Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Improcedibilità e ragionevole durata del processo: uno stupefacente caso di evaporazione del processo (di Paolo Ferrua, Professore emerito di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Torino)


L’improcedibilità, introdotta dalla recente riforma del processo penale, è frutto di un compromesso, volto ad ottenere il consenso dei pentastellati, ostili alla prescrizione sostanziale, causa estintiva del reato. Sono previsti termini di durata massima per le fasi dell’appello e del ricorso in cassazione con un complesso regime di proroghe, differenziato per categorie di reati. Diversi profili rendono problematico il rapporto con i precetti costituzionali relativi all’obbligatorietà dell’azione penale, alla ragionevole durata del processo e all’uguaglianza tra imputati. L’auspicio della ministra Cartabia è che l’improcedibilità trovi scarsa o nulla applicazione. Resta da stabilire a quale prezzo si realizzerà il benefico effetto. Data l’assenza di interventi strutturali e di depenalizzazione, è probabile che ciò avvenga attraverso una falcidia delle impugnazioni, alla quale predispongono le nuove regole sulla inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi. Particolare attenzione è, infine, rivolta al regime temporale dell’improcedibilità, ai rapporti tra inammissibilità e improcedibilità, tra improcedibilità e proscioglimento nel merito.

Parole chiave: improcedibilità, azione civile.

Unprocedibility and implications for civil action: an astonishing case of evaporation of the criminal trial

Unprocedibility, introduced by the recent reform of the criminal trial is the result of a compromise aimed at obtaining the consent of the pentastellati. This political movement rejects the substantive statute of limitations, which leads to the extinction of the crime. There are maximum time limits for the stages of appeal and revision before the Supreme Court (Court of Cassation), with a complex system of extensions differentiated by categories of crime. Several aspects make its relationship with constitutional provisions on the compulsory nature of criminal proceedings, the reasonable duration of criminal proceedings and the equality of defendants particularly problematic. Minister Cartabia’s hope is that unprocedibility will have little or no application. It remains to be seen at what price the beneficial effect will be achieved. Given the absence of structural intervention and decriminalisation, this is likely to be achieved by reducing the number of appeals to which the new rules on inadmissibility predispose because of the lack of specificity of the grounds.

“La legge ne assicura la ragionevole durata” (art. 111 comma 2 Cost.): «Sarebbe interessante sapere come: una mannaia pro reo, nel senso che a date scadenze debba essere assolto, manderebbe al diavolo vari articoli della Carta, dal 101 comma 2 al 112, convertendo gli affari penali in partite d’astuzia defatigatoria; sta bene scarcerarlo, ma assolverlo equivale a chiudere bottega; Dike vada altrove. La offendono anche i processi torbidi, eccome. Costituisce diritto elementare essere giudicati senza ingiustificato ritardo. L’unico rimedio pensabile qui sarebbe un risarcimento del danno da processo iniquamente lento […]. Quando la durata del tal processo risulti irragionevole, sebbene nessuno vi abbia colpa, è pensabile che ne risponda lo Stato in quanto lo dica una norma», [Franco Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 1295 s.

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SOMMARIO:

1. Le proposte della Commissione “Lattanzi” - 2. Giochi linguistici: la prescrizione processuale come ‘Improcedibilità’ - 3. I termini di durata massima e la progressiva estensione delle proroghe - 4. Alle origini della prescrizione processuale - 5. Progetti sulla prescrizione processuale - 6. L’improcedibilità nella riforma ‘Cartabia’ - 7. Dubbi di legittimità costituzionale: l’impegno della legge alla ragionevole durata e l’esercizio obbligatorio dell’azione penale - 8. Discriminazioni tra imputati - 9. Improcedibilità e azione civile - 10. improcedibilità e proscioglimento nel merito - 11. Regime temporale della improcedibilità - 12. L’improcedibilità al vaglio delle Corti europee - 13. Effetti indotti dalla improcedibilità - 14. Inammissibilità e improcedibilità - 15. Improcedibilità e ne bis in idem - 16. Conclusione - NOTE


