Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Privo di ragionevole giustificazione, incongruo e inutile: censurato dalla Consulta il divieto di cuocere cibi previsto per i detenuti sottoposti al regime del 'carcere duro' (di Lucia Parlato)


La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen., nella parte in cui imponeva l’adozione di tutte le misure necessarie per impedire ai detenuti in regime differenziato la cottura dei cibi. Basata sui principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost., la decisione assume un’importanza che trascende il rilievo della specifica questione affrontata: soprattutto in quanto riconosce che anche chi si trovi ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ord. pen. debba mantenere l’accesso a “piccoli gesti di normalità quotidiana”, particolarmente preziosi perché costituiscono gli “ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”.

Without reasonable justification, disproportionate and useless: the prohibition for detainees under 'hard penitentiary regime' to cook food has been struck by the Constitutional Court

Constitutional Court declared unconstitutional art. 41-bis, paragraph 2-quater, lett. f), ord. pen., where requires the adoption of all the necessary measures to prevent detainees, under differential rule system, from cooking food. Based on the principles set out in articles 3 and 27 of the Constitution, the decision is increasingly important as it goes beyond the relevance of the specifically addressed issue: especially as it recognizes that even those who are restricted, according to art. 41-bis ord. pen., shall keep access to “small acts of daily life”, considered particularly precious as they represent the “last residues within which individual freedom can expand”.

SOMMARIO:

Il divieto di cottura dei cibi: le fonti di riferimento ed i rilievi critici già emersi - I diversi dubbi sollevati e la loro rispettiva sorte - Lo sfondo della decisione: la controversa ratio del regime differenziato - Segue: e le criticità di un controllo di congruità delle restrizioni - Rilievi conclusivi - NOTE


Il divieto di cottura dei cibi: le fonti di riferimento ed i rilievi critici già emersi

L’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, nonché in materia di esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale (l. 26 luglio 1975, n. 354, di seguito: ord. pen.), è tornato al vaglio della Consulta, chiamata ancora una volta a verificare la denunciata incostituzionalità delle norme che impongono restrizioni nel contesto del regime del c.d. carcere duro [1]. Il giudice delle leggi si è pronunciato sull’interessante questione di legittimità costituzionale – sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto [2] – riguardante l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen., nella parte in cui la disposizione imponeva l’adozione di ogni misura necessaria ad assicurare l’”assoluta impossibilità” per i detenuti in regime differenziato di “cuocere cibi”. Nel ritenere fondata la censura, rispetto ad alcuni tra i parametri proposti, la Corte ha svolto argomentazioni destinate ad assumere più ampio rilievo, perché capaci di proiettarsi sull’intero sistema relativo al regime di cui al richiamato articolo[3]. Prima di esaminare la decisione, può essere utile sia individuare i dati normativi da considerare, sia rammentare per cenni come le critiche avanzate dal giudice di Spoleto non fossero del tutto “inedite”. Sono diverse le disposizioni che entrano in gioco rispetto al predetto divieto, per il quale ai detenuti sottoposti al regime ex art. 41-bis ord. pen. – più precisamente – non è permesso cuocere del cibo, pur potendo essi utilizzare un fornello personale al fine di preparare bevande, oppure riscaldare liquidi o alimenti già cotti. Anzitutto, è d’obbligo allargare per un momento l’angolo visuale, in modo da operare un preliminare inquadramento della fattispecie di fondo alla quale ci si riferisce. Il regime particolare di cui al comma 2 dell’art. 41-bis ord. pen. [4] – introdotto nel 1992 [5] e più volte soggetto a modifiche – è caratterizzato da una drastica riduzione delle opportunità di contatto della persona detenuta con il “mondo libero” [6]. Tramite questa disposizione, l’ordinamento contempla un modello di detenzione differenziato da quello previsto per la [continua ..]


