Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha riconosciuto l'operatività delle garanzie esecutive di cui all'art. 103, commi 3 e 4, c.p.p. anche alle ipotesi di perquisizione e sequestro nello studio legale del difensore indagato. L'approdo, che si pone in discontinuità con pronunce antecedenti, consente di ricongiungere l'interpretazione giurisprudenziale con la lettura offerta dalla dottrina maggioritaria, avendo riguardo sia per il tenore letterale della disposizione in discorso sia, soprattutto, per la funzione di garanzia dell'effettività del diritto di difesa che ne incarna la ratio sottesa.
The Italian Supreme Court recently ruled that safeguards generally provided for during searches and seizures of law offices should apply even when the lawyer himself/herself is accused of the offence. The decision is consistent with the wording of the relevant provision in the code of criminal procedure and, above all, with the rationale of the law.
1. Il caso - 2. La latitudine soggettiva delle garanzie di libertà: limiti «interni» o «esterni» [3]? - 3. (Segue) quando la parsimonia (di congiunzioni) non aiuta: l’incerto rapporto tra “i casi” del comma 1 - 4. Le garanzie esecutive, tra riserva di giurisdizione e un insolito «convitato di pietra» - 5. L’Applicazione delle garanzie al difensore indagato - NOTE
Nell’ambito di una indagine relativa a reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti di natura fallimentare e tributaria, veniva perquisito lo studio di una indagata, iscritta all’albo degli avvocati, da cui furono prelevati beni e documenti. La stessa risultava, peraltro, impegnata nella difesa di alcuni coindagati in procedimenti distinti. Adìto ex art. 324 c.p.p., il Tribunale annullava il sequestro e il decreto di convalida del pubblico ministero, ritenendo violate le garanzie di cui all’art. 103, commi 3 e 4, c.p.p., le quali, secondo il giudice del riesame – in dichiarato dissenso con la giurisprudenza maggioritaria –, avrebbero dovuto trovare integrale applicazione anche nel caso di ricerca della prova effettuata nello studio legale di un difensore sottoposto, lui stesso, a indagini. Contro tale pronuncia ricorreva per cassazione il pubblico ministero, lamentando la violazione dell’art. 103, interpretato, secondo il magistrato dell’accusa, in modo tale da contrastare con il tenore letterale della disposizione; interpretazione, quest’ultima, che finiva per risolversi nella concessione di una sorta di immunità penale per il professionista. Ebbene, il Collegio ha dichiarato infondato il ricorso, ritenendo che la giurisprudenza si palesi «solo apparentemente unanime» nell’escludere le garanzie de quibus al difensore indagato, laddove, invece, le pronunce richiamate dal ricorrente a suffragio del proprio assunto si riferivano a casi eccentrici rispetto a quello d’interesse: in uno, l’avvocato era sottoposto a indagini per reati commessi a danno dell’assistito [1]; in un altro, mancava qualsivoglia rapporto professionale tra il soggetto investigato e il legale [2]. Pertanto, a parere della Suprema Corte, l’interpretazione fornita nel provvedimento impugnato doveva ritenersi immune da censura, in quanto rispondente a corretta esegesi della disposizione in discorso. Come si avrà modo di apprezzare, tale approdo riporta “in asse” l’interpretazione giurisprudenziale rispetto a quanto da sempre propugnato dalla dottrina maggioritaria, basandosi e sul dato letterale e sulla funzione di garanzia sottesa alla disposizione.