1. Le proposte della Commissione “Lattanzi”

Si può facilmente immaginare lo stupore di un osservatore cognitivamente lucido davanti alla scelta di prevedere nel processo di primo grado la prescrizione sostanziale, come causa estintiva del reato, e nelle fasi di impugnazione la prescrizione processuale o improcedibilità. Non vi è nulla, infatti, che nel passaggio dal giudizio di primo grado a quello di impugnazione possa all’apparenza giustificare un così netto mutamento di prospettiva. La spiegazione dell’inusitato combinarsi delle due prescrizioni all’interno del processo va cercata altrove, nelle trattative ministeriali che hanno preceduto l’appro­vazione della riforma Cartabia. Riepiloghiamo la vicenda, per comprendere la quale è opportuna una breve premessa. La commissione Lattanzi incaricata di allestire una proposta di riforma aveva mostrato di privilegiare il ritorno alla prescrizione sostanziale, soppressa dopo il primo grado dalla legge Bonafede. Questa soppressione era stata da più parti giustamente criticata, per il vulnus che avrebbe determinato alle due finalità a cui era preordinata la prescrizione del reato. Da un lato, la funzione rieducativa della pena che sarebbe frustrata se la pena fosse eseguita a troppa distanza dalla commissione del fatto; dall’altro, l’oblio che il decorrere del tempo determina sulla memoria del reato, riducendo progressivamente l’in­teresse alla sua persecuzione. Di qui l’esigenza che la prescrizione sostanziale copra tutto l’arco temporale tra la commissione del reato e la sentenza irrevocabile. A questa critica, ben fondata, se ne aggiunse presto una diversa, focalizzata sulla presunta connessione tra la prescrizione sostanziale e il principio della ragionevole durata e, quindi, sul danno che la soppressione della prima avrebbe determinato al secondo; critica destinata a prevalere sulle altre anche se poco pertinente e, come vedremo, foriera di gravi equivoci. Perché poco pertinente? Perché è vero che la prescrizione protegge indirettamente dal rischio di un processo senza fine, dato che presto o tardi interviene determinando l’estinzione del reato e, di conseguenza, la fine del processo. Ma è altrettanto vero che la sua funzione, focalizzata sui fini appena indicati, non è quella di garantire la ragionevole durata; se così fosse, sarebbe calibrata sulle fasi del processo, come infatti accade per [continua ..]


2. Giochi linguistici: la prescrizione processuale come ‘Improcedibilità’

Come prevedibile, il ritorno alla prescrizione sostanziale in sede di impugnazione non poteva riuscire gradito ai ministri pentastellati: divisi tra la difesa ad oltranza della riforma Bonafede e il timore di elezioni anticipate in caso di una rottura dell’accordo con le forze di maggioranza, invano cercavano nel codice delle convenienze la via di un ragionevole compromesso che non suonasse come resa. Fu allora che qualcuno ebbe la luminosa idea di propiziare il loro consenso, attraverso un derisorio gioco linguistico, teso a sopprimere il richiamo alla parola prescrizione, pur conservando in qualche modo l’istituto. La prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato non si prestava a questa manipolazione. La prescrizione processuale, invece, sì. Essendo volta a troncare direttamente il processo, senza l’anello intermedio della estinzione del reato, poteva senza troppe forzature essere denominata ‘improcedibilità’, mediante uno slittamento metonimico dalla causa verso l’effetto. La prova riesce e al Consiglio dei ministri, convocato l’8 luglio 2021, i ministri pentastellati, sedotti dalla nuova denominazione, votano gli emendamenti alla riforma Bonafede, cadendo nell’illusione referenziale; o meglio, fingendo di cadere, perché verosimilmente, nell’intimo hanno compreso che in realtà veniva loro offerta una ‘prescrizione’, forse più minacciosa ancora, per le sorti del processo, rispetto alla prescrizione sostanziale, come causa estintiva del reato. Importante, per non essere umiliati, è che sulla parola ‘prescrizione’ cada, in sede di impugnazione, una sorta di tabù, un biblico divieto di ‘nominazione’. L’esito è di agghiacciante comicità: per la prima volta nella storia del processo un istituto viene accolto non per il contenuto che veicola, ma per il nome che lo designa, gradito ad una forza politica [4]. Scrive eloquentemente su la Repubblica del 6 luglio 2021 Liana Milella: «Via quella parola – “prescrizione” – protagonista dell’ormai biennale diatriba sulla giustizia. Dalle stanze della ministra della Giustizia Marta Cartabia è uscito il nuovo vocabolo che dominerà il dibattito tra i partiti sulla riforma penale. La parola è “improcedibilità”. Si chiamerà così il meccanismo giuridico [continua ..]


