Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Perquisizioni domiciliari e art. 8 CEDU: la Corte europea censura la mancanza di un 'controllo effettivo' sulla necessità dell'ingerenza (di Marco Torre)


Con la sentenza in commento la Corte europea censura le norme nazionali che disciplinano le perquisizioni non seguite da sequestro probatorio eseguite all’interno del domicilio privato. In particolare, il Collegio ritiene che in tal caso le garanzie procedurali previste dalla legislazione italiana non siano sufficienti ad evitare il rischio di abuso di potere da parte delle autorità incaricate dell’indagine penale, con la conseguenza che la misura istruttoria, non essendo compatibile con i principi propri di uno Stato di diritto, si pone in contrasto con l’art. 8 CEDU.

Home search and par. 8 ECHR: the European Court criticizes the lack of 'effective control' for interference

The European Court criticizes the national rules governing searches without evidential seizure in private home. In particular, the Court considers that in this case the procedural guarantees provided by the Italian legislation are not sufficient to avoid the risk of abuse of power by the authorities of the criminal investigation, with the consequence that the investigation measure, not being compatible with the principles of a rule of law, is in contrast with the par. 8 ECHR.

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SOMMARIO:

La questione - Le perquisizioni domiciliari nel codice di rito - Attività investigativa illegittima e tutela extra codicem - L’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - Sulla legittimazione attiva a disporre perquisizioni - Sull’autonoma impugnabilità del decreto di perquisizione - Considerazioni conclusive - NOTE


La questione

La vicenda nasce da una perquisizione domiciliare effettuata dalla Guardia di Finanza nei confronti di un soggetto avente doppia cittadinanza, italiana e tedesca, residente in Germania ed iscritto al­l’AIRE [1], ma proprietario di un appartamento in Italia. Nel 2010, il ricorrente (M.B.) fu oggetto di una verifica fiscale da parte delle autorità italiane che ipotizzarono una evasione sia delle imposte sul reddito che dell’IVA, realizzata mediante cd. esterovestizione (fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale). A seguito dell’apertura di un fascicolo processuale per evasione fiscale, il 13 luglio 2010 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Mantova emise un decreto di perquisizione domiciliare finalizzato al sequestro di documenti contabili eventualmente rinvenibili presso l’abitazione italiana o all’in­terno dell’autoveicolo nella disponibilità del soggetto indagato. Il 6 agosto 2010, l’esecuzione della misura istruttoria – effettuata in assenza dell’indagato, ma in presenza del padre di quest’ultimo – ebbe esito negativo, poiché la polizia giudiziaria delegata non sequestrò alcunché. Il giorno successivo, l’indagato presentò ricorso per cassazione avverso il decreto di perquisizione datato 13 luglio 2010, sostenendone l’illegittimità, con conseguente ingiustificata violazione del diritto al rispetto del suo domicilio e della sua vita privata poiché, secondo il ricorrente, la verifica della sua situazione fiscale avrebbe potuto essere compiuta con altri mezzi, meno invasivi e più proporzionati allo scopo. Nel marzo 2011 la Corte di cassazione dichiarò inammissibile il ricorso sulla base delle argomentazioni che seguono. In generale, «il decreto di perquisizione domiciliare del pubblico ministero, non seguito da sequestro, non è autonomamente impugnabile, sia per il principio della tassatività dei mezzi di impugnazione, sia perché la perquisizione come mera operazione si esaurisce nel momento in cui viene compiuta e non può essere messa nel nulla». In particolare, chiarisce la Corte, non è possibile ricorrere né all’istituto del riesame, ex art. 257 c.p.p., il quale si riferisce esclusivamente al sequestro probatorio ed a quello preventivo, né al ricorso diretto in [continua ..]


