Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Diritto di difesa e struttura del processo (di Carla Pansini)


Le recenti novelle legislative sembrano trascurare l’effettività dell’esercizio del diritto di difesa nel contesto del processo penale. L’A. evidenzia quali istituti appaiono in più stridente contrasto con il principio sancito dall’art. 24, comma 2, Cost.

* Il testo riproduce in parte la relazione tenuta a Salerno il 26 Ottobre 2018 nell’ambito del XXXII Convegno dell’Asso­cia­zione degli Studiosi del processo penale “Prof. G. D. Pisapia” dal titolo: Diritti della persona e nuove sfide del processo penale

Right of defense and process structure

The latest legislative amendments seem to undermine the proper exercise of the right of defense in the criminal trial. The A. points out which institutions appear in a stark contrast with the principle laid down in art. 24, co. 2, Cost.

SOMMARIO:

Rilievi preliminari - L’autodifesa - La difesa tecnica - Il dibattimento a distanza - Le intercettazioni - Le impugnazioni - Riflessioni conclusive - NOTE


Rilievi preliminari

A distanza di 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, il principio sancito nell’art. 24, comma 2 Cost., e il dibattito che ruota attorno ad esso non perde di attualità. Anzi, i recenti interventi normativi e quelli ancora in itinere rendono quanto mai opportuna una riflessione sul significato e sulla latitudine di tale diritto della persona. Tuttavia, l’articolazione variegata delle prospettive che il diritto di difesa assume nel processo penale e i “contenuti specifici” del suo concreto esercizio all’interno dei singoli istituti processuali – anche rispetto ai soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda processuale – è di una tale ampiezza da impedire una completa sintesi. L’approccio all’indagine sconta, peraltro, un difetto d’origine dovuto ad un enunciato costituzionale che appare contenutisticamente “vuoto”. Del resto, è nota a tutti la pregevole attività svolta dalla Corte delle leggi, vigente il codice di rito penale del 1930, proprio tesa a rendere concreto e operante, per quanto ciò fosse compatibile con la struttura di quel processo, il precetto costituzionale sul diritto di difesa [1]. Tant’è che, seppure in maniera rapsodica, gli interventi della giurisprudenza costituzionale hanno consentito di individuare dei punti fermi nella morfologia e nella topografia del diritto di difesa. Punti fermi dai quali è inevitabilmente partito il legislatore nel codice del 1988 e che, forse, meritavano maggiore riflessione o, quantomeno, uno sguardo più lungimirante. Il tentativo ermeneutico, allora, deve essere quello di evidenziare alcuni dei punti più critici dell’attuale tessuto normativo rispetto ai differenti modi in cui dovrebbe essere attuato il diritto di difesa e che evidenziano un vulnus dello stesso. Per far ciò occorre partire da una premessa di sistema che, tuttavia, è funzionale alla analisi dei singoli istituti. L’art. 24, comma 2, Cost. è una norma non particolarmente «perspicua» in quanto a fronte della dichiarazione di inviolabilità della difesa, non chiarisce l’essenza del diritto, le garanzie necessarie per la sua attuazione concreta, il tipo di assetto processuale maggiormente idoneo a valorizzare l’esercizio della funzione difensiva [2], né [continua ..]


L’autodifesa

Messa da parte questa premessa metodologia, l’attenzione va spostata sulla disamina critica della di­sciplina positiva. Sotto il profilo morfologico, è noto a tutti come il diritto di difesa si manifesti nell’autodifesa e nella difesa tecnica, ovvero, rispettivamente, in quelle condotte che l’imputato può compiere personalmente e nelle attività che possono essere realizzate dal proprio difensore. L’aspetto dell’autodifesa, intesa come “l’esplicazione più immediata e naturale” del diritto di cui al­l’art. 24, comma 2, Cost. palesa una evoluzione positiva chiara e costante che, quindi, può essere trattata in questa sede in maniera meno approfondita. Valgano, allora, alcuni richiami meramente esemplificativi. Sovviene, innanzitutto, la diatriba sul diritto al silenzio [12], i cui termini sono a tutti noti e su cui sarebbe troppo lungo in questa sede soffermarsi [13]. Non possono, tuttavia, tacersi dubbi residui su alcune situazioni limite: ci si riferisce a determinate tipologie di attività investigative (ad es. l’acquisizione occulta di campioni biologici) che vengono dalla prassi ricondotte nell’alveo delle c.d. “prove atipiche” laddove, invece, si tratta di situazioni che di fatto aggirano le modalità acquisitive tassativamente individuate dal legislatore e che rischiano di vanificare il diritto a rimanere in silenzio, il diritto a non collaborare con il potere giudiziario e il privilegio contro l’autoincriminazione se l’applicazione di questi principi resta circoscritta «all’astratta categoria di appartenenza dell’atto», senza che si verifichi di questo l’effettiva potenzialità autoincriminatrice [14]. In secondo luogo, val la pena di ricordare il diritto all’autodifesa visto sotto il profilo della conoscenza e comprensibilità dell’attività processuale: su questo tema ha fatto molto il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32 e le relative modifiche legislative apportate al codice di rito in recepimento delle Direttive europee n. 64 del 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione degli atti nei procedimenti penali e 2012/13/UE del 22 maggio 2012 sul diritto all’informazione dell’addebito penale. Ancora, senza andare troppo indietro nel tempo, la c.d. “Riforma Orlando” (l. 23 giugno 2017, n. [continua ..]