3. I termini di durata massima e la progressiva estensione delle proroghe

Nel testo approvato l’8 luglio 2021 dal Consiglio dei ministri la prescrizione sostanziale si interrompe definitivamente con la sentenza di primo grado; da quel momento subentra la ‘improcedibilità’, i cui termini sono fissati in due anni per l’appello e in un anno per la cassazione. Tuttavia, «nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lett. a), e per i delitti di cui agli artt. 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis del codice penale i termini di durata massima del processo possono essere prorogati con ordinanza del giudice procedente nel caso di giudizio particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di legittimità». La soluzione, già condivisa dai vertici, incontra ostilità presso il popolo pentastellato, non così ingenuo da non percepire che l’improcedibilità altro non è che la prescrizione processuale, diversamente nominata. Dei malumori si fa subito interprete l’ex premier Giuseppe Conte che dapprima protesta vivacemente (“Non possiamo consentire che possano svanire nel nulla centinaia di migliaia di processi e questo è un rischio concreto”: così il 20 luglio 2021, agenpress.it); poi si lancia una trattativa per cercare un accordo che sottragga al rischio della improcedibilità i più gravi reati. A quel punto, colte da eccitazione morale, intervengono le altre forze della maggioranza, decise a non lasciare ai pentastellati il monopolio degli emendamenti alla riforma Bonafede; e iniziano a suggerire modifiche al testo già approvato, ora accodandosi alle richieste di Conte, ora prospettando nuove eccezioni da introdurre all’ordi­nario regime della improcedibilità. Un coro, insomma, di piccole e grandi signorie, politicamente assai distanti tra loro, ma unite nella determinazione a rivendicare la propria benefica impronta nel testo definitivo della nuova legge. Si giunge così, nel Consiglio dei ministri del 29 luglio 2021, ad un faticoso e contorto compromesso, articolato in uno stillicidio di termini massimi, proroghe disposte dal giudice ed esclusioni dal regime di improcedibilità: con il risultato che ogni [continua ..]


4. Alle origini della prescrizione processuale

A differenza della prescrizione sostanziale, preordinata alle finalità appena indicate, la prescrizione processuale pretende di garantire la ragionevole durata delle fasi procedimentali di cui scandisce i tempi massimi; anche se, come vedremo, è proprio questa pretesa a porsi in sostanziale contrasto con i precetti degli artt. 111 comma 2 e 112 Cost. Da cosa prende spunto l’idea della prescrizione processuale? Da una constatazione di per sé corretta, ma alimentata, per l’appunto, dall’equivoco che la prescrizione sostanziale debba garantire la ragionevole durata del processo. Più in particolare, si osserva come la prescrizione sostanziale operi, in un certo numero di casi, ora per eccesso ora per difetto. Per eccesso, quando essendo scoperto il reato con notevole ritardo rispetto alla commissione del reato, il tempo rimasto a disposizione del processo appaia del tutto insufficiente. Per difetto, quando essendo scoperto immediatamente o quasi il reato, il tempo riservato al processo risulti, invece, troppo esteso. Sarebbe un discorso ineccepibile, se il fine della prescrizione sostanziale fosse quello di garantire la ragionevole durata del processo; ma destinato a rivelarsi fallace se si bada alle effettive finalità della prescrizione sostanziale. Tanto la funzione rieducativa della pena quanto l’oblio sulla memoria del reato, connesso al trascorrere del tempo, esigono che i termini di prescrizione siano misurati non sulla durata del processo ma sulla distanza tra il tempo di commissione del reato e quello di espiazione della pena; dunque, è solo in rapporto a quei due estremi che va valutata l’adeguatezza dei termini di prescrizione. Nasce da questo fraintendimento l’idea della prescrizione processuale scandita sui tempi del processo, con la pretesa di assicurare la ragionevole durata; e, naturalmente, destinata ad operare dall’esordio del procedimento che, a seconda della prospettiva seguita, può essere identificato nell’inizio delle indagini preliminari o nell’esercizio dell’azione penale; non certo, come accade con la riforma Cartabia, solo a partire dalla fase delle impugnazioni [5].


