Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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“Interferenze cognitive” tra procedimento penale e procedimento di prevenzione (di Agnese Del Giudice, Assegnista di ricerca in Diritto processuale penale – Università del Salento)


Può il giudice della prevenzione (ri)valutare i fatti già sondati in un procedimento penale definito con una pronuncia diversa dalla condanna? E ricondurre, così, il proposto in una categoria tipica di pericolosità per poi disporre una misura ablatoria? Sono interrogativi che muovono da una semplice constatazione: le condotte sintomatiche della pericolosità (artt. 1 e 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159) evocano fattispecie di reato, sicché la decisione del giudice penale è, per ciò solo, astrattamente idonea ad interferire con quella del giudice della prevenzione. La risposta della giurisprudenza, chiamata a confrontarsi con delicate scelte sistematiche, media tra i valori di certezza e stabilità dell’accertamento penale e l'esigenza di autonomia del giudizio di prevenzione.

“Cognitive interference” between criminal proceedings and prevention proceedings

Can the judge of prevention (re)assess the facts already examined in a criminal proceeding defined with a sentence other than criminal conviction? Can he thus bring the proposal back into a typical category of danger and then arrange for an ablation measure? These are questions that arise from a simple observation: the symptomatic conduct of dangerousness (articles 1 and 4 of Legislative Decree 6 September 2011, n. 159) “evokes” types of crime, so that the decision of the criminal judge is, for this alone, abstractly capable of interfering with the evaluation of the prevention judge. The response of jurisprudence, called upon to deal with delicate systematic choices, mediates between the values of certainty and stability of the criminal proceedings and the need to ensure independence to prevention proceedings.

SOMMARIO:

1. Il bandolo della matassa - 2. Dalla pregiudizialità all’autonomia - 3. Categorie tipiche di pericolosità e indipendenza valutativa del giudice - 4. Il principio dell’autonoma valutazione nella dinamica applicativa - 5. Gli effetti della sentenza di proscioglimento - 6. (Segue) Un primo (e poco audace) orientamento - 7. (Segue) La nuova frontiera interpretativa - 8. L’efficacia del provvedimento di archiviazione - NOTE


1. Il bandolo della matassa

Indipendenza, tempestività e utilità [1]. “Muse” ispiratrici di un giudice di legittimità chiamato a riscattare il procedimento di prevenzione dal tradizionale ruolo ancillare assunto rispetto al procedimento penale. Il compito è arduo, perché la necessità di pervenire a risultati concreti emancipando la valutazione del tribunale della prevenzione dal correlato accertamento penale [2] confluito in un provvedimento diverso dalla sentenza di condanna rischia di tradursi in prassi approssimative – quando non improvvisate – lesive delle garanzie e dei principi cardine dell’ordinamento. Il nodo, invero, è aggrovigliato. E lo è per la solita ragione: la perdurante tecnica legislativa poco vigilata. Così, dinanzi all’as­senza di una disciplina appropriata e all’imbarazzante inerzia del nomoteta, la Cassazione prova a ridefinire i termini di una relazione non più inquadrabile nello schema della pregiudizialità (l’art. 29 d.lgs. n. 159/2011 depone, infatti, a favore del distinguo) e neppure nell’alveo della piena e reciproca autonomia [3]. I due procedimenti, penale e di prevenzione, sono, in verità, sostanzialmente differenti: il primo collegato alla commissione di un fatto-reato; il secondo riferito ad una condizione di pericolosità soggettiva documentata da condotte che non necessariamente integrano una fattispecie incriminatrice [4]. Ma vi sono anche diversità più profonde. Il giudizio penale seleziona i dati su cui fondare la decisione “oltre ogni ragionevole dubbio”; quello di prevenzione raccoglie ogni elemento fattuale e/o indiziario (con la sola eccezione del mero “sospetto”) per inscrivere il soggetto in una categoria tipica di pericolosità e disporre – al ricorrere degli altri presupposti – una misura ablatoria (e/o personale). Nell’uno, l’esercizio dell’azione spetta esclusivamente al pubblico ministero; nell’altro, la proposta promana solo in via eventuale dall’organo inquirente [5]. Il procedimento penale può sfociare nell’irrogazione di una pena, intesa come reazione dell’ordinamento alla commissione di un reato; il procedimento di prevenzione può condurre all’applicazione di una misura limitativa di diritti fondamentali in funzione di contenimento della [continua ..]