Le perquisizioni domiciliari nel codice di rito

Nel nostro sistema processuale, la perquisizione locale (art. 247 c.p.p.) è un mezzo di ricerca della prova tipico che consiste nell’attività di perlustrazione di un determinato luogo volta a rinvenire e sequestrare il corpo del reato o le cose ad esso pertinenti. Quanto alle modalità di svolgimento, la perquisizione non si limita alla mera osservazione, sostanziandosi piuttosto in un’attività che prevede il contatto materiale con le cose [3]. Ciò implica, evidentemente, la facoltà di rimuovere ostacoli, spostare cose, cautelare oggetti, e, più in generale, l’esecuzione di qualsiasi operazione si renda necessaria per il raggiungimento dello scopo della ricerca, ossia l’assicurazione degli elementi di prova. Qualora effettuata nel domicilio [4], il necessario bilanciamento tra esigenze investigative e tutela dell’intimità della propria abitazione impone, di regola, che la perquisizione non possa essere iniziata prima delle ore sette o dopo le ore venti. Eccezionalmente, l’autorità giudiziaria può derogarvi, motivando per iscritto l’urgenza che giustifica l’intervento al di fuori dei limiti temporali fissati per legge (art. 251 c.p.p.). La regolamentazione di tale mezzo di ricerca della prova poggia su due pilastri fondamentali: regime autorizzatorio e formalità procedurali. Quanto al primo aspetto, nel nostro ordinamento la perquisizione è disposta dall’autorità giudiziaria con decreto che deve motivare il fondato motivo di ritenere che le cose da assicurare al processo si trovino proprio nel luogo da perquisire. In particolare, nel corso delle indagini preliminari la perquisizione è disposta dal pubblico ministero (art. 247, comma 1, c.p.p.), mentre nelle successive fasi dell’udienza preliminare e del dibattimento, ove ritenuto necessario, la medesima misura istruttoria è ordinata dal giudice che procede. Eccezionalmente la polizia giudiziaria può procedere di iniziativa, ma solo nelle ipotesi tassative di flagranza del reato ed evasione (art. 352 c.p.p.) [5]. L’onere motivazionale si può considerare assolto qualora il provvedimento di autorizzazione contenga il tema della ricerca, ossia il contesto concreto e specifico nel quale si colloca il mezzo coattivo di ricerca della prova [6]. Quanto al secondo aspetto, nel compiere l’attività di [continua ..]


Attività investigativa illegittima e tutela extra codicem

Si può ovviamente affermare che anche un’attività investigativa infruttuosa sul piano processuale può essere dannosa. Così anche una perquisizione non seguita da sequestro, in quanto incidente su beni costituzionalmente rilevanti, come la tutela del domicilio e della riservatezza, è suscettibile di provocare nocumento per chi la subisce. Il punto è che in assenza di una qualche utilità processuale (derivante, per esempio, dal mancato sequestro), nel nostro ordinamento un’eventuale doglianza che riguardi la verifica della legittimità in sé della perquisizione non trova spazio all’interno del codice di rito, ma è riconosciuta extra codicem, dalla discussa legge 13 aprile 1988, n. 117 (c.d. legge Vassalli), sul risarcimento dei danni cagionati nell’eser­cizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati [8]. In particolare, secondo l’art. 2, comma 1, della legge, nella versione in vigore all’epoca dei fatti, chiun­que avesse subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia poteva agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che fossero derivati da privazione della libertà personale [9]. Tuttavia, non dava luogo ad alcuna responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove. Costituivano, invece, ipotesi risarcibili per colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione [10]. Pur non essendo oggetto di specifica censura da parte della sentenza in commento, occorre evidenziare che, oltre alla tutela risarcitoria offerta dalla legge Vassalli, colui il quale si senta leso da [continua ..]