Prima di entrare in medias res, è bene anzitutto rimarcare come consentire agli inquirenti intromissioni investigative tra le carte di un difensore significherebbe «mina[re] alla radice il diritto di difesa» [4]. L’assistito, infatti, non sarebbe libero di “farsi difendere” dal legale se temesse incursioni e introspezioni da parte degli inquirenti [5]; per cui, non vi è un giusto processo senza che sia rispettata, alla base, la libera esplicazione di un rapporto tra l’avvocato e il suo cliente [6]. Pertanto, il legislatore del 1988, in esecuzione della delega contenuta all’art. 2, n. 4, l. 16 febbraio 1987, n. 81 [7], ha racchiuso tutte le disposizioni volte a tutelare il «domicilio difensivo» [8] (oltre, per quello che non interessa invece in questa sede, alla libera comunicazione tra i componenti tecnici del polo difensivo e l’assistito), in un unico articolo, l’art. 103, il quale assurge a una delle «pietre miliari del codice» [9]. La qual cosa, va detto, dipende più dal valore culturale della norma – che pone un limite, espressione di «civiltà giuridica» [10], al potere inquirente – che dai suoi effettivi contenuti, alcuni dei quali già presenti nel codice Rocco [11]. È indubbio, tuttavia, che rispetto agli antecedenti normativi la previsione in parola comporti un incremento di tutela, in linea con la funzione rivitalizzata del difensore che il codice accusatorio voleva affermare [12]. Del pari, la disposizione appare congeniale a un processo di parti, il quale, per sua natura, mal sopporta ingerenze della parte pubblica nelle attività dell’avversario al momento della ricerca delle fonti di prova [13]. Su questo sfondo, venendo all’oggetto della pronuncia in commento, le attività di ispezione e perquisizione presso gli studi legali sono confinate, in deroga alla disciplina generale prevista per i predetti mezzi di ricerca della prova contenuta nel Libro III del codice di rito, ai sensi dell’art. 103, comma 1, c.p.p., che rappresenta pertanto una delle leges speciales in materia [14]. Prima di analizzare la casistica ivi delineata, vi è anzitutto da domandarsi se la garanzia copra soltanto il difensore nominato nello stesso procedimento nell’ambito del quale è stata disposta l’ispezione, la [continua ..]
La dizione dell’art. 103, comma 1, c.p.p. si mostra prima facie di una linearità tale da non richiedere speciali sforzi interpretativi, tant’è che gli stessi lavori preparatori [28] altro non fanno che riprodurne grossomodo la formulazione: l’attività inquirente presso gli studi legali dei difensori è consentita solo «a) quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito; b) per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate». Stante l’assenza di congiunzione, tanto aggiuntiva quanto disgiuntiva, tra le due previsioni, si tratta di comprendere se il legislatore abbia inteso le ipotesi in parola in modo cumulativo o alternativo. Il che, in sostanza, si traduce nell’interrogarsi sul se sia lecito disporre ispezioni e perquisizioni nei luoghi ove si svolge la professione soltanto laddove uno dei titolari o collaboratori dello studio sia indagato o imputato. Del resto, è evidente che in tale ultimo caso – quello che vede l’avvocato protagonista del procedimento – non si possa precludere l’attività investigativa: si verrebbe, altrimenti, a creare una disparità rispetto ai “comuni” imputati difficile da giustificare [29]. A una prima lettura, le due statuizioni parrebbero essere due monomi, compiuti e autosufficienti [30]. Dal che discenderebbe che la ricerca da parte degli inquirenti dei segni visibili del reato, oppure delle res o delle persone determinate, sia consentita, a prescindere dal fatto che il difensore sia o meno imputato o indagato. Tale lettura, autorevolmente sostenuta in dottrina [31] e avallata in giurisprudenza [32], non tiene conto del fatto che, così facendo – cioè immaginando una lett. b) del tutto autonoma dalla lettera precedente – l’attività di rilevazione delle tracce ed effetti materiali del reato prevista dalla lex specialis in parola verrebbe a sovrapporsi con il perimetro dell’ispezione tracciato dalla lex generalis (art. 244, comma 1, c.p.p.) [33]. Per rimediare alla sovrapposizione, che toglie terreno alla tutela assegnata al diritto di difesa, si è ritenuto che i rilievi su tracce ed effetti materiali di cui alla seconda previsione [continua ..]