2. Dalla pregiudizialità all’autonomia

Il problema è di coordinamento e ha origini lontane. L’art. 29 d.lgs. n. 159/2011, a dispetto della linearità che lo caratterizza, è il frutto di un contorto e tormentato iter normativo sul tema dei rapporti tra le due realtà procedimentali. L’idea, caldeggiata dal legislatore degli anni ‘70, che le due procedure potessero coesistere fu, infatti, bruscamente superata dalla novella del 1990, sebbene l’abolizione – nel nuovo Codice di rito – della formula dubitativa di assoluzione “per insufficienza di prove” [8] (la quale consentiva una valutazione autonoma degli stessi fatti da parte del giudice della prevenzione) avesse già severamente minato le fondamenta di quella coesistenza. Il nomoteta, invero, rilevando la sostanziale identità dei presupposti, introdusse la regola della pregiudizialità (l. 19 marzo 1990, n. 55). Inserì, quindi, nel corpus originario della l. 13 settembre 1982, n. 646, l’art. 23-bis destinato a regolare le relazioni tra il procedimento di prevenzione e il processo penale celebrato per delitti associativi. La disposizione prevendeva, in particolare, un’ipotesi di sospensione necessaria del procedimento di prevenzione correlata all’esistenza di un procedimento penale («quando sia iniziato o penda procedimento penale») per i reati di cui agli artt. 416-bis c.p. e 75 l. 22 dicembre 1975, n. 685, tutte le volte in cui la cognizione del reato potesse influire sulla decisione del giudice della prevenzione (art. 23-bis, comma 3, l. n. 646/1982). A corredo, il legislatore riconobbe l’autorità di cosa giudicata alla (sola) [9] sentenza di proscioglimento pronunciata a seguito di giudizio (limitatamente all’accertamento dei fatti materiali oggetto del processo) e dispose l’obbligo, per il tribunale della prevenzione, di applicare le misure patrimoniali e interdittive previste dalla l. 31 maggio 1965, n. 575 a fronte di un giudicato penale di condanna [10] (art. 23-bis, commi 3 e 4, l. n. 646/1982) [11]. Una pregiudizialità, a ben vedere, “temperata”, perché in concreto derogabile [12]; eppure, costantemente riscontrata nella prassi: era difficile individuare situazioni in cui la cognizione del reato contestato in sede penale non fosse “influente” sulla decisione concernete l’applicabilità della misura di [continua ..]