5. Progetti sulla prescrizione processuale

L’istituto della prescrizione processuale, prima di essere recepito nella riforma ‘Cartabia’, era stato accolto in alcuni disegni di legge, tutti decaduti, presentati nella XV e XVI legislatura: nel d.d.l. S/878 del 26 luglio 2006, d’iniziativa dei senatori Brutti, Finocchiaro ed altri («Abrogazione della legge 5 dicembre 2005, n. 251, e disposizioni in materia di prescrizione del reato»); d.d.l. S/260 del 20 giugno 2001, d’iniziativa dei senatori Fassone, Ayala ed altri («Nuova disciplina della prescrizione del reato»); nel d.d.l. S/2699 del 22 gennaio 2004, d’iniziativa dei senatori Fassone, Ayala ed altri («Disposizioni in materia di prescrizione del reato alla luce del principio di “ragionevole durata” del processo»); nel d.d.l. S/1880 del 12 novembre 2009, d’iniziativa dei senatori Gasparri, Quagliarello ed altri («Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»); e, ancora, nel disegno di legge delega presentato al Ministro della Giustizia il 19 dicembre 2007 dalla Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal prof. Giuseppe Riccio. In alcuni di questi progetti la prescrizione processuale scatta con l’inizio delle indagini preliminari, in altri con l’esercizio dell’azione penale; in alcuni esclude la prescrizione sostanziale, in altri vi convive. Nessuno dei progetti va in porto e l’idea della prescrizione processuale viene accantonata sino ad essere tradotta in legge dalla riforma in esame.


6. L’improcedibilità nella riforma ‘Cartabia’

Nella riforma Cartabia la disciplina della improcedibilità varia in funzione della tipologia di reati, articolandosi in ben quattro livelli: a) Il regime ordinario dei termini di durata massima resta definito in due anni per l’appello e in uno per la cassazione. In caso di giudizi particolarmente complessi, «in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare», i termini «sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede, per un periodo non superiore a un anno per l’appello e a sei mesi per il giudizio di cassazione»; b) ulteriori proroghe della medesima durata, che non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione, possono essere disposte «per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis primo comma del codice penale»; c) ulteriori proroghe della medesima durata, senza un limite alla loro reiterazione, possono essere disposte «per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609-bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, […] e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309»; d) l’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima è esclusa per i reati punibili con l’ergastolo. Il potere di proroga ha carattere tipicamente discrezionale, essendo mediato da una complessa valutazione di cui la legge si limita a fissare i criteri; con la differenza, di scarsa rilevanza pratica, che, nel primo caso (sub a), i termini «sono prorogati», negli altri, le proroghe «possono essere disposte». «Contro l’ordinanza che dispone la proroga […], l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, entro [continua ..]


