Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Corte europea dei diritti dell'uomo (di Giorgio Crepaldi)


Trattamento carcerario, non conformità del cd «ergastolo ostativo» (Corte e.d.u., 13 giugno 2019, Marcello Viola c. Italia) Nel trittico di decisioni in commento la Corte e.d.u. prende posizione sul divieto di trattamenti inumani e degradanti per soggetti posti, a vario titolo, in stato di detenzione. Il filo conduttore dell’analisi si incentra proprio sul rapporto tra le condizioni detentive ed il prin­ci­pio espresso dalla Convenzione in rapporto a particolarità proprie dei soggetti in vinculis, evidenzian­do come il divieto richiamato, ben lontano da una definizione standard ed omologata, non possa pre­scinde­re da un’attenta analisi del caso concreto e delle peculiarità dei soggetti: nella trattazione un ergastolano, dei minori ed un detenuto patologico. Nella prima sentenza avverso lo Stato italiano, i giudici europei rilevano una violazione dell’articolo 3 Cedu in riferimento alla disciplina nazionale dell’cd. «ergastolo ostativo». In buona sostanza, per i giudici di Strasburgo, non è possibile derivare dall’espressa volontà di non collaborazione con la giustizia, da parte dell’ergastolano per delitti di stampo mafioso, sic et simpliciter, una presunzione di pericolosità sociale del reo, ostativa di taluni benefici penitenziari. La presunzione non può trovare automatica applicazione, soprattutto in presenza di differenti circostanze di segno opposto. La mancanza di cooperazione con gli organi dello Stato, dunque, quando si presenti «impossibile» ed «inesigibile», non sottende alla volontà di non dissociarsi dal sodalizio mafioso, dovendosi dimostrare, per la negazione dei benefici, la reale determinazione del condannato a mantenere contatti con l’as-sociazione criminale. Il caso traeva origine da fatti risalenti ai primi anni ’90, relativi a quattro omicidi commessi tra il 1990 ed il 1992, ricollegati ad una faida tra clan per il controllo di alcuni territori del meridione italiano. In questo primo filone giudiziario, la Corte d’assise di Palmi condannava l’imputato a 15 anni di reclusione per il ruolo di promotore e capo dell’associazione, dando rilievo a circostanze quali «la solidità del legame tra i membri, la presenza di una gerarchia interna, la netta distinzione dei ruoli e dei compiti tra gli affiliati, il controllo del territorio e la presenza di un piano criminale, la pratica dell’ intimidazione attuata  secondo un approccio più moderno, consistente non solo nella minaccia e nelle richieste parassitarie alle aziende ma anche nell’esercitarne il controllo con una partecipazione diretta nell’economia del territorio attraverso l'ac­quisizio­ne effettiva delle attività economiche legali ». Decisione confermata, [continua..]

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Fascicolo 5 - 2019