La delicatezza del tema in discorso, stante la necessità di coniugare la tutela dell’esercizio effettivo della funzione difensiva con la necessità di evitare la creazione di “zone franche” che lo connota, ha imposto la previsione di particolari modalità esecutive per gli atti di ricerca e di acquisizione degli elementi a vocazione probatoria. In primo luogo, derogando ancora alla disciplina generale in tema di mezzi di ricerca della prova, il potere dispositivo viene sottratto al magistrato inquirente, così come viene preclusa la possibilità di delegare l’attività alla polizia giudiziaria. La qual cosa costituisce tuttavia, sul piano degli adempimenti procedurali, una «condizione necessaria ma non sufficiente» [42], giacché la normativa prevede pure, a pena di nullità, il coinvolgimento del locale consiglio dell’ordine forense quale «convitato di pietra» [43], recependo così auspici formulati, tanto dagli organi di categoria dei professionisti stessi, quanto da dottrina autorevole [44], durante la vigenza del codice abrogato. Partendo dal versante soggettivo, è chiaro che riservare la legittimazione al potere investigativo in discorso all’organo giurisdizionale innalzi il livello della garanzia [45]. Posto che l’adozione del decreto motivato spetta solo al giudice-terzo [46], tale provvedimento assume contenuti diversificati a seconda della fase procedimentale nella quale viene adottato: nel processo in senso stretto, esso appare meramente «dispositivo»; di contro, in indagini, risulta «autorizzatorio» [47], dovendo il giudice autorizzare appunto il pubblico ministero a procedere all’ispezione, alla perquisizione e al sequestro. Poiché, come noto, prima dell’inizio del processo il giudice per le indagini preliminari si caratterizza per la propria iurisdictio ad acta [48], l’autorizzazione in parola non può che essere sollecitata dal pubblico ministero [49], il quale, in caso di esito positivo, vi darà esecuzione. Pertanto, a fronte della richiesta della parte pubblica [50], l’organo terzo e imparziale ha il potere-dovere di verificare concretamente e specificamente i presupposti di legittimità dell’atto [51], dandone conto nella motivazione [52]. In un caso come nell’altro, [continua ..]
Rimane ora da comprendere se l’invio dell’avviso all’organismo di categoria e la riserva di giurisdizione dei quali si è appena dato conto siano da rispettare anche qualora il difensore nel cui ufficio deve compiersi l’atto investigativo sia indagato/imputato. Merita ribadire un dato: è chiaro che non si possa vietare l’attività di ricerca della prova negli uffici legali. Lo studio del difensore, in altri termini, non è e non può essere un refugium peccatorum sottratto al potere inquirente, tanto che il difensore, al pari di un qualsiasi individuo, viene accusato di un reato, ad esempio, se riceve o custodisce il corpus delicti; si pensi, volendo esemplificare, al reato di favoreggiamento o di ricettazione [72]. L’assunto parrebbe talmente ovvio da non richiedere precisazioni. Se però il legislatore ha sentito l’esigenza di affermare expressis verbis che sono consentite attività d’indagine nell’ufficio quando un titolare o collaboratore stabile è imputato (art. 103, comma 1, lett. a), c.p.p.) è stato probabilmente solo per specificare che la ricerca ivi espletata deve essere limitata «ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito» [73], tradendo con ciò una certa sfiducia nei confronti delle autorità inquirenti. «Paradigma quasi inutile» – si è detto a tale proposito – «[essendo] scontato che l’investigazione giudiziaria si muove nell’esclusiva ottica di esigenze concernenti l’illecito da accertare e non verso altri fatti, rispetto ai quali non emerge alcun rapporto di pertinenza» [74]. Insomma, ciò che appare è la volontà di prevenire ogni sconfinamento dall’area consentita. Esigenza, quest’ultima, ancora più pressante quando la qualità di soggetto inquisito viene a sommarsi all’esercizio professionale dell’attività difensiva, ove è la necessità stessa di tutelare gli individui che si sono rivolti al legale a rendere quanto mai necessario il rispetto delle garanzie esecutive. Ebbene, per le ispezioni e le perquisizioni, detta soluzione pare obbligata se si aderisce, come una parte della dottrina, alla lettura cumulativa o “solo eventualmente alternativa” delle due ipotesi (lett. a) e b)) di cui al comma 1. Anche volendo [continua ..]