3. Categorie tipiche di pericolosità e indipendenza valutativa del giudice

Il perimetro dell’accertamento di prevenzione ha assunto contorni definiti solo quando il giudice di legittimità, strenuo propulsore di una prevenzione “giurisdizionalizzata”, ha precisato “cosa” il giudicante fosse chiamato ad accertare e, a monte, “cosa” l’organo proponente fosse tenuto a produrre. È noto: nessuna misura di prevenzione può essere legittimamente applicata ove manchi una congrua ricostruzione di fatti idonei ad inquadrare il proposto in una delle categorie di pericolosità tipizzate dal legislatore. È un problema di garanzie. Perché le tre “muse” – indipendenza, tempestività e utilità –, se strumentalizzate, ben possono legittimare un uso distorto degli strumenti preventivi per ovviare alle inefficienze e alle inadeguatezze del processo penale. Accertare la “condizione di pericolosità” di un soggetto, soprattutto ai fini dell’applicazione di una misura ablatoria (sequestro e/o confisca) [17], è, tuttavia, un compito arduo. Perché, per sottrarre beni e ricchezze non serve individuare la qualità di “pericoloso” in sé considerata; occorre, piuttosto, verificare che il proposto fosse tale al momento dell’acquisizione del bene. Direttiva, questa, che esprime bene l’esigenza di un’attenta ponderazione tra l’evidenza “probatoria” della pericolosità soggettiva che sollecita l’applicazione dello strumento ablatorio e l’astratta liceità della provenienza dei beni che la frena. Invero, la confisca di prevenzione rappresenta uno strumento di inibizione della “pericolosità trasferita” al bene in forza della ragionevole presunzione che questo sia stato acquisito con i proventi di attività illecita: sicché, per via della sua illegittima acquisizione, la res rappresenta null’altro che una proiezione permanente e tendenzialmente indissolubile della pericolosità sociale del soggetto nei cui confronti è instaurato il procedimento. Il momento valutativo della pericolosità è strutturalmente bifasico [18]. Ad un prima fase c.d. “constatativa” – fondata sull’oggettiva valutazione di fatti, storicamente apprezzabili, idonei ad inscrivere il soggetto in una delle categorie di pericolosità tipizzate dal [continua ..]


4. Il principio dell’autonoma valutazione nella dinamica applicativa

La rivalutazione del “fatto” già accertato in sede penale quale eventuale sintomo di pericolosità dev’essere comunque rapportata alla categoria criminologica che si ipotizza sussistente [32]. Non è un caso che l’origine giurisprudenziale [33] del principio dell’autonoma valutazione riguardi il settore della pericolosità qualificata di stampo mafioso, nel cui ambito la descrizione normativa prevenzionale si atteggia in termini meno stringenti [34] (si evoca l’“appartenenza”) rispetto alla correlata fattispecie penale (integrata dalla “partecipazione” [35]), autorizzando una diversità di apprezzamento [36], nei due giudizi, dei medesimi fatti [37]. In altri termini, quando la descrizione della categoria tipica di pericolosità non corrisponde, nei contenuti, alla correlata disposizione incriminatrice pure richiamata dall’art. 4 d.lgs. n. 159/2011, il giudice della prevenzione, lungi dal ritenersi vincolato a “recepire” l’eventuale epilogo assolutorio pronunciato con formula piena (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso), ben può desumere la fattispecie di pericolosità da fatti ritenuti, in sede penale, inidonei a fondare un giudizio di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. Al contrario, nel settore della pericolosità semplice, ove l’art. 1 d.lgs. n. 159/2011 impone di constatare la ricorrente commissione di «attività delittuose» (produttive di reddito), l’accertamento del giudice penale circa l’insussistenza del fatto o della sua riferibilità all’imputato precluderebbe, di regola, l’auto­noma valutazione della pericolosità generica da parte del giudice della prevenzione [38].


