Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La prevedibilità dell'esito del giudizio quale antidoto all'azzardo imputativo? (di Fabrizio Siracusano, Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Catania)


Il recupero dell'efficienza della giustizia penale, vero leitmotiv della Riforma Cartabia, dovrebbe passare anche dalle riscritte condizioni che guidano l'avvio o il prosieguo della fase processuale, onde evitare l’innesco di processi superflui. Per ovviare alla scarsa capacità filtrante di tali snodi processuali, tanto il criterio di valutazione per l'ar­chiviazione, quanto la regola di giudizio per la sentenza di non luogo a procedere in udienza preliminare, reclamano il medesimo e inedito requisito della mancanza di una ragionevole previsione di condanna. Alle incertezze circa la capacità di tale innovata formula predittiva di realizzare un'effettiva deflazione processuale, scardinando il tradizionale principio dell'in dubio pro actione, segue la preoccupazione di quanto la stessa possa invece negativamente incidere sulle fondamenta del modello processuale del 1988.

The predictability of the outcome of the judgment as an antidote to the charging challenge?

The recovery of the efficiency of criminal justice, the true leitmotif of the Cartabia Reform, should also pass from the rewritten conditions that guide the start or continuation of the trial stage, in order to avoid unnecessary trials. To overcome the poor filtering capacity of these procedural points, both the evaluation criterion for dismissal, as the rule of judgment for the sentence of no need to proceed at the preliminary hearing, claim the same and unprecedented requirement of the lack of a reasonable prevision of conviction.

Uncertainties about the capacity of this innovative predictive formula to achieve an effective deflation of criminal trial, unhinging the traditional principle of in dubio pro actione, are followed by the concern about how this could negatively affect the basis of the procedural model of 1988.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Innovative regole di valutazione per una improbabile deflazione - 3. La prospettiva del risultato quale discrimen tra azione e inazione - 4. Una regola capace di rivitalizzare una fase in crisi profonda? - 5. Un inedito filtro predibattimentale di più consistente capacità drenante? - 6. Verso una preoccupante destrutturazione del modello: i rischi connessi alle nuove valutazioni predittive - NOTE


1. Premessa

Il fil rouge che lega le varie tessere dell’ampio mosaico della “Riforma Cartabia” è rappresentato dall’esigenza di operare una decisa riduzione dei tempi della giustizia penale; una necessaria contrazione delle cadenze dell’accertamento giudiziario, che avrebbero assunto dimensioni temporali ormai intollerabili e lesive di un’efficienza elevata a condizione indefettibile della giurisdizione; una più rapida scansione dei segmenti che lo compongono, funzionale a conseguire l’obiettivo del P.N.R.R. – concordato dal Governo con la Commissione europea – di raggiungere, entro il 2026, la riduzione del 25% della durata media dei processi penali nei tre gradi di giudizio [1]. Le soluzioni individuate dal nomoteta esaltano l’efficienza quale necessario volano per un recupero di credibilità di un sistema in piena difficoltà; l’efficienza come antidoto per rimediare al vistoso gap di fiducia lamentato dalla nostra collettività nei confronti del servizio giustizia. Tale obiettivo è perseguito attraverso un percorso che si inerpica, però, lungo tornanti assai impervi; tramite opzioni normative da cui traspare una certa indifferenza rispetto alle insidie che queste, trascinate da un indomabile gorgo efficientista, proiettano sulla tenuta complessiva del sistema. Molte delle scelte adottate con la legge n. 134/2021 e tradotte nell’articolato di cui al d.lgs. n. 150/2022 non sembrano risolversi, come è stato da qualcuno evidenziato, in un mero salutare “tagliando” [2], bensì in una vera e propria revisione – se non una definitiva rottamazione – del modello processuale coniato nel 1988. L’efficienza come valore in sé del sistema penale [3] rischia, oltretutto, di spingere verso una deriva anticognitiva del processo, vanificando la stessa essenza della giurisdizione, e favorisce il sedimentarsi dell’idea che il processo debba perseguire «scopi eterogenei di difesa sociale e di tutela della collettività» [4]. Le svolte impresse sul versante della rivisitazione degli istituti processuali e dell’innesto di nuove forme di deflazione processuale sembrano, purtroppo, convalidare questa sensazione.


