Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Diritto costituzionale applicato: destinazione e destino del processo penale (di Daniele Negri)


Il contributo analizza il modo d’intendere i principi costituzionali relativi al processo penale quale emerge dalle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale e dai pronunciamenti della medesima, mettendo in luce come l’interesse alla difesa sociale abbia trionfato a lungo sia sotto il vecchio che sotto il nuovo codice di rito penale a dispetto dell’impronta individual-garantista della Costituzione repubblicana. L’Autore osserva inoltre che la tecnica dei bilanciamenti, tipica della Corte europea dei diritti dell’uomo, finisce anch’essa col privilegiare l’interesse punitivo. Sbilanciata in maniera preoccupante a favore della comunità delle vittime, con grave pericolo per la visione liberale del processo penale, appare infine la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

* Testo della relazione svolta al convegno del Centro studi giuridici e sociali “Aldo Marongiu” (Unione delle Camere Penali Italiane): Nei limiti della Costituzione. Il codice repubblicano e il processo penale contemporaneo (Roma, 28-29 settembre 2018).

Constitutional Law in Action: Destination and Destiny of the Criminal Process

The paper analyses the way of understanding the constitutional principles related to the criminal process as it emerges from the referrals to the Constitutional Court and from its pronouncements, highlighting how the need for the social defence has triumphed for a long time both under the old and under the new criminal procedure code in spite of the individual-guarantee approach of the Italian Constitution. The Author also notes that the technique of balancing, typical of the European Court of Human Rights, also ends up favouring the punitive interest. Finally the European Court of Justice’s jurisprudence appears alarmingly in favour of the community of victims, with serious danger to the liberal vision of the criminal process.

SOMMARIO:

Premessa - La cultura dei principi sul processo penale espressa dalle ordinanze di rimessione alla Cor­te costituzionale - La difesa sociale nei pronunciamenti della Corte costituzionale - Il tradimento della visione liberale del processo nella giurisprudenza di Strasburgo - Il costituzionalismo antiliberale e la “piccola Europa” - NOTE


Premessa

Quando Franz Exner, compromettendosi con il regime nazista, enunciava la formula fatidica: «anderer Staat, anderer Strafprozeß» [1] – ossia, al mutar di pelle dello Stato sarebbe necessariamente conseguita una diversa concezione e organizzazione del processo penale – coglieva in maniera scabra e con brutale perentorietà la questione di fondo che oggi va riaffrontata nel duplice anniversario, della Costituzione del 1948 e del codice repubblicano del 1988. Del resto, il rapporto di implicazione tra costituzione (nel senso di carattere essenziale del regime politico in un dato momento storico) e processo penale era già stato messo in piena luce, da una prospettiva del tutto opposta a quella del penalista tedesco, da Luigi Lucchini al crepuscolo dell’età liberale, il quale, chiamando a raccolta una folta schiera di pensatori dall’Illuminismo in avanti, concludeva che la fisionomia del processo penale costituisce «l’indice più sicuro del grado di civiltà e di politica libertà di una nazione» [2]. I due esempi appena rammentati mostrano che la sottolineatura del legame congenito esistente tra processo penale e costituzione è argomento a doppio taglio: può condurre a concepire il processo penale quale sistema di garanzie per l’im­putato, così come alla Weltanschauung che fu propria del totalitarismo: l’annichilimento dell’indi­vi­duo; il processo che sarebbe dovuto servire agli scopi più alti del popolo e dello Stato, organicamente fusi nella comunità (Gemeinschaft) [3]. Merita ricordare lo slogan propagandato dai giuristi all’opera nella Germania degli anni trenta del secolo scorso, secondo i quali per ciascun soggetto sottoposto a processo penale non avrebbero deciso le forme e la lettera della legge, ma lo spirito del popolo [4]. Parola d’ordine del modello allora propagandato era Auflockerung, vale a dire l’allentamento, l’ammorbidimento, la necessità di flessibilizzare e ridurre al minimo le forme processuali in quanto esse costituiscono il freno all’attività del giudice protesa al raggiungimento della verità e della giustizia materiale [5]. Veniva così respinta in radice la tradizione illuministico-liberale, che proprio nella densità dei vincoli legali aveva fissato il «cardine [continua ..]


