Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Nemo tenetur se detegere e procedimento amministrativo: per la Consulta, la sanzione (di Carlo Bonzano)


La Corte costituzionale ha affermato che il diritto al silenzio opera anche nei procedimenti amministrativi idonei a determinare l’applicazione di una sanzione “punitiva”. La questione risente delle difficoltà legate alla individuazione della matière pénale ed induce a riflettere sul delicato tema della determinazione delle garanzie sostanziali e processuali che debbono ritenersi operative. Si aprono nuovi scenari: l’interprete è chiamato ad individuare criteri che consentano di decifrare la complessa interazione di piani originata dal sistema multilivello delle fonti.

Nemo tenetur se detegere and administrative procedure: for the Constitutional Court, the 'punitive' sanction requires due process of law

The Constitutional Court has stated that the right to silence operates even in administrative proceedings apt to bring about the application of a ʻpunitiveʼ sanction. The issue reflects the difficulties linked to identifying the matière pénale and induces to ponder upon the delicate subject of determining which substantive and procedural guarantees must be regarded as operative. New scenarios open up: the interpreter is called to identify criteria which allow to decipher the complex interaction of planes arising from the multilevel system of sources.

SOMMARIO:

La vicenda - La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti volti ad irrogare sanzioni punitive - "Matière pénale" e garanzie nella giurisprudenza CEDU - Il principio di graduabilità delle garanzie processuali - (Segue): La giurisprudenza europea sul diritto al silenzio - Il consolidamento di nuovi paradigmi nel diritto penale interno: l'estensione di garanzie riconosciute dalla CEDU e dalla Costituzione - (Segue): L'estensione di garanzie riconosciute dalla Costituzione in assenza di specifiche pronunce della CEDU - (Segue): La negazione di garanzie riconosciute dalla Costituzione ed esclusive della sanzione penale - (Segue): Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: l’esigenza di un intervento del legislatore - Le "pregiudiziali" aperture della Consulta sulla tutela del diritto al silenzio. - Procedimento amministrativo e due process of law: uno scenario aperto e suggestivo - NOTE


La vicenda

Con l’ordinanza in commento, la Corte costituzionale è stata chiamata ad affrontare una questione di straordinaria rilevanza, sia per i molteplici profili ad essa sottesi, sia per le ricadute che potrebbero derivarne sul piano sistematico. Nell’ambito di un procedimento amministrativo per abuso di informazioni privilegiate, che vedeva svolgersi in parallelo anche un procedimento penale relativo alle medesime condotte, l’interessato, convocato dalla CONSOB per essere sottoposto ad audizione, dopo aver negato ripetutamente la propria disponibilità a presentarsi, una volta comparso, aveva rifiutato di rilasciare dichiarazioni [1]. Tale condotta, quale mancata ottemperanza nei termini alle richieste della CONSOB, aveva determinato l’irrogazione di una sanzione pecuniaria pari a 50.000 euro (art. 187-quienquiesdecies TUF). Investita del ricorso proposto dall’interessato, la Cassazione civile aveva sollevato un giudizio incidentale di fronte alla Consulta, ritenendo la disciplina impugnata lesiva del diritto al silenzio così come recepito dall’art. 24, comma 2 Cost., dall’art. 6 par. 1 della Convenzione europea (secondo l’esegesi che ne è stata prospettata dalla giurisprudenza sovranazionale), dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ebbene, il Giudice delle leggi, pur ravvisando un contrasto della disciplina con tutti i predetti parametri, ha tuttavia constatato che la normativa denunciata era stata adottata per dare attuazione alla direttiva 2003/6/CE ed al Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, entrambi recanti l’espressa previsione di un obbligo di collaborazione gravante anche sulla persona sottoposta a procedimenti relativi agli abusi di mercato. Sulla base di tale rilievo, si è dunque optato per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: si è chiesto, in buona sostanza, di valutare se le predette disposizioni possano essere interpretate nel senso di consentire agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito per il quale siano previste sanzioni amministrative di natura “punitiva”. In caso di impraticabilità di una simile esegesi, la Consulta ha [continua ..]