2. Innovative regole di valutazione per una improbabile deflazione

Il profondo maquillage – l’ennesimo e, forse, il più consistente – cui è stato sottoposto il codice Vassalli punta su scelte guidate da predeterminazione e trasparenza alle quali se ne aggiungono altre che invocano senso di responsabilità da parte dei protagonisti dell’apparato giustizia: lungo traiettorie che, con riferimento ai rappresentanti della pubblica accusa e ai giudici, coinvolgono il rispetto dei piani organizzativi e degli standard di produzione, da seguire anche attraverso un sapiente impiego delle risorse processuali deflative. Si è inteso percorrere la via dell’alleggerimento della domanda penale riducendone il peso all’in­terno del processo, dilatando l’area della perseguibilità a querela, ampliando quella della non punibilità per particolare tenuità del fatto, o puntando sulla capacità deflativa – tra l’altro, tutta da verificare – della giustizia riparativa [5] e di più selettive regole di avvio e di prosieguo della verifica processuale. Non si è, invece, optato per inibirne ab origine l’ingresso, promuovendo un deciso intervento di depenalizzazione; riservando il proscenio del penalmente rilevante solo a ciò che risulti ragionevolmente processabile – sia in termini qualitativi, vale a dire in base a fatti suscettibili di prova, sia in termini quantitativi, ossia evitando il sovraccarico penale – e non solo riconoscendo formale priorità ad alcune notizie di reato rispetto ad altre. Dall’individuazione dei criteri per determinare su quali notitiae criminis svolgere prioritariamente le indagini, si passa alle farraginose scansioni con le quali si è inteso segmentarne e controllarne la durata; dalla tempestività delle scelte che ne conseguono, si giunge all’innovativo criterio di valutazione in base al quale il pubblico ministero deve vagliare i risultati della propria attività investigativa, ai fini della scelta circa l’esercizio dell’azione penale, e alla omologa regola di giudizio che il giudice è chiamato a osservare per il proprio screening sull’imputazione, onde dare “utile” avvio alla fase dibattimentale. Muovendo dall’art. 1, comma 9, lett. a), della legge delega, che indicava la necessità di modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, [continua ..]


3. La prospettiva del risultato quale discrimen tra azione e inazione

Quello sancito con l’inedita regola di valutazione posta a governo della scelta archiviativa rappresenta un nuovo step del complesso e lungo processo di inserzione di un’azione penale connotata da concretezza lungo i binari della legalità costituzionale (che ne impone, pur sempre, una gestione secondo canoni di obbligatorietà) e tenendo conto, sotto l’incalzare di una metrica normativa sempre più guidata dalla spinta efficientista, dell’insopprimibile esigenza di evitare l’instaurazione di processi superflui [9]. Mira a ribaltare una ormai congenita «perdita di capacità drenante dell’archiviazione» [10] generata da un’ostinata opzione persecutoria in cui il favor actionis, anziché espressione di calibrate scelte – guidate da giustificate prognosi di utilità del dibattimento –, finisce con il discendere da ataviche carenze di organico della magistratura e da croniche deficienze gestionali che inducono a riversare sulla fase dibattimentale la verifica sulla effettiva fondatezza dell’ipotesi accusatoria [11]. La strada da ultimo prescelta – che sembra porsi a distanza siderale dalla prognosi di utilità del dibattimento sottesa all’ormai abrogato art. 125 disp. att. c.p.p. [12] – non sembra, invero, del tutto originale. Il richiamo alla «ragionevole previsione di condanna», quale parametro in forza del quale il p.m. dovrà calibrare le proprie scelte, ricalca i contenuti della formula prevista dall’art. 115 del prog. prel. disp. att. c.p.p., seppur riadattandoli espressamente in chiave prognostica. Si ricorderà come, a norma di tale disposizione progettuale, il pubblico ministero avrebbe presentato al giudice la richiesta di archiviazione quando avesse ritenuto che gli elementi di prova acquisiti nelle indagini preliminari «non sarebbero (stati) sufficienti alla condanna dell’imputato». Come fu immediatamente segnalato, tale formula introduceva una regola di giudizio che si poneva «in netto contrasto con le scelte operate dalla legge-delega del 1987 e dal legislatore delegato in sede di emanazione del nuovo codice di procedura penale» [13]. L’aspetto che destava maggiori perplessità atteneva proprio all’arbitraria sovrapposizione, operata dall’art. 115 prog. prel. disp. att. c.p.p., del piano delle indagini a [continua ..]