I diversi dubbi sollevati e la loro rispettiva sorte

Nel proporre la censura dell’art. 41-bis, comma 2, lett. f), ord. pen., il giudice a quo ha fatto richiamo a diversi parametri costituzionali, riferendo di essere stato investito del reclamo con il quale un detenuto sottoposto al regime differenziato si doleva del divieto – rafforzato dalla previsione di sanzioni disciplinari – di acquistare i cibi bisognosi di cottura, nonché di cucinare quelli comunque reperibili in quanto consumabili anche crudi. Detto reclamo era stato proposto dall’interessato ex artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen. – secondo il quadro normativo modificato dall’art. 3, comma 1, lett. b) ed i), n. 2, d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito in l. 21 febbraio 2014, n. 10 – denunciando un pregiudizio grave e perdurante al proprio diritto di non subire una pena disumana e da scontare in condizioni di disparità di trattamento, rispetto alle altre persone detenute presso lo stesso istituto penitenziario nel quale egli si trovava, seppure in sezioni diverse da quella a regime differenziato. Non era, tuttavia, prospettabile un accoglimento del predetto reclamo ai sensi dei citati artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen., in base ai quali il magistrato di sorveglianza, accertando la sussistenza e l’attualità di un pregiudizio del detenuto, può ordinare all’Amministrazione di porvi rimedio entro un determinato termine. Non potendo direttamente disapplicare i provvedimenti amministrativi che imponevano i criticati divieti, pertanto, il giudice a quo ha riconosciuto nell’incidente di legittimità costituzionale l’unica strada percorribile. Sulla falsariga del predetto reclamo, con la prima tra le critiche avanzate, il giudice rimettente denunciava un contrasto della disposizione di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen., in ordine al divieto di cottura dei cibi, con l’art. 3 Cost., per una disparità di trattamento dei detenuti soggetti al regime differenziato rispetto agli altri, non giustificata dagli obiettivi di ordine e di sicurezza cui tende la disposizione stessa. Ad avviso del rimettente, peraltro, le finalità del regime speciale sarebbero già sufficientemente presidiate in base ad un’applicazione rigorosa ed imparziale delle regole ordinarie di trattamento intramurario: con la [continua ..]


Lo sfondo della decisione: la controversa ratio del regime differenziato

La funzione del regime differenziato, di cui all’art. 41-bis ord. pen., fa da sfondo rispetto all’intera materia in questione, rappresentando un necessario e costante punto di riferimento in relazione ad ogni interrogativo che la riguardi [26]. D’altronde, gli obiettivi che animano l’istituto del “carcere duro” sono destinati ad atteggiarsi come metro selettivo in base al quale verificare la tenuta costituzionale di ciascuna specifica restrizione imposta a chi sia destinatario del sistema di massimo rigore. Le finalità sottese a tali obiettivi, infatti, non possono che fungere da contrappeso in un ideale bilanciamento con la privazione ulteriore delle libertà della persona, legata al modello detentivo speciale, nell’ottica di un vaglio di ragionevolezza e di proporzionalità. Può essere perciò opportuno, in questa sede, ripercorrere – sia pure per rapidi cenni – le ragioni che giustificano l’applicazione della fattispecie. In generale, come evidenziato dal giudice a quo, l’adozione del regime detentivo in discorso determina la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge di ordinamento penitenziario, che possano porsi, in concreto, in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. E la ratio di tale sospensione può essere ravvisata nella necessità di arginare la pericolosità dei singoli detenuti, nel timore che possa proiettarsi persino all’esterno del carcere. Al contempo, più specificamente, una finalità sottesa dal regime speciale è quella di far cessare i collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento, evitando che essi persistano tramite contatti sia all’interno del carcere, sia con soggetti che si trovano in libertà. È proprio in vista di questo risultato che viene limitata l’operatività degli istituti che, previsti dall’ordinamento penitenziario, sono normalmente indirizzati a favorire un reinserimento sociale, ma risultano anche potenzialmente idonei a veicolare simili collegamenti [27]. In particolare, nel prevedere il modello differenziato, il legislatore ha inteso inibire la possibilità, per i detenuti, di avvalersi dell’ordinario regime penitenziario e degli strumenti rieducativi, da un canto, per affermare all’interno del carcere un [continua ..]