5. Gli effetti della sentenza di proscioglimento

Ebbene, nella prospettiva dell’art. 28 d.lgs. n. 159/2011, il giudice di legittimità individua nell’asso­luzione con formula piena “il limite”: essa ha a che fare con i fines, quos ultra […] nequit consistere rectum. L’idea di una pesatura razionale sulla metaforica bilancia della giustizia resta, dunque, alla base dei problemi di misura dell’utilità che (mediante il sistema della prevenzione) sia ragionevole perseguire. Ma su quale sia il “modus” [39] (rectius: la giusta misura) si discute, proprio in ragione della littera legis, che pone l’accento non sull’esito assolutorio, ma sull’accertamento di fatti che escludano «in modo assoluto» – e non, quindi, “in modo dubitativo” – i presupposti della confisca (art. 28, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159/2011) [40]. Questo significa, ove si discuta della pericolosità (presupposto soggettivo della confisca), che l’accertamento penale deve aver “azzerato” i fatti alla base del giudizio constativo. Da quest’angolo visuale, incerto risulta l’esatto limite dell’autonoma valutazione in relazione a quelle decisioni che, pur formalmente favorevoli per l’imputato, non smentiscono, in modo parimenti indiscutibile, i presupposti applicativi della misura. Invero, l’epilogo proscioglitivo accomuna una pluralità di pronunce: da quella assolutoria di cui all’art. 530 c.p.p., prevista per situazioni tutt’altro che omogenee, alla sentenza di “non doversi procedere”, a sua volta, adottata al cospetto dei diversificati presupposti contemplati dagli artt. 529 e 531 c.p.p. In particolare, dalla decisione che nega la sussistenza del fatto nella sua storicità o che esclude la sua riferibilità all’imputato (art. 530, comma 1, prima parte, c.p.p.) si passa alla pronuncia sul “fatto incerto” (art. 530, comma 2 c.p.p. [41]), alle statuizioni che presuppongono ora la punibilità in astratto (art. 531 c.p.p.), ora, addirittura, l’accertamento dell’avvenuta realizzazione dell’illecito penale da parte dell’imputato (art. 530, comma 1, ultima parte, c.p.p., anche con riferimento alla declaratoria per particolare tenuità del fatto [42]), sino ad arrivare alle pronunce di absolutio ab observatione iudicii (art. 529 c.p.p.), in cui l’accertamento [continua ..]


6. (Segue) Un primo (e poco audace) orientamento

Un trittico di sentenze [43], i cui principi sono stati recentemente ripresi e valorizzati dalla nota decisione n. 182 del 2020 [44], ha enunciato la regola – «il giudice della misura di prevenzione è […] vincolato a recepire l’eventuale esito [penale] assolutorio non dipendente dall’applicazione di cause estintive [intervenuto] sul fatto posto a base del giudizio di pericolosità» – ed ha esposto le eccezioni: (a) salvo che l’inscrizione del proposto nelle categorie tipiche previste dagli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011 si basi su elementi cognitivi autonomi e diversi rispetto a quelli acquisiti in sede penale; (b) salvo che si discuta dell’inquadramento del soggetto nel perimetro della pericolosità qualificata “mafiosa”; (c) salvo che – e tanto vale soprattutto, se non esclusivamente, sul fronte della pericolosità generica – il segmento storico “azzerato” dalla sentenza di assoluzione si ponga come «ingrediente fattuale solo concorrente e minusvalente» rispetto ad altri episodi rimasti confermati o non presi in esame nel giudizio penale [45]. Da un lato, dunque, il giudice della prevenzione può valorizzare, nella fase “constatativa” della pericolosità ex art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011, qualunque dato conoscitivo preso in considerazione nel procedimento penale definito con sentenza di assoluzione. Dall’altro lato, per contro, analoga autonomia non viene riconosciuta ai fini del giudizio constatativo delle “abituali condotte delittuose produttive di reddito” (art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159/2011): diversamente opinando, verrebbe leso il principio di unitarietà e di non-contraddizione dell’ordinamento e ignorata la superiore valenza epistemica dell’accertamento compiuto nel processo penale [46]. Sicché, secondo quest’indirizzo giurisprudenziale, sul segmento constatativo delle condotte sintomatiche di pericolosità non dovrebbe mai interferire la sentenza di non doversi procedere. Del resto, lo stesso giudice di legittimità esclude la vincolatività della pronuncia favorevole «dipendente dall’ap­plicazione di cause estintive» [47], precisando che, a fronte di un «esito assolutorio»“ (correttamente: proscioglitivo), l’unica ipotesi di [continua ..]


