Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Forma dell'impugnazione e canoni della motivazione (di Cristiana Valentini)


L’Autore esamina i risvolti prodotti dalle più recenti modifiche alla disciplina del rito penale sul sistema delle impugnazioni, correlandole alle nuove regole che impongono al giudice una precisa struttura della motivazione. L’assunto di fondo è quello che nessun possibile miglioramento nel sistema delle impugnazioni può prescindere dal garantire in primis laqualità della decisione giudiziale e, soprattutto, la c.d. fedeltà della motivazione al processo.

* Con il titolo “Forma dell’impugnazione”, il presente lavoro è destinato anche alla pubblicazione nel volume La riforma delle impugnazioni penali. Semplificazione, deflazione, restaurazione, a cura di G. Ranaldi, Pisa University Press, 2019.

Form of the appeals and canons of the grounds of the judgment

The Author examines the consequences of the most recent changes to the discipline of penal procedure regarding appeals, with particular regards to the relationship between rules that govern it and the laws which indicate to the judge how to arrange his decision. The basic assumption is that no possible improvement in the system of appeals can be disregarded by first of all ensuring the quality of the judicial decision and, above all, the c.d. fidelity of the motivation to the trial.

SOMMARIO:

Alcune intentiones legum - Dai motivi d’impugnazione alla sentenza impugnata - Dalla sentenza impugnata ai motivi d’impugnazione - Effetti indiretti: la nullità della motivazione - Conclusioni - NOTE


Alcune intentiones legum

È ben noto come la riforma dell’art. 581 c.p.p. sia stata uno degli snodi centrali delle novità introdotte nel codice di procedura penale con l. 23 giugno 2017, n. 103. La molteplicità di disamine successive – attente a verificare l’impatto del novum sulla delicata materia delle impugnazioni – ha sottolineato il percettibile intento formativo [1] nei confronti degli impugnanti, come pure l’assunto latente di una strumentalizzazione dell’appello a fini puramente dilatori [2]. Non per nulla, del resto, il Presidente Canzio [3], nel resoconto stenografico dell’audizione dinanzi alla Commissione Giustizia, in seduta del 19 febbraio 2015, sottolineava: «Capite che questo processo non riesce a vivere per una serie di ragioni, come lo scarso rilievo dei procedimenti alternativi, le impugnazioni, che sono sicuramente tante, anche perché favorite da quest’idea che si possa comunque pervenire con la lunghezza del processo a certi risultati, e infine anche la scarsità di proposte che semplificano e rendono più appetibili certi meccanismi». Questo leit motiv “educativo” degli impugnanti, troppo spesso propensi a fidare nei vari poteri officiosi del giudice e sulla clemenza delle Corti d’appello, (e quindi ad omettere il dovuto tecnicismo e la dovuta serietà nell’atto d’impugnazione), come pure spesso intenzionati solo a fruire di patologici tempi processuali per giungere alla prescrizione del reato, ricorda la Relazione al Progetto Preliminare del Codice Rocco, con riferimento alla norma omologa [4]. Spiegava allora il Guardasigilli: «dato modo alle parti di presentare gravami seri e meditati, ritenni opportuno di esigere che i motivi di tutte le impugnazioni … debbono essere formulati, a pena d’inam­missibilità, in modo preciso e specifico. Se chi impugna un provvedimento del giudice non sa neppure egli precisamente di cosa intende lamentarsi, è manifesto che nessun valore può essere dato alla sua impugnazione, che deve considerarsi una manifestazione fatua, determinata dal solo intento dilatorio». Con questo spirito, l’art. 211, comma 2, c.p.p. 1930 esigeva che «in ogni caso d’impugnazione i motivi devono essere esposti specificamente a pena d’inammissibilità», così estendendo a [continua ..]