La vis espansiva del diritto al silenzio nei procedimenti volti ad irrogare sanzioni punitive

Procedendo con ordine, occorre innanzitutto sottolineare come l’annotata ordinanza abbia tracciato direttrici di straordinaria rilevanza in tema di diritto al silenzio: da un lato, collocandosi in un filone ormai consolidato, la Corte costituzionale ha affermato che lo ius tacendi, pur non espressamente riconosciuto nella Carta fondamentale, costituisce un valore costituzionale in quanto corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa ex art. 24, comma 2 Cost. [3]; da un altro lato, ha precisato che tale diritto deve ritenersi operante in tutti i procedimenti cui possa fare seguito l’applicazione di una sanzione sostanzialmente “punitiva”. É proprio quest’ultima affermazione a destare estremo interesse, giacché la Consulta ha preso una posizione netta sull’applicabilità al procedimento amministrativo quanto meno di una tra le principali garanzie tipiche del rito penale. Più precisamente, è dalla natura del procedimento che dipende l’am­piezza dello spettro dei diritti da riconoscere a chi vi è sottoposto; l’inquadramento ontologico, a sua volta, non è il frutto della qualificazione formale della procedura, bensì di un apprezzamento sostanziale che muove dal diritto inciso. Quest’ultimo si individua valutando il tipo di sanzione irrogata: ove essa abbia carattere “punitivo”, il procedimento deve essere informato al rispetto del canone nemo tenetur se detegere. Com’è evidente, un simile percorso logico costituisce senz’altro applicazione del principio di adeguatezza ed appare destinato a sortire effetti anche al di là della specifica questione affrontata: a venire in gioco, infatti, potrebbe (rectius, dovrebbe) essere non soltanto il diritto al silenzio, ma l’intero compendio di garanzie del giusto processo. D’altronde, l’ordinanza in esame – con tutto il suo carattere innovativo – si colloca a valle di una riflessione inaugurata dalla Corte europea dei diritti umani e ripresa in più occasioni dalla Consulta con riguardo all’ambito applicativo dei capisaldi del diritto penale riconosciuti dalla Convenzione e dalla Carta costituzionale. Ebbene, lo spostamento dell’attenzione sulle garanzie processuali da applicare nei procedimenti lato sensu “punitivi” sembra [continua ..]


"Matière pénale" e garanzie nella giurisprudenza CEDU

Come si è dianzi accennato, la decisione in esame costituisce il punto di arrivo di un percorso già intrapreso dalla stessa Consulta – nel dialogo con la Corte di Strasburgo – allorquando, con precedenti pronunce, aveva affermato che singole garanzie riconosciute nella materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendono anche alle sanzioni di natura punitiva. É noto che il presupposto di un simile approccio deve individuarsi nella consolidata giurisprudenza europea sulla nozione sostanziale di sanzione penale, basata sui parametri enucleati dalla sentenza Engel (c.d. Engel criteria) [4]: si è avvertita la necessità di scongiurare la c.d. truffa delle etichette, evitando che i vasti processi di decriminalizzazione, avviati dagli Stati aderenti fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, potessero avere l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 CEDU [5]. Ai fini dell’applicazione delle garanzie previste dalla Convenzione, sono infatti riconducibili alla materia penale tutte quelle sanzioni che, pur se non qualificate come penali dagli ordinamenti nazionali, sono rivolte alla generalità dei consociati; perseguono uno scopo non meramente risarcitorio, ma repressivo e preventivo; hanno una connotazione afflittiva, potendo raggiungere un rilevante grado di severità (da valutare prendendo in considerazione il massimo previsto per legge e non la sanzione effettivamente comminata). Tali criteri non trovano applicazione in via cumulativa, ma alternativa, sicché è sufficiente l’integrazione anche di uno solo di essi per giungere a considerare come lato sensu “penale” un illecito [6]; al contempo, è stato chiarito che la lieve entità della sanzione non costituisce di per sé un elemento atto a privare la misura della natura penale, qualora sia evidente il carattere deterrente e repressivo della stessa [7]. Movendo dall’apprezzamento della “natura della pena irrogata”, integrato anche da considerazioni di ordine teleologico, la Corte europea ha così prospettato un’interpretazione autonoma della nozione di “accusa penale” [8]; approccio, come noto, fatto proprio anche dalla Corte di Giustizia [9]. Sulla base di tali premesse concettuali, i Giudici [continua ..]


Il principio di graduabilità delle garanzie processuali

Giova rilevare, peraltro, che proprio in tema di tutele processuali, la Grande Camera ha fatto applicazione di un principio di equità alla luce del quale occorre di volta in volta modulare la garanzia in ragione della tipologia del procedimento e della fase dello stesso [18]. La dottrina ha colto in tale assunto la prospettazione di un duplice livello di garanzie: l’uno riservato al “nucleo duro” del diritto penale, l’al­tro a tutto ciò che deve essere considerato come “matière pénale” ai fini delle garanzie convenzionali, ma che sta fuori dal suddetto nucleo, sì da tollerare un certo grado di affievolimento di quelle stesse garanzie [19].


