Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La legge c.d. spazza corrotti: si dilata ulteriormente la frattura tra l'attuale politica penale, i principi costituzionali e le regole del giusto processo (di Agostino De Caro)


Il contributo esamina le linee della politica legislativa penale espressa, soprattutto, con la recente legge spazza cor­rotti, mettendo in evidenza le numerose e significative criticità che la riforma presenta. L’esame sintetico dei quattro aspetti di maggior impatto sul sistema penale consente di cogliere immediatamente la frattura con i principi fondamentali di molte delle novità introdotte dalla novella.

Spazza-corrotti Act: criminal policy, costitutional rules and equitable trial

The worh analyzes the lines of the criminal legislative policy expressed with the recent law Spazza Corrotti, highlighting the numerous and significant criticalities that the reform presents. The paper consists of concise examination of the four aspects of greatest impact on the penal system and it allows to immediately grasp the fracture with the fundamental principles of many of the novelties introduced by new law.

SOMMARIO:

L’ambiguità della politica penale espressa dalle recenti linee legislative - Le ulteriori incongruenze emergenti dalla prima lettura della legge spazza-corrotti - L’ampliamento del perimetro delle pene accessorie perpetue e l’inasprimento del regime penitenziario per i reati contro la pubblica amministrazione: ovvero, il volto truce dello Stato e la neutralizzazione della funzione rieducativa della pena e del principio di ragionevolezza - L’agente sotto copertura e i rischi di una applicazione troppo ampia - Una pericolosa e incomprensibile amputazione: la eliminazione (improvvisa) della prescrizione dopo la sentenza di primo grado senza interventi sulla ragionevole durata del processo - NOTE


L’ambiguità della politica penale espressa dalle recenti linee legislative

L’insieme delle linee legislative, emergenti dai recenti interventi sul sistema penale, consente immediatamente di cogliere un disegno nebuloso ed incerto nella sua trama essenziale. L’esame delle ultime novelle normative e più in generale delle scelte del legislatore autorizza, infatti, oggettive (ma anche significative) perplessità; e, in verità, ancora meno rassicuranti appaiono le prospettive, poste le dichiarazioni del guardasigilli (del tipo: entro giugno riformeremo il processo penale) e le proposte sul tappeto (come l’e­liminazione del divieto di reformatio in peius caldeggiata dall’associazione nazionale magistrati). Il prodotto legislativo appare scadente ed è la conseguenza non solo della precaria sintassi giuridica utilizzata. Il modo con il quale vengono confezionate le leggi (anche quelle delicate, come le norme penali o processuali) appare spesso singolare. Sul piano del metodo, ad esempio, è veramente difficile comprendere e giustificare il mancato coinvolgimento preventivo dell’accademia, dell’avvocatura e della magistratura nell’individuazione delle modifiche proposte e spesso approvate attraverso il voto di fiducia [1], senza, cioè, consentire al Parlamento un sereno e proficuo dibattito e senza, soprattutto, valutare gli interventi sul testo, suggeriti, peraltro, da tutti i protagonisti del dibattito scientifico. O, ancor peggio, utilizzare la mera finzione di un coinvolgimento attraverso audizioni o pareri puntualmente disattesi. Sfugge, in verità, la ragion d’essere di un simile comportamento, anche a chi vorrebbe comprenderne le motivazioni senza rifugiarsi esclusivamente nei luoghi comuni che disegnano una maggioranza pro­iettata solo a parlare alla “pancia” ed alla paura del paese, per inseguire vantaggi elettorali (invero, futuri e incerti) fondati sulle inquietudini della gente, piuttosto che sulla ricerca di reali soluzioni dei problemi. Il contenuto del prodotto è, ovviamente, sempre conseguenza dello spessore del dibattito e della capacità di ascolto espressa dal legislatore. Rappresentano bene lo scenario descritto il recentissimo decreto sicurezze il tentativo (non ancora concluso) di escludere il ricorso al rito abbreviato per i reati punti con la pena dell’er­ga­stolo [2]: su entrambi, si sono addensati non pochi rilievi di [continua ..]