Dai motivi d’impugnazione alla sentenza impugnata

Secondo una nota sintesi di orientamenti espressi dall’esegesi giurisprudenziale dell’art. 211 c.p.p. 1930, l’impugnazione era considerata inammissibile per genericità non solo quando non fossero state enunciate «nemmeno sommariamente le ragioni che giustificano la domanda di annullamento o di riforma», ma anche quando quelle ragioni non possedessero «alcuna specifica relazione con il provvedimento impugnato» [13]. Questa seconda forma di aspecificità, poi, era intesa come una derivante dal fatto che si trattasse di motivi d’impugnazione sì espressi «nella forma di un ragionamento», epperò consistenti «in una formula vaga e indeterminata, genericamente adattabile a qualunque sentenza e specificamente a nessuna» [14]. L’impugnazione, insomma – si diceva – non può essere una disquisizione, sia pure dotta, priva di relazioni con l’interesse dell’impugnante. Nonostante l’elaborazione chiara delle caratteristiche della specificità e nonostante le consonanti  riflessioni espresse sul punto dalla sentenza a Sezioni Unite Galtelli [15], l’interpolazione dell’art. 581 c.p.p. non è stata accompagnata da alcuna novità testuale dedicata alle caratteristiche della specificità stessa. È noto, in effetti, che, in epoca immediatamente antecedente alla riforma e per di più con riferimento alla medesima quale argomento interpretativo, proprio la sentenza Galtelli aveva preso posizione tra due contrapposti orientamenti riscontrabili in seno alla giurisprudenza di legittimità, esigendo che la specificità dei motivi d’impugnazione fosse intesa non solo in senso “intrinseco”, ma anche in senso “estrinseco”, ovvero quale «esplicita correlazione dei motivi … con le ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata» [16]. Il nuovo testo, allora, parrebbe rifiutare l’input delle Sezioni Unite, replicando la scelta precedente di non definire il tipo di specificità voluta dal codice [17]: intrinseca o estrinseca, intesa quest’ultima come opera di critica al provvedimento impugnato e alle ragione ivi espresse in motivazione. Il punto è però che, come del resto espresso dallo stesso legislatore, il mutamento subito [continua ..]


Dalla sentenza impugnata ai motivi d’impugnazione

Si torni alla delibera del CSM; vi leggiamo ancora che «l’onere di specificità, posto a carico dell’im­pu­gnante» è «direttamente proporzionale alla specificità» [38] di cui fa mostra il provvedimento impugnato [39]. E in effetti sempre nella Relazione ministeriale si legge che solo una sentenza rigorosamente conformata allo schema dell’art. 546 c.p.p. è in grado di fondare «l’effettivo paradigma devolutivo sul quale posizionare la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione del giudice dell’im­pu­gna­zione». In buona sostanza, alle parti si richiede esattamente ciò che si pretende dal giudice, ovvero di identificare capi-punti-risultati di prova-criteri di valutazione su tutto l’oggetto della prova stessa, così come testualmente identificato dall’art. 187 c.p.p. Dal giudice si esige che motivi secondo questo iter, dalle parti che precisino quali parti dell’iter motivazionale suddetto siano oggetto di critica e perché. Ma si noti ancora. Così come la riforma dell’art. 546, lett. e), c.p.p. è completamente virata sull’intento di sottolineare il rilievo della prova nel tessuto della motivazione, anche il più significativo dei mutamenti subiti dagli oneri degli impugnati fa mostra di questo obiettivo centrato sulla prova: ogni censura afferente ad essa dovrà essere dedotta secondo le formule dettagliatamente elencate nella lett. b) dell’art. 581 c.p.p., indicando specificamente eventuali prove inesistenti, non acquisite, non valutate o mal valutate. Le fattispecie sottostanti a queste formule sono ben note: anzitutto è enumerato il caso in cui la sentenza si fondi su prove inesistenti in atti, eppur valutate ai fini del decidere, sicché la dialettica giudiziale argomenta attorno a risultati dimostrativi non rintracciabili nel fascicolo o non con il tenore testuale ritenuto dal giudice in sentenza. Vi è poi l’ipotesi della prova richiesta e non acquisita, in chiara eco dell’art. 606, lett. d) c.p.p., come pure quel tipico difetto della motivazione, consistente nella c.d. ignoratio elenchi, dove il giudice omette di valutare prove pur sussistenti nel fascicolo processuale. Infine si parla dell’errore di valutazione della prova, espressione [continua ..]