(Segue): La giurisprudenza europea sul diritto al silenzio

Sta di fatto che, come sottolineato dall’ordinanza in commento, nella giurisprudenza europea esistono diversi precedenti specifici proprio sulla operatività della garanzia contro l’autoincriminazione nei procedimenti amministrativi [20]. La Consulta, in particolare, ha richiamato la sentenza J.B. c. Svizzera che aveva accertato la violazione dell’art. 6 CEDU in un caso in cui un soggetto, nei cui confronti era pendente un’indagine amministrativa relativa ad illeciti tributari, aveva reiteratamente omesso di rispondere alle richieste di chiarimenti formulate dall’autorità che stava conducendo l’indagine ed era stato punito per questa sua condotta con sanzioni pecuniarie [21]. Al riguardo era stata decisiva la rilevata natura “punitiva” delle sanzioni applicabili dall’autorità amministrativa alle violazioni tributarie oggetto dell’indagine: secondo la Corte europea, il diritto a non cooperare alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, riconducibile all’art. 6 CEDU, comprende il diritto di chiunque sia sottoposto a un procedimento amministrativo, che potrebbe sfociare nella irrogazione di sanzioni di carattere “punitivo” nei propri confronti, a non essere obbligato a fornire risposte dalle quali potrebbe emergere la propria responsabilità, sotto minaccia di una sanzione in caso di inottemperanza. Dal canto suo, la Corte costituzionale ha rilevato – con un importante passaggio, che rende agevole preconizzare sviluppi futuri dell’orientamento inaugurato dall’annotata ordinanza – come nell’esegesi dei Giudici di Strasburgo la natura punitiva dell’illecito chiamasse in causa «l’intero spettro delle garanzie assicurate dalla CEDU per la materia penale», tra le quali deve ritenersi senz’altro compreso il diritto al silenzio.


Il consolidamento di nuovi paradigmi nel diritto penale interno: l'estensione di garanzie riconosciute dalla CEDU e dalla Costituzione

Così delineato il quadro giurisprudenziale di riferimento, occorre sottolineare come la Consulta si sia finora confrontata esclusivamente con l’applicabilità delle garanzie di tipo penale sostanziale alle sanzioni amministrative “punitive”, assumendo – a partire dal 2009 – una posizione volta ad estendere il presidio costituzionale e convenzionale [22]. Pur nel rispetto delle esigenze di sintesi che si impongono in questa sede, una rapida ricognizione delle principali pronunce sul tema, da un lato, appare funzionale a cogliere lo spunto logico-concettuale al quale la decisione è dichiaratamente ispirata, dall’altro lato, finisce per agevolare l’individuazione del punto di approdo verso il quale potrebbero orientarsi eventuali ulteriori arresti in materia processuale. In tal senso, viene innanzitutto in rilievo la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto applicabile al diritto sanzionatorio amministrativo il principio di irretroattività delle modifiche in peius (art. 25, comma 2, Cost.), interpretato anche alla luce delle statuizioni della Corte europea relative all’art. 7 CEDU [23]: se è vero che la sanzione penale si caratterizza sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale e che la pena possiede un connotato speciale di stigmatizzazione del­l’illecito sul piano etico-sociale, è altrettanto vero che «l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona non può essere sottovalutato: ed è, anzi, andato crescendo nella legislazione più recente» [24]. Non a caso, è risultata emblematica proprio l’elevatissima carica afflittiva che connota l’apparato sanzionatorio relativo agli abusi di mercato: oltre ad essere previste sanzioni pecuniarie elevatissime, operano sanzioni di carattere interdittivo, che limitano fortemente le opzioni professionali (e, dunque, il diritto al lavoro) dei soggetti colpiti e sono destinate a essere applicate congiuntamente alla confisca, diretta e per equivalente, del prodotto e del profitto dell’illecito; al contempo, tutte queste sanzioni sono oggi, almeno di regola, pubblicate – «senza ritardo e per estratto» – sui siti internet della Banca d’Ita­lia o della CONSOB (art. 195-bis d.lgs. n. 58 del 1998), con [continua ..]