Segue: e le criticità di un controllo di congruità delle restrizioni

La predetta valutazione di congruità delle restrizioni, più specificamente, si proietta sul campo delle singole prescrizioni indicate dall’art. 41-bis ord. pen., producendo diverse conseguenze. Se il nodo centrale, che non può essere smentito, sta nell’assunto per il quale le ulteriori compressioni alla libertà del detenuto debbono essere subordinate al vincolo funzionale del regime speciale, questo stesso dato determina ricadute differenti, a seconda delle misure in concreto adottate [37]. Per le restrizioni compiutamente tipizzate dalla legge, infatti, un giudizio di proporzione rispetto all’obiettivo della misura imposta è già implicitamente espresso a monte dal legislatore. Con la conseguente inaccessibilità, da parte del giudice, ad un vaglio sulla congruità delle prescrizioni predeterminate in via normativa, che comporterebbe, altrimenti, una sovrapposizione tra la decisione giurisdizionale e la scelta legislativa. In questo contesto, delineato in seguito alla riforma del 2009, allora, al giudice che ritenga “incongrua” una prescrizione puntualmente prevista dalla legge, come quella relativa alla cottura dei cibi, rispetto agli obiettivi del regime differenziato, rimane soltanto da sollevare una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il principio di cui all’art. 3 Cost., attivando così un controllo in termini di “proporzionalità”. E in questo senso, in effetti, è essenzialmente la funzionalità delle restrizioni, in vista degli scopi di prevenzione speciale dell’art. 41-bis ord. pen. a giustificare la carica afflittiva delle specifiche misure, impedendo che esse si pongano in discrasia con il citato canone costituzionale. Diversamente, l’organo giurisdizionale potrà invece pronunciarsi in relazione alle prescrizioni “atipiche” ed, eventualmente, annullarle in quanto illegittime, quando ne riscontri l’incon­grui­tà in vista degli obiettivi del regime. Quest’ultima possibilità di controllo giudiziale parrebbe, a prima vista, da escludere per ciascuna delle indicazioni fissate nel menzionato comma 2-quater, in seguito al richiamato intervento normativo del 2009. A ben guardare, tuttavia, soprattutto per le restrizioni riconducibili alle lett. a) e, solo in minima parte, per la lett. f) è possibile [continua ..]


Rilievi conclusivi

Tenendo conto dei criteri di riferimento messi a fuoco dalla giurisprudenza della Consulta, in realtà, non è tanto la previsione del limite alla cottura dei cibi e far dubitare della legittimità costituzionale della norma criticata, quanto invece l’assolutezza del limite stesso. Una disparità di trattamento, rispetto al resto della popolazione carceraria, infatti, potrebbe pure prospettarsi come ragionevole, ma nella misura in cui fosse giustificabile in base a precise esigenze di sicurezza, che verrebbero compromesse qualora al detenuto fosse concesso di cucinare. In questo senso, sarebbero allora le peculiarità di ogni caso concreto a recare le ragioni per negare o accordare, di volta in volta, la possibilità di cucinare negli ambienti di detenzione. Tra le numerose variabili, certune, da non trascurare, possono dipendere dalle caratteristiche delle zone comuni dell’isti­tu­to, sovente non attrezzate in modo da consentire ai detenuti la cottura del cibo, come anche dalla flessibilità dell’Ammi­nistrazione penitenziaria nel garantire il rispetto di regole alimentari idonee alle condizioni della persona. Ma vi sono ulteriori aspetti, che andrebbero considerati al momento dell’applicazione del divieto. Intanto, alcuni riguardano la portata oggettiva del divieto medesimo. Da un punto di vista pratico, infatti, non sempre risulta chiaro se la preparazione di una pietanza implichi un semplice “riscaldare” oppure un “cuocere” di sana pianta. Questa incertezza può interessare soprattutto alcuni prodotti di recente disponibili in commercio, come risulta peraltro dal riferimento ai cibi “precotti”, di cui si è detto poc’anzi. Inoltre, vero è che per alcuni versi il divieto può palesarsi superfluo, secondo quanto osservato in precedenza. In effetti, le regole di cui all’art. 14 d.P.R. n. 230 del 2000prevedono anche per i detenuti “comuni” limiti di quantità e di valore negli acquisti di alimentari. E, per il regime differenziato, il comma 2-quater, lett. c), dispone che il regime stesso possa tradursi in ulteriori riduzioni delle somme, dei beni e degli oggetti che il detenuto può ricevere dall’esterno. Tuttavia, non è così scontato che il problema possa essere risolto del tutto trasferendolo sul piano di questi altri limiti e che, dunque, il divieto [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019