La difesa tecnica

Ed è proprio su questo secondo aspetto, invece, che si ritiene debba soffermarsi maggiore attenzione perché tocca uno dei profili più critici del diritto di difesa nel processo penale, vale a dire la sua effettività. Sicché, se è vero, come si è affermato in premessa, che la difesa integra un diritto della parte privata e una condizione di regolarità del processo; se è vero che pietra miliare della nostra cultura giuridica è l’affermazione per cui la difesa è anzitutto «funzione dialetticamente contrapposta all’accusa» esercitata dall’imputato e dal suo difensore di fronte a un giudice imparziale e che trova la sua più alta affermazione nel metodo dialettico, quindi, nel contraddittorio, tanto che il modello accusatorio diviene il terreno fertile sul quale possono coesistere entrambi gli aspetti anzidetti, che finiscono per costituire il fondamento della difesa penale intesa appunto come funzione, attività; non va mai, però, dimenticato che il diritto di difesa è anche – e soprattutto – libertà. Allora, è lecito chiedersi quali siano ad oggi gli aspetti critici della disciplina normativa sulla tematica de qua. Sono tanti e sparsi nelle varie fasi e gradi del processo tanto da non consentire un’analisi esaustiva quanto, piuttosto, consigliare una messa a fuoco di quelli che appaiono più critici. Esemplificando, non si può non prendere le mosse dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis c.p.p.). Difatti, il legislatore ha previsto termini per presentare memorie o chiedere l’interrogatorio non parametrati alla complessità delle indagini e, quindi, alla effettiva durata delle stesse (sempre 20 gg.), che di fatto finiscono per svilire e svuotare di contenuti utili le scelte difensive. Altro punto che meriterebbe ampio spazio di riflessione critica è il differimento del colloquio con il difensore, che da eccezione rispetto al diritto di comunicare tempestivamente col difensore è diventata la regola quando si procede per determinati tipi di reati [19]. Ancora, va segnalato l’impedimento del difensore, oggi diventato sempre più una probatio diabolica, pur dovendosi registrare recentemente interessanti aperture garantiste con riguardo al procedimento di sorveglianza [20]. Si [continua ..]


Il dibattimento a distanza

Innanzitutto, l’attuale disciplina del dibattimento a distanza è molto lontana dall’archetipo dibattimentale della prima ora, collegato ad un’idea di unità di luogo della celebrazione del giudizio ma, quel che è peggio, non vi è più traccia dell’humus e dalla ratio originari della disposizione di cui all’art. 146-bis disp. att. c.p.p.: costruire degli argini al c.d. “turismo giudiziario” [21]. Quella norma, difatti, volta a delineare un regime peculiare con riferimento a determinate categorie di reato di maggior allarme sociale, non si limitava ad esigere la sussistenza del presupposto concernente la necessità che il procedimento riguardante taluno dei reati delineati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. avesse come imputato un soggetto sottoposto a detenzione carceraria ma richiedeva altresì la presenza di una delle tre seguenti condizioni, e cioè che: a) sussistessero gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico; b) il dibattimento risultasse di particolare complessità e la partecipazione a distanza fosse ritenuta necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento; c) si trattasse di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. Ancorché nella genericità di tali formulazioni – quantomeno delle prime due –, era necessario un vaglio giurisdizionale, volto ad accertare la sussistenza dei suddetti requisiti. Preme altresì sottolineare come l’originario art. 146-bis disp. att. c.p.p. risultasse in linea con la «logica del “bilanciamento” di interessi contrapposti, secondo un’impostazione volta a fondare proprio su tale dato l’affermazione di piena aderenza ai dettami costituzionali». Si vuol dire che la compressione del diritto di difesa derivante dal ricorso alle videoconferenze poteva dirsi controbilanciata dall’esi­gen­za di tutelare valori di innegabile rilevanza quali quelli dell’incolumità e della sicurezza pubblica, a cui risultavano ispirati i requisiti sub a) e sub c) dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., oltre agli obiettivi di speditezza e di economia processuale – che comunque non dovrebbero mai oscurare il diritto di difesa -, correlati alla volontà di evitare il rischio di scarcerazioni per decorrenza dei termini di [continua ..]