(Segue): L'estensione di garanzie riconosciute dalla Costituzione in assenza di specifiche pronunce della CEDU

Altre decisioni della Corte hanno avuto ad oggetto la retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius, terreno reso più impervio dall’assenza di decisioni della Corte europea che abbiano ritenuto estensibile tale principio alle sanzioni amministrative. Sul punto sono due le pronunce costituzionali di rilevo. La prima, più risalente, ha avuto ad oggetto una questione di legittimità dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU) nella parte in cui non era prevista una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi. Pro­prio l’ampiezza degli effetti di una eventuale declaratoria hanno indotto la Consulta ad affermare che l’accoglimento di una questione così generale avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel» [28]. Senza contraddire tale dictum, la recente sentenza n. 63 del 2019 (pronunciata in relazione alle sanzioni per abuso di informazioni privilegiate) ha segnato un punto di svolta: la Consulta, dopo aver richiamato la propria “sofferta” giurisprudenza sui fondamenti e sull’essenza della retroattività in mitius, ha affermato che, rispetto a singole sanzioni amministrative di natura e finalità “punitiva”, il complesso dei princìpi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio della lex mitior – non potrà che estendersi. Per il Giudice delle leggi, da un lato, l’as­senza di precedenti specifici della Corte di Strasburgo con riguardo all’applicabilità di tale canone alle sanzioni punitive non impedisce di far discendere tale conclusione direttamente dalla Convenzione; da un altro lato, l’estensione del predetto canone è conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla base dell’art. 3 Cost. in relazione alle sanzioni penali [29].


(Segue): La negazione di garanzie riconosciute dalla Costituzione ed esclusive della sanzione penale

La questione si complica ove ci si cimenti con quella giurisprudenza costituzionale che si è posta il problema di specifiche garanzie riconosciute esclusivamente dalla Carta fondamentale – vale a dire non anche dalla Convenzione europea – valutandone l’applicabilità alle sanzioni punitive. Un simile approccio emerge per la prima volta nella sentenza n. 49 del 2015, relativa alla confisca urbanistica. Per il rimettente – che prospettava una lettura ampia della sentenza Corte e.d.u., Varvara c. Italia – una volta che la sanzione fosse stata considerata “penale” ai sensi degli Engel criteria, essa avrebbe subìto l’attrazione del diritto penale dello Stato aderente. Così, alle tutele sostanziali assicurate dall’art. 7 CEDU, si sarebbero aggiunte quelle previste dal diritto interno (nella specie, la riserva di competenza del giudice penale in ordine all’applicazione della misura a titolo di “pena”, e perciò solo unitamente alla pronuncia di condanna). Si sarebbe così operata una saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo. Si tratta, come noto, di un’impostazione che la Consulta ha fermamente disatteso: l’autonomia del­l’illecito amministrativo dal diritto penale tocca il più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la «effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri» e corrisponde, sul piano delle garanzie costituzionali, al «principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» [30]. D’altronde, secondo la Corte, la giurisprudenza europea sugli Engel criteria non ha posto in discussione «la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l’ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori reputati più adeguati, e per la natura della sanzione comminata, e per i profili procedimentali semplificati connessi alla prima sede amministrativa di inflizione della sanzione» [31]. Piuttosto, «si è inteso evitare che per tale [continua ..]


(Segue): Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: l’esigenza di un intervento del legislatore

Un esame a parte merita la giurisprudenza costituzionale sul ne bis in idem: anche sul punto, al fine di valutare l’applicabilità di tale criterio – e, ancor prima, onde giungere ad individuare i parametri rilevanti per ritenere rispettato o violato il principio de quo – la Consulta aveva di nuovo preso le mosse dalla natura della sanzione irrogabile all’esito del procedimento amministrativo sull’idem factum. è interessante, infatti, precisare che la materia del ne bis in idem ha costituito nell’ordinamento interno, per così dire, il terreno di transizione per ricavare dall’ontologia della sanzione amministrativa l’applicabi­lità di effetti processuali. Si trattava, come è noto, di individuare correttamente l’ambito applicativo della preclusione nelle ipotesi di c.d. doppio binario sanzionatorio. In sintesi estrema, e come è noto, la questione trae origine dalla nota sentenza Grande Stevens contro Italia, che aveva affermato in maniera intransigente l’applicabilità del principio del ne bis in idem [35]. Successivamente, la sentenza A.B. contro Norvegia ha accolto una diversa impostazione, optando per una valutazione elastica improntata sul criterio della “stretta connessione” (sufficiently close connection in substance and time) e della proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata [36]. Chiamata a confrontare la disciplina dell’art. 649 c.p.p. con l’assetto convenzionale, la Corte costituzionale ha assunto un approccio estremamente cauto [37]. Il Giudice delle leggi ha affermato che, in ambito europeo, si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati ad un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata [38]. Per la Consulta, una regola simile rende meno probabile l’applicazione del ne bis in idem alle ipotesi di doppio binario sanzionatorio, ma non è affatto da escludere che tale applicazione si [continua ..]


Le "pregiudiziali" aperture della Consulta sulla tutela del diritto al silenzio.