La cultura dei principi sul processo penale espressa dalle ordinanze di rimessione alla Cor­te costituzionale

Non serve indugiare – essendo sin troppo nota – sulla concezione schiettamente inquisitoria espressa dalla Corte nelle sentenze del 1992 a proposito del «fine primario e ineludibile del processo penale», rappresentato pur sempre dalla «ricerca della verità materiale», e del principio di non dispersione della prova. Conviene piuttosto mostrare il sottofondo ideologico che spianò la strada a quelle pronunce, rappresentato dalla posizione dei giudici a quibus sul metodo dell’accertamento penale, improntato a sua volta ad una visione che avremmo immaginato recessiva alla luce dei valori costituzionali. È proprio questa diffusa Weltanschauung, mai sconfitta, a riguadagnare oggi il campo grazie alla giurisprudenza dalle Corti europee, mentre l’arginarla era precipuo compito della nostra Carta fondamentale. Se si rileggono con cura le ordinanze di rimessione ci si accorge di come all’esercizio della giurisdizione venga attribuita funzione servente rispetto ai diritti costituzionalmente garantiti delle vittime dei reati. Il procedimento probatorio è considerato strumentale all’attuazione della legge penale sostanziale, sicché la legge processuale non potrebbe introdurre limitazioni di tale entità – sono parole dei giudici remittenti – da privare di efficacia le norme incriminatrici, in quanto ciò significherebbe sguarnire di effettiva tutela i diritti inviolabili del soggetto passivo dell’illecito. I beni giuridici di rilievo costituzionale non sono dunque concepiti, in senso garantista, quale limite all’intervento penale, ma, tramutati in altrettanti diritti, divengono ragione per rimuovere gli ostacoli d’ordine processuale al trionfo del potere punitivo sulle libertà dell’individuo accusato. Nel sollevare le questioni incidentali che condurranno alle sentenze n. 24 e n. 254 del 1992, venne addirittura evocato un principio di «costituzione materiale», che starebbe perciò oltre le stesse previsioni scritte della Carta, sinteticamente definibile come esigenza fondamentale dello Stato di assicurare l’ef­fettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale cui corrispondono legittime aspettative dei cittadini: espediente utile a radicare la difesa sociale nel profondo del patto di convivenza. Il richiamo a tale istanza compare anche in altre ordinanze di rimessione, [continua ..]


La difesa sociale nei pronunciamenti della Corte costituzionale

Se volgiamo ora lo sguardo ai pronunciamenti della Corte costituzionale, saremo in grado di capire quale parte essa abbia avuto nel tenere vivo e nell’alimentare il dogma della difesa sociale. L’itinerario è costellato di cedimenti, inciampi e cadute talvolta rovinose. Vistoso appare il debito con il pensiero di matrice autoritaria nelle sentenze che caratterizzano il periodo dell’emergenza terroristica tra gli anni Settanta e i primi Ottanta del secolo scorso. La Corte lascia in balìa dell’autorità di pubblica sicurezza il vaglio di necessità e urgenza prescritto dall’art. 13, comma 3 Cost. per la restrizione della liberà personale, ritenendo sufficiente che le situazioni contemplate dalla legge siano tali da prospettare anche soltanto come «possibile» l’esigenza dell’arresto fuori dei casi di flagranza da parte della polizia [17]. Riemerge così la concezione pre-costituzionale, che era stata propria del regime fascista, affrancata dal criterio di stretta necessità degli interventi autoritativi sulla libertà personale a tutto favore della automatica subordinazione della medesima al semplice affacciarsi dell’interesse statuale in conflitto. Nella sentenza n. 15 del 1982 la Corte rinuncia ad un incisivo scrutinio di proporzionalità, attribuendo alla valutazione insindacabile di politica criminale del legislatore il compito di stabilire se il prolungamento dei termini di carcerazione preventiva sia il mezzo più adeguato a fronteggiare con successo i fenomeni del terrorismo e dell’eversione. Consapevole della concessione alle istanze securitarie, i giudici di palazzo della Consulta rivolgono un monito finale al legislatore affinché non si astenga tuttavia dal prevedere misure idonee allo scopo che non gravino sull’imputato, esortando ad una più razionale ed efficiente organizzazione degli uffici giudiziari ai quali è devoluta la trattazione di casi tanto complessi e allarmanti. Gravi trascuratezze contraddistinguono le materie della riserva di legge e della presunzione di innocenza. Sul primo versante va ricordata la sentenza n. 54 del 1986 concernente i prelievi coattivi, che confuse le finalità delle misure restrittive della libertà personale con i «casi» da prevedere tassativamente in virtù dell’art. 13 Cost., mostrando di conferire potere assorbente [continua ..]