L’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Chiamata a pronunciarsi sulla questione in esame, la Corte europea ritiene la tutela extra codicem sopra descritta insufficiente a garantire il rispetto della vita privata e familiare secondo gli standard riconosciuti dall’art. 8 della Convenzione. Come noto, la disposizione richiamata prevede come ogni persona abbia diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può quindi esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, sia necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Considerato che la perquisizione locale costituisce senza dubbio una “ingerenza delle autorità pubbliche” nel “diritto alla vita privata” del soggetto destinatario dalla misura istruttoria, la Corte verifica il rispetto, da parte della normativa italiana, dei requisiti previsti dall’art. 8 CEDU affinché tale ingerenza possa essere ritenuta legittima alla luce dei parametri espressamente indicati: la circostanza che la misura sia “prevista dalla legge” e sia motivata da uno o più scopi legittimi, nonché “necessaria in una società democratica”. Quanto al secondo presupposto, peraltro nemmeno considerato dalla Corte nel caso di specie, nulla quaestio: nel nostro sistema processuale la perquisizione, in quanto mezzo di ricerca della prova, è finalizzata all’acquisizione di cose materiali dotate di attitudine probatoria, con la conseguenza che della sua “necessità” (nel senso di cui all’art. 8 CEDU) non vi è ragione di dubitare. Riguardo al primo presupposto, invece, la conclusione cui giunge la Corte europea è dirompente per il nostro ordinamento. Secondo una giurisprudenza consolidata [12], l’espressione “prevista dalla legge” non equivale ad un mero rinvio al principio della riserva di legge [13], ma implica che la legislazione nazionale debba rispettare i seguenti requisiti: una sufficiente accessibilità e prevedibilità e la compatibilità [continua ..]


Sulla legittimazione attiva a disporre perquisizioni

La sentenza in commento offre all’interprete un’ottima occasione per riflettere su due questioni fondamentali che riguardano la disciplina nazionale delle perquisizioni: la legittimazione a disporre misure istruttorie coercitive; l’autonoma impugnabilità di tali misure. Il nostro legislatore attribuisce la competenza a disporre le perquisizioni all’autorità giudiziaria (art. 247, comma 3 c.p.p.). Come noto, l’utilizzo di tale espressione consente di ritenere legittimato a disporre tali misure istruttorie coercitive sia il pubblico ministero, sia il giudice [16]: la competenza all’uno o all’altro dipende dalla fase processuale nella quale si rende necessario procedere all’esecuzione della misura [17]. Nella fase preprocessuale, la legittimazione attiva spetta di regola al pubblico ministero [18], dominus delle indagini, ed è funzionale alla ricerca ed all’acquisizione di quegli elementi che potrebbero essere determinanti per la sua decisione in ordine all’esercizio dell’azione penale. Tale scelta legislativa appare coerente con la struttura del nostro sistema processuale, tendenzialmente accusatorio, dove alla separazione delle fasi corrisponde non soltanto una diversa utilizzabilità degli elementi probatori, ma anche una differente funzione degli organi giudiziari. Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero ha il potere-dovere di ricercare le prove (senza tuttavia avere il potere di assumerle). Per svolgere tale funzione, egli ha la facoltà di disporre misure istruttorie caratterizzate da garanzie differenti. In particolare, quando la fonte di prova è la “persona”, la eventuale misura coattiva è disposta (di regola) dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero. Quando, invece, la fonte di prova è una “cosa” (seppur rinvenibile su una determinata persona o all’interno di un determinato domicilio), il magistrato della pubblica accusa può agire autonomamente, disponendo perquisizioni, sequestri e accertamenti tecnici. Al differente “oggetto” della misura istruttoria corrisponde un diverso sistema di controllo: il necessario intervento del giudice è imposto nelle ipotesi di atti in grado di incidere su diritti fondamentali della persona; nel caso di attività prive di tale caratteristica, ci si [continua ..]