Ebbene, l’ordinanza in epigrafe porta avanti la riflessione sul fronte delle garanzie processuali, con la piena consapevolezza della sofferta elaborazione concettuale cui si è dianzi fatto cenno [42]. Quanto ai parametri per l’esame preliminare sulla natura della sanzione, la Corte richiama la propria precedente giurisprudenza in materia di abuso di informazioni privilegiate, peraltro conforme a quanto ritenuto dalla stessa Corte di Giustizia [43]: da un lato, considerato l’elevato ammontare delle sanzioni previste in materia di abuso di informazioni privilegiate, vengono in rilevo le sentenze n. 63 del 2019 e n. 223 del 2018; dall’altro lato, manca un richiamo ex professo a quelle argomentazioni della stessa sentenza n. 63 del 2019 volte a valorizzare la finalità della misura in esame, non potendosi la sanzione pecuniaria de qua considerare come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente votata alla prevenzione di nuovi illeciti. A tal proposito, è appena il caso di precisare che una valutazione teleologica della misura repressiva anche in ragione della tipologia di infrazione cui essa risulta correlata appare senz’altro illuminante nel sindacato sulla natura della sanzione (non a caso, essendo valorizzata, come si è accennato, anche dalla giurisprudenza europea). In effetti, la decisione in commento conclude nel senso che, a fronte di simili scenari punitivi, parrebbe plausibile il riconoscimento, in favore di chi sia incolpato di un tale illecito, «dei medesimi diritti di difesa che la Costituzione italiana riconosce alla persona sospettata di avere commesso un reato», e in particolare del diritto a non essere costretto – sotto minaccia di una pesante sanzione pecuniaria, come quella applicata al ricorrente nel giudizio a quo – a rendere dichiarazioni suscettibili di essere utilizzate successivamente come elementi di prova a proprio carico. La Corte evidenzia altresì il rischio che la “collaborazione coatta” della persona sottoposta al procedimento amministrativo possa contribuire, di fatto, alla formulazione di un’accusa in sede penale, giacché l’abuso di informazioni privilegiate è previsto al tempo stesso come illecito amministrativo (art. 187-bis d.lgs. n. 58 del 1998) e come illecito penale (art. 184 d.lgs. n. 58 del [continua ..]


Procedimento amministrativo e due process of law: uno scenario aperto e suggestivo

Avendo valutato che, ove interpretata nel senso prospettato dal rimettente, la disciplina risulterebbe incompatibile con i parametri interni ed europei, la Consulta ha richiesto alla Corte di Giustizia un supporto esegetico volto ad adeguare alle garanzie stabilite dalla Carta di Nizza la norma sottoposta al vaglio di legittimità (con sospensione del relativo giudizio sino alla definizione di tale questione). Pare lecito immaginare che il Giudice adìto possa condividere il prospettato orientamento garantista, avvalorando la portata espansiva del diritto al silenzio anche nell’ambito di procedure che non comportano l’applicazione di sanzioni penali in senso stretto. Anche al verificarsi di tale ipotesi, tuttavia, le problematiche relative all’essenza del rito amministrativo non potrebbero tout-court dirsi risolte. Da un primo e più immediato angolo di osservazione, merita considerare come il sindacato sulla natura punitiva della sanzione e la valutazione dell’an e del quomodo di operatività delle garanzie di rito postulino un apprezzamento sostanziale, informato al principio di adeguatezza, anche in ragione della compatibilità della singola norma processuale di favore con le peculiarità del procedimento [47]. A ciò si aggiunga che, da un’ulteriore ed ancor più problematica prospettiva, il ragionamento, ove portato alle logiche conseguenze, finisce per lambire anche il tema dei fondamenti epistemologici sottesi alle regole probatorie e di giudizio, nonché quello del catalogo degli strumenti accertativi e della relativa regolamentazione, con ciò aprendo scenari tanto articolati ed indefiniti da imporre una profonda riflessione da parte del legislatore [48]. Quanto è già accaduto nella materia del ne bis in idem, infatti, rende evidente come, quando si ha a che fare con le garanzie processuali, non sia sempre possibile per la Consulta dar vita a letture additive (rectius, suppletive di una cronica stasi nomopoietica) autenticamente risolutive. In tal senso, basti considerare l’ampiezza e la varietà di prospettive che potrebbero profilarsi anche nell’ipotesi in cui – come appare lecito prevedere – la Corte costituzionale dovesse essere portata ad accogliere un’esegesi analoga a quella prospettata in relazione alle garanzie sostanziali: [continua ..]


NOTE
Fascicolo 6 - 2019