Il tradimento della visione liberale del processo nella giurisprudenza di Strasburgo

Le questioni di ermeneutica costituzionale vanno adesso esaminate tenendo conto delle fonti sopranazionali. Si tende ormai a dimenticare o a sottacere il fatto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha la propria genesi nella reazione della cultura antitotalitaria dell’ultimo dopoguerra alle drammatiche esperienze dei regimi dittatoriali; essa poneva di nuovo al centro il soggetto titolare di diritti, cristallizzando garanzie di difesa dell’accusato e delle persone destinate a subire l’ingerenza degli organi dello Stato contro l’abuso, in primis, degli strumenti funzionali all’esercizio del potere punitivo (artt. 3, 5, 6, 8). Col passare del tempo la Corte di Strasburgo ha però tradito l’ispirazione originaria rendendosi protagonista del carosello dei bilanciamenti, della giostra perenne delle compensazioni il cui esito è quello di ammorbidire, di rendere flessibile la tutela dei diritti del singolo nella competizione con altri interessi della più diversa specie volta a volta presentati sulla scena e soppesati in maniera imprevedibile, tanto da giungere a soluzioni sempre provvisorie, variabili e riconfigurabili alla luce delle peculiarità del caso concreto. Viene a mancare un ordine fisso, prestabilito di rapporti, una gerarchia di valori vincolante sulla quale i soggetti passivi delle attività processuali e, in particolare, delle misure limitative delle libertà fondamentali, possano confidare in anticipo. Così, se agli esordi era condiviso il ripudio dell’impostazione che sanciva la supremazia aprioristica dell’interesse pubblico nello svolgimento del processo, la diffidenza verso l’entità statuale, ci si compiace ora dell’abbandono dei vecchi stilemi (ossia, della filosofia liberale) e si teorizza (da parte di alcuni settori della dottrina [24]) o si pratica (ad opera della giurisprudenza [25]) l’osmosi del metodo adottato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo all’interno dell’ordinamento nazionale [26]. Bisogna tuttavia essere consapevoli delle conseguenze. Quel metodo, infatti, finisce col restituire – ancora una volta – il primato alla difesa sociale. Nient’altro che questo abbiamo di fronte se l’esito della valutazione circa l’equità complessiva del processo, nel quale le prove siano state ottenute al prezzo di trattamenti [continua ..]


Il costituzionalismo antiliberale e la “piccola Europa”

Le maggiori insidie per la visione liberale del processo penale provengono tuttavia dall’ordinamento dell’Unione Europea, specie a causa del potere diffuso di disapplicazione delle norme interne affidato ai singoli giudici in virtù del primato del diritto sopranazionale. I Trattati, malgrado gli impegni solenni al «rispetto dei diritti umani» e al riconoscimento delle libertà fondamentali patrimonio dello Stato di diritto e delle tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri, ci si presentano come una Costituzione rovesciata, tavola di valori d’una giustizia penale capovolta dove predominano le componenti repressive all’insegna del bisogno di sicurezza dei cittadini – vera ragione del patto fondativo – e della conseguente, prioritaria tutela dei diritti delle vittime di reato potenziali (la moltitudine indiscriminata di persone offese candidate ad ottenere una tutela riflessa dalla restrizione delle altrui libertà) o “in carne ed ossa” (quali soggetti passivi di ben determinate condotte criminose). Prevale insomma, ancora una volta, la difesa sociale, il bisogno di sicurezza, la protezione della comunità dei cittadini o la salvaguardia degli interessi economico-finanziari della Comunità ridenominata Unione Europea. In entrambi i casi inquieta l’assonanza terminologica con l’entità sinistra della Gemeinschaft, dalla quale il nostro discorso ha preso le mosse. Senza volere con ciò istituire equivalenze indebite, occorre tuttavia guardarsi bene da ogni tendenza ad attrarre l’interesse individuale all’interno di superiori istanze organicistiche; pericoli del genere si corrono quando – come accade alla Corte di Giustizia UE [31] – si comincia a chiamare «diritto» (anziché interesse o, meglio ancora, policy [32]) quello alla sicurezza, premessa utile a darle maggior peso e a farla così prevalere nel bilanciamento con i diritti di libertà. Il costituzionalismo tipico della “piccola Europa”, in effetti, ha abbandonato l’idea che in materia penale i diritti da privilegiare siano quelli dell’imputato; quando si predica la pariordinazione con la pretesa punitiva dello Stato e – più ancora – si costruiscono come diritti i beni tutelati dall’azione dei pubblici poteri – è il [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019