4. Una regola capace di rivitalizzare una fase in crisi profonda?

Percorrendo i medesimi itinerari concettuali, l’assenza della «ragionevole previsione di condanna» si staglia quale fondamentale innovazione idonea a conferire maggiore portata operativa alla sentenza di non luogo a procedere pronunciabile all’esito dell’udienza preliminare. Condividendo la stessa formula prevista per l’archiviazione, essa varrebbe a rendere più fitte le maglie del filtro volto a trattenere in limine le imputazioni azzardate e a impedirne l’inopinato transito al dibattimento, provando a radicare il principio in dubio contra actionem, in grado di paralizzare gli effetti negativi delle situazioni dubbie sulle decisioni: laddove il pubblico ministero non sia riuscito «a dissipare dubbi e a colmare le lacune probatorie» non gli dovrebbe essere consentito di «tentare oltre» [26]. Si tratta, come è stato da subito evidenziato, dell’ennesima tappa della spasmodica «caccia a un parametro normativo davvero capace di imporre al giudice un rigoroso vaglio delle accuse in udienza preliminare, per evitare di ingolfare la fase dibattimentale e di trascinare ingiustamente gli imputati in giudizi senza costrutto» [27]. È noto come, sin dal suo varo, l’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi cruciali da cui sarebbe dipesa il funzionamento efficiente della procedura introdotta dal codice Vassalli. La realtà, però, si è rivelata ben diversa e, tolti i casi in cui l’imputato opti per i riti alternativi, la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere si è ridotta a ben poca cosa. Il radicato timore che una verifica più approfondita – incline a saggiare l’imputazione anche sul versante del merito dell’accusa con essa elevata – sarebbe valsa a tramutare lo scrutinio preliminare in una sorta di primo grado di giudizio, ha impedito, sino ad oggi, una diversa e migliore destinazione di tale segmento processuale agli scopi prefigurati dai codificatori. Una preoccupazione che ha finito per deresponsabilizzare il g.u.p. inducendolo ad una gestione pigra e burocratica, quanto sostanzialmente inutile, dell’istituto (al di fuori della ormai normata possibilità di fornire stabilità all’imputazione). Nei decenni la regola di giudizio tesa a regolare lo sbocco alla fase dibattimentale è stata oggetto [continua ..]