7. Dubbi di legittimità costituzionale: l’impegno della legge alla ragionevole durata e l’esercizio obbligatorio dell’azione penale

La disciplina appena esposta può essere criticata da due distinti punti di vista: a) sotto il profilo della inammissibilità della prescrizione processuale (o improcedibilità), comunque sia regolata, nel nostro sistema costituzionale, con particolare riguardo agli artt. 111, comma 2, e 112, Cost.; b) sotto il profilo delle discriminazioni che determina tra gli imputati (artt. 3, e 27, comma 2, Cost.). Resta aperto l’inter­rogativo su quale rilevanza, in un eventuale giudizio di legittimità, possa assumere il fatto che la riforma coinvolga, a vario titolo, due ex presidenti della Corte costituzionale: nessuna, dovrebbe essere la ferma risposta. Ma che così sia nella realtà, qualche dubbio forse è lecito avanzare (il pensiero corre anche alla sentenza costituzionale n. 1/2013 sulle intercettazioni casuali del presidente Napolitano); come, d’altron­de, è possibile che l’emergenza legata ai finanziamenti europei induca la Corte a moderare la severità del suo giudizio. Qui, ovviamente, si prescinderà da ogni considerazione del genere, mantenendo il discorso sul piano strettamente giuridico-costituzionale. Quanto all’art. 111, comma 2, Cost., è fuori discussione l’elementare diritto alla ragionevole durata del processo e, soprattutto, il suo carattere funzionale rispetto alle fondamentali garanzie del modello accusatorio, quali l’oralità, l’immediatezza e il contraddittorio, destinate ad un progressivo declino con l’eccessivo protrarsi dei tempi procedimentali. La questione, il punto da dibattere è come realizzare un principio la cui attuazione è rimessa alle scelte discrezionali del legislatore. Appare, tuttavia, evidente che, nell’impegnare la legge ad assicurare la ragionevole durata del processo, il precetto costituzionale si riferisca ad interventi positivi di tipo acceleratorio, ossia volti a propiziare, nel pieno rispetto delle garanzie, una tempestiva conclusione del processo – dalla depenalizzazione alla fluidità delle fasi processuali – interventi dei quali, sia detto di sfuggita, non si vede neanche l’ombra nella riforma ‘Cartabia’; di certo non allude ad una mannaia che, decorsi certi termini, si abbatta sul processo, eclissandolo con una sentenza di improcedibilità che rappresenta la più nichilistica e vuota delle sue possibili [continua ..]


8. Discriminazioni tra imputati

Seri dubbi di legittimità costituzionale, specie sotto il profilo dell’art. 3 Cost., si addensano, infine, su singoli aspetti della disciplina assegnata alla improcedibilità. Primo. Non esiste alcun ragionevole motivo – se non quello, puramente strumentale, di assecondare i desiderata dei pentastellati – perché sino alla conclusione del giudizio di primo grado debba operare la prescrizione sostanziale, per poi bruscamente convertirsi in ‘improcedibilità’ in sede di impugnazione; quasi che, nel passaggio dal primo ai successivi gradi di giudizio, qualcosa mutasse sul piano delle finalità a cui obbediscono i due istituti. Secondo. Se i termini fissati a pena di improcedibilità sono funzionali alla ragionevole durata del processo – come è nella logica (per me viziata alla radice) di questa riforma – allora vanno garantiti a tutti gli imputati, nessuno escluso, dato che il principio contemplato dall’art. 111, comma 2, Cost. non consente discriminazioni. Non si dimentichi che anche gli imputati dei più gravi reati, per i quali è inapplicabile l’improcedibilità o le proroghe sono illimitate, potrebbero essere innocenti, ingiustamente accusati. Contemplare termini di durata massima del processo e poi consentire che questo possa potenzialmente protrarsi all’infinito per certi reati appare difficilmente conciliabile con gli artt. 3, 27, comma 2, e 111, comma 2, Cost. [16]. Terzo. La divisione dei reati in ben quattro categorie, con termini variabili di durata massima, appare decisamente arbitraria. I tempi necessari a definire un processo mutano a seconda della complessità del caso e sono definibili solo in concreto, in base all’evidenza disponibile. In altre parole, la scala di gravità dei reati non corrisponde a quella dei tempi processuali. La tipologia del reato è, senza dubbio, in correlazione con l’allarme sociale generato dal mancato accertamento delle responsabilità, ma non incide minimamente sul diritto dell’imputato ad una tempestiva giustizia. Diverso è il discorso per la prescrizione sostanziale, le cui specifiche finalità (la tutela della funzione rieducativa della pena e il logorio sulla memoria del reato) impongono termini variabili a seconda della gravità del reato; e, benché sia un’opzione estrema, suscettibile di critica, si [continua ..]


