di fornire un catalogo ben definito di condizioni tali da connotare un trattamento “inumano o degradante”, unitamente al fatto che la giurisprudenza interna, sia di merito che di legittimità, non abbiano finora trovato un indirizzo comune quale guida nella propria attività interpretativa ha indotto taluno a domandarsi se ad una tale vaghezza si possa porre rimedio attraverso l’intervento del legislatore. Sul tema dell’opportunità o meno di una precisazione normativa, paiono sussistere pareri discordanti. Se, da una parte, vi sono degli argomenti a sostegno della predisposizione di norme specifiche in subiecta materia, dall’altra militano considerazioni, secondo cui, invece, una catalogazione legislativa non sarebbe accettabile, se non a certe condizioni. Sul primo filone, si inscrive il contenuto della già citata Regola penitenziaria europea [111], n. 18, “Assegnazione e locali di detenzione”. Essa, nell’affermare che «i locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana, e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, in particolare per quanto riguarda la superficie, la cubatura d’aria, l’illuminazione, il riscaldamento e l’areazione», mira chiaramente ad obbligare i governi ad inserire nel diritto interno delle norme specifiche in questo settore. Allo stesso modo in cui il Consiglio d’Europa raccomanda che la legislazione nazionale definisca le condizioni minime richieste e che il diritto interno preveda dei meccanismi che garantiscano il rispetto di queste condizioni minime, anche in caso di sovraffollamento carcerario. Così, si è sostenuto in dottrina che «non possiamo che auspicare un intervento del legislatore che (oltre a rendere vincolanti le indicazioni sulle dimensioni minime delle celle) individui con chiarezza il parametro per il calcolo dello spazio a disposizione dei detenuti. Ciò sarebbe utile, in primo luogo, ad una mappatura precisa della situazione attuale di (sovr)affollamento delle nostre carceri e ad orientare la prassi [continua ..]


NOTE
Fascicolo 6 - 2019