5. Un inedito filtro predibattimentale di più consistente capacità drenante?

Convinti della portata taumaturgica della “nuova” formula, la mancanza di una ragionevole previsione di condanna dovrebbe operare da formidabile frangiflutti per un altrimenti inondato giudizio dibattimentale innestato da una citazione diretta del p.m. spesso guidata da un esasperato e poco vigilato favor actionis; potrebbe fungere da poderoso criterio selettivo nei casi in cui più consistente si manifesta il “patologico” scarto fra azioni promosse e condanne ottenute all’esito del dibattimento. Secondo le aspettative del nomoteta, tale regola di giudizio potrebbe operare più efficacemente proprio nel «filtro intraneo» [40] previsto nella “neonata” udienza predibattimentale, ai sensi dell’art. 554-ter c.p.p. L’amplia­mento della platea dei reati per i quali si procede tramite citazione diretta a giudizio – e destinati, quindi, a transitare da tale inedito filtro - sembra discendere da questa convinzione. È agevole rendersi conto della ragione di questa scelta. Benché l’innovativa e inusuale scansione “bifasica” del dibattimento innestato dalla citazione diretta a giudizio appaia soluzione ricca di insidie – connesse, ad esempio, alla sosta temporanea del fascicolo del pubblico ministero presso la cancelleria del tribunale e alla conseguente tentazione, per il giudice cui verrà affidata l’eventuale segmento istruttorio e decisorio, di “guardarci dentro” –, la verifica predibattimentale viene affidata a un giudice facente pur sempre parte del medesimo ufficio giudiziario; un soggetto che è ingranaggio di quella stessa filiera produttiva che si ha co-interesse a mantenere ben efficiente, senza appesantirla con il “lavoro inutile” di un’istruzione dibattimentale non destinata ad approdare, ragionevolmente, a una pronuncia di condanna. Se così è, allora, non si comprende perché non si sia scelta la strada di estendere l’intraneità del controllo anche alle imputazioni che restano, invece, ancora affidate allo scrutinio di un giudice – quello dell’udienza preliminare – che non è certo portatore del medesimo interesse nutrito dal giudice del dibattimento. Anche alla luce del vistoso ampliamento della schiera dei reati per i quali si prevede di procedere tramite citazione diretta a giudizio, inoltre, dovremmo chiederci [continua ..]


6. Verso una preoccupante destrutturazione del modello: i rischi connessi alle nuove valutazioni predittive

Come detto, la «ragionevole previsione di condanna», impiegata quale nuovo discrimen prognostico per l’esercizio dell’azione penale (in ottica “giustificativa” dell’inazione) e per il “prosieguo” della stessa, riguarda sia le inziali scelte responsabili del pubblico ministero, sia i successivi vagli che fanno da preludio all’eventuale instaurazione del dibattimento: tanto la verifica affidata al giudice dell’udienza preliminare; quanto il controllo assegnato al giudice della nuova udienza predibattimentale, secondo le ardite traiettorie dell’inusuale cogestione bifasica del giudizio innescato dalla citazione diretta. Secondo il Legislatore del 2022 per tale via si perseguirebbero «due obiettivi certamente meritori» [42]: la riduzione del numero strabordante di giudizi da celebrare; l’abbassamento del tasso elevatissimo di esiti liberatori in dibattimento. Se il primo dei due obiettivi non appare in tal modo effettivamente raggiungibile, il secondo non sembra degno di essere perseguito. Questa formula iperbolica, da intendersi come ragionevole previsione di una «probabile condanna» [43], presiede indistintamente alle due valutazioni che guidano la determinazione del p.m. e la delibazione del giudice della fase preliminare al giudizio dibattimentale; omologa, in un formula unitaria e prognostica, un obiettivo – quello perseguito dal p.m. – che si pretende che l’organo d’accusa consideri come concretamente realizzabile, e un’anticipazione di giudizio – quella formulata dal giudice del filtro – operato sul medesimo materiale sul quale dovrà fondarsi (al netto delle differenze derivanti dal “metodo” di verifica – ordinario o abbreviato – prescelto) la decisione di merito; disvela una scarsa considerazione delle conseguenze che tale “omologazione” può produrre quanto all’incidenza della «ragionevole previsione di condanna», nelle due distinte prospettive valutative, sugli snodi successivi ed eventuali del processo. Al di là della effettiva capacità deflativa che la nuova regola sarà in grado di esprimere, nel suo dilatato campo di potenziale applicazione, ciò che maggiormente preoccupa è che la «ragionevole previsione di condanna» rischia, paradossalmente, di diventare dizione utile a [continua ..]


NOTE