9. Improcedibilità e azione civile

Il nuovo comma 1-bis, aggiunto dalla riforma ‘Cartabia’ all’art. 578 c.p.p., afferma che «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale» (art. 2 lettera b), l. 27 settembre 2021, n. 134) [19]. È una netta deviazione dalla disciplina contenuta nel comma 1 del medesimo articolo, secondo cui «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili». Si discute se, in base alla nuova disposizione, il giudice civile d’appello decida ex novo o come giudice dell’impugnazione rispetto alle statuizioni civili contenute nella sentenza penale. Il quadro normativo appare, a dir poco, contraddittorio. La parola «prosecuzione» potrebbe orientare nel secondo senso; e idem la circostanza che si tratti di un giudice di appello. In realtà, il termine «prosecuzione» non è decisivo perché sta solo ad indicare l’identità dell’azione quanto a parti, petitum e causa petendi; e neppure il richiamo al giudice d’appello appare determinante, perché, se il giudice civile decidesse come giudice dell’impugnazione, in caso di improcedibilità dichiarata dalla Cassazione, la sede di prosecuzione dell’azione dovrebbe essere la Cassazione civile per evidenti ragioni di simmetria. Per converso, la circostanza che il giudice civile decida «valutando le prove acquisite nel processo penale» – unita al silenzio del legislatore sulla sopravvivenza della condanna al risarcimento – avvalora la conclusione che a mantenere efficacia non siano le disposizioni civili contenute nella sentenza [continua ..]


10. improcedibilità e proscioglimento nel merito

La dichiarazione di estinzione del reato coinvolge il merito e, come tale, si pone in un rapporto di concorrenza con le altre formule di proscioglimento. L’art. 129, comma 2, c.p.p. risolve la concorrenza, affermando che, in presenza di una causa estintiva del reato, «se dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta». L’improcedibilità, invece, dato il suo carattere processuale, preclude l’esame del merito, al pari della inammissibilità. Come in un gioco di scatole cinesi, il merito sta all’interno del processo: se si chiude la porta del processo – come accade con l’improcedibilità che tronca la prosecuzione della fase protrattasi oltre il termine massimo – non si può aprire quella del merito. Pertanto, a differenza di quanto avviene in caso di sopravvenuta estinzione del reato, risulta inapplicabile l’art. 129, comma 2, c.p.p., essendo l’improcedibilità destinata inesorabilmente a prevalere su ogni altra formula di proscioglimento; con l’ulteriore conseguenza che, se l’improcedibilità sopraggiungesse pendente l’impugnazione del pubblico ministero contro un’assoluzione, l’imputato vedrebbe questa convertita nella meno favorevole sentenza di non doversi procedere. Stupefacente reformatio in peius per decorso del tempo. Qualche autore, pur riconoscendo «che l’art. 129, comma 2, c.p.p. si riferisce solo al concorso tra le cause di proscioglimento nel merito e una causa di estinzione del reato», ritiene «che la ratio della norma possa estendersi anche al caso del concorso tra cause di proscioglimento nel merito e sopravvenuta improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p.» [22]. Tesi poco convincente per le ragioni appena esposte, che mettono in luce la radicale differenza tra l’improcedibilità e l’estinzione del reato, tale da escludere qualsiasi possibilità di applicazione analogica per identità di ratio. La sopravvenuta estinzione del reato, a differenza della improcedibilità, non interrompe né estingue il processo, che si conclude fisiologicamente con una sentenza di merito, secondo la gerarchia delle formule [continua ..]