Le intercettazioni

La disciplina delle intercettazioni telefoniche è stata da ultimo riformata dal d.lgs. n. 216 del 2017, con la sua «riscrittura selettiva di alcune disposizioni attraverso la quale pervenire, almeno nelle intenzioni, al duplice obiettivo di tutelare la riservatezza dei terzi estranei al procedimento e di dare regolamentazione normativa all’impiego del captatore informatico» [24]. Si è puntualmente sottolineato come a fronte delle numerose e gravi problematiche sollevate dal­l’im­piego sempre più frequente di tecnologie particolarmente invasive, la recente novella è apparsa da subito poco risolutiva, marginale e, soprattutto, di fatto inidonea a disegnare un accettabile punto di equilibrio fra tutela della riservatezza, libertà di stampa, diritto di cronaca e diritto di difesa. Ed è proprio sotto il profilo della violazione del diritto di difesa che la disciplina riformata evidenzia il suo «difetto genetico»: l’aver operato un indebito bilanciamento tra valori che non si trovano sullo stesso piano, quali il diritto di difesa e la tutela della privacy dei soggetti estranei alla vicenda processuale. Il primo, difatti, è un diritto inviolabile, che non prevede limitazioni ai sensi dell’art. 24, comma 2, Cost., quel «“super” diritto costituzionale che non patisce né limitazioni né bilanciamenti» [25] a differenza di altri diritti costituzionali, quali ad es. la segretezza delle comunicazioni, che viceversa il legislatore può circoscrivere. L’errore macroscopico in cui è incorso il legislatore – sia quello delegato che quello delegante – è stato quello di tentare di bilanciare la tutela della riservatezza di soggetti casualmente coinvolti nelle operazioni intercettive e diritto di difesa dell’imputato. Questo errore di fondo ha, poi, condizionato tutta la disciplina di dettaglio: basti pensare alla scelta di spostare sulla p.g. il compito di selezionare – almeno in prima battuta – le conversazioni processualmente rilevanti da quelle irrilevanti sulle quali il p.m. effettuerà il controllo; e anche il potere interlocutorio della difesa risulta poco praticabile non solo materialmente, in un procedimento applicativo bifasico nel quale appare difficoltosa se non impossibile la materiale conoscenza di tutto il materiale [continua ..]


Le impugnazioni

Altro terreno franoso è quello delle impugnazioni, che meriterebbe una riflessione autonoma. In questa sede, allora, siano consentite solo alcune brevi riflessioni di sistema. A fronte di una innegabile, pregressa situazione di sovraccarico della Corte di cassazione, investita da troppi ricorsi, spesso strumentali, il legislatore del 2017 ha introdotto norme restrittive. L’ammis­sibilità dell’appello, difatti, viene puntualmente vincolata alla specificità dei motivi richiamati nell’im­pu­gnazione (art. 582 c.p.p.), oggi, per un verso, legati ai temi di critica alla sentenza relativamente a quanto deciso o a quanto non deciso con la stessa, per l’altro, alle richieste al giudice del gravame, con riferimento alle argomentazioni in fatto e in diritto. Al concetto di specificità, però, non può essere sotteso un metro valutativo troppo elastico, ma, viceversa, esso dovrebbe essere messo in relazione, per la parte di critica alla sentenza, con il grado di specificità della sua motivazione [31]. Si intende dire che la specificità dei motivi non deve diventare un passepartout, con contenuto dilatante, perché se il giudice ritiene l’impugnazione non sufficientemente mirata, il secondo grado di giudizio non si celebra, limitandosi per questa via il diritto di difesa [32]. Non solo. I termini per proporre impugnazioni non sono parametrati all’effettivo deposito della sentenza da parte del giudice. Che dire, poi, del d.d.l. S. 551 assegnato in data 27 settembre 2018 alla Commissione Giustizia del Senato recante “Abrogazione del divieto di reformatio in peius nel processo d’appello in caso di proposizione dell’impugnazione da parte del solo imputato”, relativamente al quale, nella relazione della Sen. Evangelista si legge che «l’intento del presente disegno di legge è quello di evitare di avvalersi del ricorso in appello in modo strumentale e di consentire al contempo la riduzione del carico dei contenziosi pendenti nelle corti d’appello».


Riflessioni conclusive

Come si è cercato di evidenziare, sono tanti – troppi – gli snodi processuali che meriterebbero una rinnovata riflessione di sistema, per tentare di arginare la deriva che il diritto di cui all’art. 24, comma 2, Cost. sta prendendo. Difatti, avvicinarsi oggi al diritto di difesa con uno sguardo che ricomprenda anche l’orizzonte europeo, porta – con rammarico – a constatare una certa riluttanza nel riconoscerne l’effettività e una tendenza ad avvertire la difesa (tecnica e personale) come ostacolo all’accertamento della verità o strumento dilatorio e orpello inutile finalizzato alla dilatazione dei tempi processuali. È, altresì, evidente la “condanna sociale” del difensore che assume la “difesa dell’ultimo” e la tendenza alla “criminalizzazione” del rapporto avvocato-cliente o meglio difensore-imputato e alla soggettivizzazione del reato. Forse, è arrivato il momento, improcrastinabile, in cui l’Avvocatura e l’Accademia in primis debbano spingere a riaffermare il valore e rivendicare la supremazia del diritto di difesa, inteso come libertà inviolabile del singolo, che non vuol dire superfetazione di garanzie ma superiorità di tale libertà.


NOTE
Fascicolo 2 - 2019