Le ulteriori incongruenze emergenti dalla prima lettura della legge spazza-corrotti

Nella stessa direzione ontologica, si pone la recente legge c.d. “spazza corrotti” [3]. Essa propone ulteriori e, se possibile, maggiori dubbi di costituzionalità ed in ogni caso aspetti francamente incomprensibili che rischiano di determinare un sensibile arretramento del nostro rito penale rispetto alle regole del giusto processo. I tratti caratteristici della nuova legge sono, sul piano penalistico, collocabili in quattro ambiti principali, tutti espressione di logiche non condivisibili e, per certi versi, pericolose: l’aumento della durata delle pene ed in particolare di quelle accessorie e la loro parziale esclusione dagli effetti della sospensione condizionale della pena e della riabilitazione; la modifica della disciplina delle misure alternative alla detenzione per i più gravi delitti contro la pubblica amministrazione, attuata attraverso l’amplia­mento (illogico e immotivato) del perimetro entro il quale opera il divieto previsto dall’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario; la modifica della disciplina della prescrizione; l’inserimento dell’agente sotto copertura per un’ampia serie di reati, tra cui quelli contro la pubblica amministrazione. A tali principali segmenti, si aggiungono altre modifiche, pur significative (come quelle sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche, l’aumento delle pene per talune fattispecie o l’introduzione della collaborazione per alcuni reati contro la pubblica amministrazione), ma di minore allarme sul piano del rispetto dei principi consolidati. Ovviamente, non mancano novità positive: vale la pena di osservare, però, che esse riguardano profili sui quali vi era larga condivisione tra gli studiosi delle rispettive materie. Oltre al marcato disinteresse per i rilievi critici proposti da quasi tutti i protagonisti del processo (gli avvocati penalisti, ad esempio, hanno proclamato, senza alcun esito, varie astensioni dalle udienze, protestando soprattutto per la modifica della prescrizione), risulta evidente la siderale distanza di alcune manipolazioni normative con l’impianto della Costituzione, della Convenzione europea, ma anche con la ragionevolezza minima che dovrebbe guidare una politica criminale degna di tal nome.


L’ampliamento del perimetro delle pene accessorie perpetue e l’inasprimento del regime penitenziario per i reati contro la pubblica amministrazione: ovvero, il volto truce dello Stato e la neutralizzazione della funzione rieducativa della pena e del principio di ragionevolezza

Il primo profilo critico coinvolge sicuramente la nuova perimetrazione delle pene accessorie. Sul punto, basta prende in considerazione la modifica dell’art. 317-bis c.p. che ha previsto, per le condanne ad una pena superiore a due anni di reclusione per i reati di peculato, corruzione, concussione, indebita induzione a dare o promettere utilità, traffico di influenze illecite, l’applicazione delle pene accessorie “perpetue” dell’interdizione dai pubblici uffici e del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione. La misura è stata propagandata, utilizzando uno spot efficace ma giuridicamente non corretto, come daspo ai corrotti. La novella è francamente sconcertante per la semplice ragione che si pone in aperto e macroscopico contrasto col principio di proporzionalità delle pene (principali ed accessorie) e con il correlato (fondamentale) principio della finalità di rieducazione della sanzione penale, al primo inscindibilmente connesso. Essa, peraltro, si inserisce nel contesto ordinamentale determinando non solo una significativa frizione con l’assetto costituzionale, ma anche nel più completo disinteresse degli orientamenti recentissimi espressi dal giudice delle leggi. La Corte costituzionale [4] ha, infatti, poco tempo prima dell’appro­vazione definitiva della legge “spazza corrotti”, dichiarato illegittimo l’art. 216, ult. comma, del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, nella parte in cui prevede, per i reati di bancarotta fraudolente, l’applicazione automatica delle pene accessorie interdittive “per la durata di dieci anni”. La Consulta, pur ritenendo possibile la previsione di pene accessorie di durata diversa e maggiore rispetto alla pena principale, ha evidenziato come “essenziale a garantire la compatibilità delle pene accessorie di natura interdittiva con il volto costituzionale della sanzione penale è, infatti, che esse non risultino manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di rieducazione del reo imposto dall’art. 27 della Costituzione”. La ragion d’esser sulla quale fonda la declaratoria di illegittimità consiste “non già in via generale nel difetto di proporzionalità della durata decennale delle pene accessorie” per tutte le ipotesi di [continua ..]