Effetti indiretti: la nullità della motivazione

Sappiamo quale sia il contesto in cui è nata questa riforma: l’ineffettività dell’opera di accertamento demandata al giudice di primo grado, passa oggi indenne al controllo delle fasi d’impugnazione, con effetti didattici deleteri, perché gli errori non corretti inducono certezza dell’impunità in quella violazione delle regole processuali che è divenuta una costante del processo penale. Si accennava sopra che, in questa prospettiva, assume un certo rilievo la recente delibera CSM del 6 giugno 2018, in cui il linguaggio adoperato non lascia adito a dubbi: esiste una profonda crisi della legalità del procedere, ed uno dei segni più aspri e significativi di questa contingenza sta proprio nella crisi della motivazione. Si è detto a più riprese che il mutato testo dell’art. 546 c.p.p. non porta novità effettive, ogni sua parte essendo già di doveroso rispetto in base ad ulteriori norme codicistiche. Questo, invero, è un dato certo: tanto il riferimento ai “risultati acquisiti e ai criteri adottati”, quanto quello ai vari passaggi su cui il giudice deve soffermarsi come oggetto di prova, rappresentano la riproduzione testuale delle disposizioni generali in materia di prova di cui agli artt. 187 e 192, comma 1, c.p.p. Di qui l’assoluta correttezza del rilievo per cui si tratta sempre e comunque di norme già esistenti e vigenti all’interno dell’ordinamento processuale [44]. Il punto è che proprio la constatazione della ineffettività di queste regole, ad onta della loro pacifica vigenza, ha indotto il legislatore a specificare la sostanza dei doveri motivazionali del giudice, richiamando testualmente giustappunto il contenuto di queste disposizioni davvero centrali in materia di prova. L’obbligo di motivare esige che si motivi sulle risultanze acquisite e sui criteri adottati per valutarle; il perimetro dell’oggetto della prova ex art. 187 è doveroso oggetto di decisione e di motivazione: sono cose ovvie, parrebbe, ma i dati empirici dimostrano che andavano enucleate e ripetute, così come a suo tempo il legislatore ha dovuto esplicitare l’altrettanto ovvio concetto della motivazione autonoma in sede cautelare [45]. Piuttosto è il caso di mettere in rilievo una conseguenza che sembra potersi ipotizzare giusto sulla base della modifica [continua ..]


Conclusioni

Si tratta, certo, di riflessioni iniziali. Occorrerà attendere per vedere se e in che misura la riforma è destinata ad attecchire, per un verso e per l’altro, sentenza e atto d’impugnazione. Il costume italico rifugge gli schemi rigidi come i vincoli e, d’altra parte, i tempi sono percettibilmente propizi alla deregulation, stando ad una giurisprudenza che non sopporta più d’essere imbrigliata dalla legge e ambisce ad esserne “inventrice” [59]; nessuno può dire se sopporterà la linearità espositiva e le chiare esigenze dell’art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p., perché – lo sappiamo – la trasparenza è la virtù più difficile nell’esercizio del potere ed è essa stessa un vincolo per chi è tenuto ad esercitarla [60]. Per le stesse ragioni è consentito restare alla finestra a vedere se effettivamente metterà radici anche la riforma dell’art. 581 c.p.p.: a prescindere dal fatto che è indiscutibilmente legata al novum del­l’art. 546 – sicché l’insuccesso dell’una recherebbe con sé il fallimento dell’altra – occorre notare che anch’es­sa, nonostante le apparenze, costituisce un lacciuolo ai poteri del giudice. Si rifletta su questo aspetto: la concezione della specificità come requisito che esige un atto d’impu­gnazione realmente critico e diverso da una generica disquisizione sul tema giuridico, non è riuscita ad attecchire in quasi cento anni di riforme delle impugnazioni penale, e ad ogni riforma si ripete che occorre mettere un freno alla velleità degli impugnanti, concretizzate nei macrofenomeni dell’impu­gna­zione puramente dilatoria o da quella irrispettosa dei requisiti minimi dell’atto per insipienza del redattore. Ma occorre pure aggiungere, con onestà intellettuale, che se talvolta gli impugnanti – come suol dirsi – ci provano, è perché per anni amplissima parte della giurisprudenza li ha invogliati a farlo, coronando talvolta di successo le operazioni più azzardate e mischiando nel calderone unico del gran carico della giustizia l’impugnazione pretestuosa e quella tecnicamente edotta. Insomma, sembra ovvio – e non lo sottace la sentenza Galtelli – che è stata proprio [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019