Sull’autonoma impugnabilità del decreto di perquisizione

Il tema dell’impugnabilità del provvedimento di perquisizione – sia esso emesso direttamente dal magistrato, sia dallo stesso adottato in sede di convalida – occupa da tempo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Due le opzioni fondamentali: ammissibilità di una richiesta di riesame ex art. 257 c.p.p.; ricorribilità diretta per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost. Contro la proponibilità della richiesta di riesame di un provvedimento di perquisizione militano sia il principio di tassatività delle impugnazioni (art. 568, comma 1 c.p.p.), sia la mancanza dell’interesse ad impugnare (art. 568, comma 4 c.p.p.) [20]. Innanzitutto, l’art. 257 c.p.p. consente il riesame del solo decreto di sequestro, con la conseguenza che in ipotesi di c.d. “perquisizione negativa” tale gravame non dovrebbe essere esperibile [21]. Sulla questione si è registrato un contrasto giurisprudenziale tra chi negava tout court l’ammissibilità del mezzo di impugnazione de quo [22] e chi, invece, ne ammetteva il ricorso a condizione però che alla perquisizione avesse fatto seguito comunque un sequestro [23]. Come si può notare, neanche il meno rigoroso di tali orientamenti [24] ammette l’autonoma censura della perquisizione: «il tribunale della libertà può estendere il controllo anche al decreto di perquisizione [solo] quando questo è inserito, insieme al decreto di sequestro, in un unico contesto e sempre che l’indagine sul primo sia strumentale all’accertamento circa la legittimità del secondo» [25]. Inoltre, l’eventuale richiesta di riesame di un provvedimento di perquisizione (alla quale, ovviamente, non sia seguito un sequestro) sarebbe priva di quel concreto interesse al gravame, prescritto ex art. 568, comma 4 c.p.p. quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione e consistente nella spendibilità processuale dell’eventuale decisione giurisdizionale [26]. Come noto, l’art. 568, comma 2 c.p.p., in linea con il principio ex art. 111, comma 7, Cost., prevede che sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale. Ergo, l’ammissibilità del [continua ..]


Considerazioni conclusive

A fronte della ormai consolidata interpretazione che la Corte europea ha fornito dell’art. 8 della Convenzione, l’attuale disciplina nazionale delle perquisizioni appare deficitaria sotto l’analizzato duplice profilo del regime di autorizzazione e del diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale (art. 13 Convenzione). Il primo tema non è dirimente nel caso che ci occupa, poiché, come chiarito dalla stessa Corte, l’at­tuale carenza di un previo ed effettivo controllo giurisdizionale ex ante sulla necessità di una perquisizione (personale o locale) ben può essere compensata mediante idonee garanzie procedurali da esercitarsi ex post. Questo secondo profilo, invece, merita maggiore attenzione. È pacifico, infatti, che la sentenza in commento sia destinata a produrre nel nostro sistema processuale effetti vincolanti che vanno oltre il singolo caso deciso dai giudici di Strasburgo. Le soluzioni astrattamente prospettabili sono due: una modifica legislativa in grado di evitare ulteriori censure; una interpretazione “convenzionalmente orien­tata” delle norme del codice di rito in tema di impugnabilità delle misure istruttorie [32]. Ebbene, nelle more delle decisioni del legislatore, il giudice italiano deve interpretare la norma nazionale in modo conforme alla CEDU, così come interpretata dalla Corte europea (art. 32, §. 1, CEDU). Il confine interno – limite massimo di tale attività ermeneutica – è rappresentato dalla analogia legis, mentre il confine esterno è costituito dalla “lettera” della legge interna [33]. Qualora quest’ultimo limite non consenta di superare il contrasto tra la normativa nazionale ed i principi della CEDU, il giudice italiano non ha il potere di disapplicare la norma interna, dovendo invece investire della questione la Corte costituzionale [34]. Con riferimento al caso de quo, una interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata in grado di allineare il nostro sistema processuale ai principi desumibili ex art. 8 CEDU è possibile facendo leva sull’art. 111, comma 7, Cost., così da superare il tradizionale orientamento negativo della giurisprudenza di legittimità in merito all’autonoma impugnabilità del decreto di perquisizione domiciliare ed estendere a [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019