L’agente sotto copertura e i rischi di una applicazione troppo ampia

Una particolare attenzione merita l’introduzione dell’agente sotto copertura nei reati contro la pubblica amministrazione. La novella è stata introdotta ampliando, nell’ambito della lettera a) dell’articolo 9, comma 1, legge 16 marzo 2006, n. 146, il perimetro delle fattispecie per cui tale speciale strumento investigativo è consentito [7] e le condotte scriminate. In questa direzione, è stata data sostanziale attuazione alla legge 3 agosto 2009, n. 116 di ratifica della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4 (c.d. Convenzione di Merida), in materia di operazioni sotto copertura. Il Consiglio superiore della magistratura, dopo aver dato conto dell’orientamento della Corte EDU e della esigenza di estrema cautela nell’utilizzo dell’agente sotto copertura [8], ha evidenziato i rischi che una tale estensione potrà determinare e la necessità di evitare che l’agente sotto copertura possa addirittura “istigare o determinare i soggetti sotto indagine al compimento di atti corruttivi che, in mancanza dell’intervento dell’agente, non sarebbero stati posti in essere” [9]. Il monito è quanto mai opportuno per evitare che, nella prassi, la nuova figura possa assumere la fisionomia dell’agente provocatore, capace di “creare il reato”, determinandolo, e non solo di acquisirne la prova della sua realizzazione. Il pericolo è reale. È indiscutibile l’utilità dell’agente sotto copertura nell’ambito del contrasto alle organizzazione criminali, dove è necessario operare all’interno della struttura per raccogliere le prove dell’illecito. In questo caso, anche se la delicatezza dello strumento investigativo impone cautela nell’u­ti­lizzo del meccanismo, è riconoscibile la sua ragion d’essere proprio nella necessità di penetrazione nei meccanismi riservati o segreti della societascriminale. L’occasione che, in genere, lo giustifica è ancorata saldamente ad un’opportunità investigativa. Nel caso tipico dei reati contro la pubblica amministrazione è, invece, difficile comprenderne la funzione oggettiva, senza correre il rischio che sia l’agente stesso a indurre il [continua ..]


Una pericolosa e incomprensibile amputazione: la eliminazione (improvvisa) della prescrizione dopo la sentenza di primo grado senza interventi sulla ragionevole durata del processo

L’aspetto critico più evidente, sul quale maggiore è stato il dissenso dell’accademia e dell’avvocatura riguarda, però, la frettolosa (e, per certi versi, stravagante) modifica della prescrizione, dovuta ad un “improvviso” emendamento inserito nel disegno di legge sulla corruzione. La novella, in particolare, prevede che il decorso della prescrizione si sospenda (ndr: cessi definitivamente) con la sentenza di primo grado, qualunque sia l’esito. Si parla impropriamente di sospensione della prescrizione, ma in realtà si tratta della sua definitiva amputazione successiva alla prima decisione. È stato evidenziato l’errore terminologico, dovendo, si dice, più correttamente, parlarsi di interruzione del suo decorso. In realtà, anche il richiamo all’interruzione è improprio. Nel sistema penalistico vigente, la sospensione presuppone una parentesi del decorso della prescrizione che, dopo la cessazione della causa di sospensione, continua il suo percorso (art. 159, ult. comma, c.p.); la interruzione, invece, comporta che la prescrizione interrotta inizia, dopo l’evento interruttivo, nuovamente a decorrere (art. 160, comma 3, c.p.). La norma di nuovo conio, invece, sotto le spoglie della sospensione, erroneamente evocata, nasconde la sostanziale eliminazione della prescrizione dopo un certo evento procedurale (scelto, peraltro, in modo abbastanza casuale). Il tema è spinoso. Indubbiamente, la disciplina della prescrizione – cioè del rapporto tra decorso del tempo e possibilità di condannare – crea, nella versione precedente alla modifica in esame e ancora vigente, una oggettiva insoddisfazione e più di una perplessità [10]; ma non sono maggiori di quelle generate dalla più ampia e complessiva correlazione tra tempo e celebrazione del processo [11]. I due ambiti non possono essere scissi senza creare un cortocircuito e senza contribuire a stressare, nella sostanza, l’unica previsione costituzionale collegata allo specifico tema: la ragionevole durata del processo (art. 111, com­ma 2, Cost.). È fin troppo noto agli operatori del diritto, infatti, che l’incombenza della prescrizione rappresenta l’elemento essenziale per accelerare la celebrazione dei processi con imputati liberi. Ed anche se non può sostenersi, in astratto, che la disciplina della [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019