7. (Segue) La nuova frontiera interpretativa

L'’idea, maturata [51] a partire dalla decisione n. 31549/2019 [52], secondo la quale l’esito penale latamente assolutorio non può sempre e indistintamente vincolare il giudice della prevenzione, è stata progressivamente coltivata da un’altra parte della giurisprudenza di legittimità, oggi assolutamente maggioritaria [53]. Non tanto perché militerebbe in tal senso la disciplina di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159/2011 – che pone l’accento non sull’epilogo formalmente assolutorio, bensì sul tipo di accertamento compiuto [54] –, quanto, piuttosto, per l’esigenza di spingersi oltre le apparenze, nel rispetto delle peculiarità del procedimento di prevenzione, caratterizzato da presupposti e criteri valutativi diversi da quelli propri della sede penale. Quest’indirizzo giurisprudenziale finisce così per estendere al campo della pericolosità semplice quell’ampiezza valutativa che il primo approdo ermeneutico ha, invece, riferito al solo giudizio constatativo della pericolosità qualificata. In quest’ottica, non solo la declaratoria di intervenuta prescrizione (art. 531 c.p.p.) [55], ma qualunque statuizione favorevole che non abbia negato, “in modo assoluto”, l’esistenza storica del fatto o la sua riferibilità all’imputato [56] (quindi, anche la sentenza di non doversi procedere ex art. 529 c.p.p. [57], la pronuncia assolutoria di cui all’art. 530, comma 2, c.p.p. [58] e quella adottata per difetto di imputabilità o per la sussistenza di una causa di non punibilità ex art. 530, comma 1, ultima parte, c.p.p. [59], nonché la sentenza di proscioglimento predibattimentale, anche per tenuità del fatto, ex art. 469 c.p.p. [60]) permetterebbe al giudice della prevenzione di “utilizzare” i medesimi fatti, dando ad essi, attraverso la sussunzione in una fattispecie penalmente rilevante, «una qualificazione (incidentale) giuridica» finalizzata ad inscrivere il soggetto nella categoria tipica [61] di pericolosità [62].


8. L’efficacia del provvedimento di archiviazione

Cambia la prospettiva, ora investigativa, muta la finalità, “conoscere per agire” [63], ma resta invariata la problematicità del rapporto tra le due sedi. Anzi, essa si arricchisce di inconvenienti legati al tipo di accertamento proprio dell’epilogo archiviativo. Eppure, l’essenza dell’istituto non risulta affatto inconciliabile con l’idea che il relativo provvedimento possa contenere una ricostruzione sufficientemente chiara di fatti riferibili all’indagato. Non fosse altro perché l’esito abortivo delle indagini preliminari accomuna situazioni tutt’altro che omogenee. Pertanto, il provvedimento di archiviazione, salva l’irriducibile diversità del suo contenuto cognitivo, sembrerebbe poter occupare, nel rapporto con il procedimento di prevenzione, la stessa posizione della sentenza di proscioglimento: il provvedimento emesso dal g.i.p. non preclude al giudice della prevenzione la possibilità di rivalutare, laddove possibile, i medesimi fatti. La giurisprudenza di legittimità ha fornito, al riguardo, utili indicazioni interpretative. Muovendo dall’idea che «soltanto una sentenza irrevocabile di assoluzione [pienamente liberatoria]» impedisce di rivalutare «autonomamente i fatti in essa accertati» [64], giunge alla conclusione che il giudice della prevenzione possa apprezzare criticamente i fatti oggetto di un procedimento penale archiviato [65]. Si tratterebbe, in particolare, di un accertamento incidentale in ordine alla rilevanza penale di quei fatti, funzionale a verificare, con le regole proprie del giudizio di prevenzione, se essi siano sintomatici della pericolosità sociale del proposto [66]. Il giudice della prevenzione, in sostanza, è chiamato ad operare un’attenta disamina [67] del “paniere cognitivo” alla base del provvedimento di archiviazione. Mutatis mutandis, occorre ripercorrere, al di là delle formule utilizzate (artt. 408 e 411 c.p.p.; art. 125 disp. att. c.p.p., recentemente abrogato), le valutazioni che in concreto permeano il provvedimento archiviativo [68]. Il che equivale a stabilire se dagli elementi raccolti emerga la “prova positiva” che il fatto non sussiste, che l’indagato non lo ha commesso, che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, risultando in tal caso preclusa [continua ..]


NOTE