11. Regime temporale della improcedibilità

Si discute se alla improcedibilità si applichi il regime ‘processuale’ del tempus regit actum, alla cui stregua sono immediatamente operative le eventuali disposizioni sopravvenute, quale che sia il loro contenuto (favorevole o sfavorevole per l’imputato) [25]; o quello ‘sostanziale’ del tempus commissi delicti, salva l’applicazione delle più favorevoli disposizioni nel frattempo sopravvenute, ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost. e dell’art. 2 c.p. Qualche autore è orientato nel secondo senso sulla base del rilievo che anche le disposizioni sulla improcedibilità si tradurrebbero nella ‘non punibilità’ dell’imputato e quindi dovrebbero ritenersi soggette, come le disposizioni penali sostanziali, alla disciplina imposta dall’art. 25, comma 2, Cost. [26]. Se così fosse, vi sarebbe da dubitare sulla legittimità dell’art. 2, comma 3, della riforma in esame, secondo cui le nuove disposizioni sulla improcedibilità «si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020». Sul piano propriamente giuridico il discorso non convince. A differenza della prescrizione sostanziale, che si risolve in una causa di non punibilità per estinzione del reato, l’improcedibilità si limita a troncare il processo, senza affrontare il tema della punibilità; l’ipotetico reato non si estingue, ma il giudice è destituito del potere di decidere nel merito. Senza dubbio l’effetto è di sottrarre l’imputato alla condanna, anche perché alla ripresa del processo si oppone il ne bis in idem. Ma tanto il ne bis in idem quanto la ‘improcedibilità’ restano disposizioni ad ogni effetto ‘processuali’, perché né il primo né la seconda riguardano la punibilità, ma soltanto la possibilità o l’impossibilità di ‘procedere’, la ‘processabilità’, se è consentita la parola: non si confonda il ne bis in idem processuale, qui pertinente, con quello sostanziale, relativo al concorso apparente di norme. La punibilità nel senso propriamente giuridico – che attiene al diritto sostanziale – non è scalfita né dalla improcedibilità né dalle conseguenze di carattere [continua ..]


12. L’improcedibilità al vaglio delle Corti europee

A prescindere dalle eventuali censure della Corte costituzionale, c’è da attendersi che sul meccanismo della improcedibilità intervengano le due Corti europee. Come nel caso della sentenza ‘Taricco’, è prevedibile che la Corte di giustizia, interpellata da qualche giudice nazionale, autorizzi la disapplicazione delle norme sulla improcedibilità, ogniqualvolta escano lesi gli interessi europei (e lo saranno quanto più ci si avvalga di fondi europei). Trattandosi di norme processuali, non soggette al precetto dell’art. 25, comma 2, Cost., ma alla regola del tempus regit actum (v. il precedente paragrafo) non sarà possibile invocare il più favorevole regime della improcedibilità vigente al momento della commissione del fatto; esattamente come non lo sarà nel caso di una legge che provveda ad aumentare i termini fissati a pena di improcedibilità. Il che, sia detto di sfuggita, apre la via al rischio o all’opportunità – a seconda dell’angolo visuale – di ripetuti interventi legislativi volti a prolungare i termini massimi, in prossimità della loro scadenza nei processi su cui più si concentra l’attenzione dei mass-media. Probabile è anche l’intervento della Corte di Strasburgo, quando dall’improcedibilità derivi un rilevante danno per la vittima del reato; ne costituisce un buon esempio la disposizione appena menzionata, che, in caso di sopravvenuta improcedibilità, vanifica la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni, già disposta dal giudice di primo grado.


13. Effetti indotti dalla improcedibilità

Dalla improcedibilità possono derivare due conseguenze, apparentemente opposte, ma in realtà perfettamente compatibili. Il primo è quello, senza dubbio paradossale, di decelerare, in un certo numero di casi, il corso dei processi, convertendo i tempi ‘massimi’ in tempi ‘medi’. L’esperienza insegna che, quando si fissano termini per il compimento di una determinata attività, quei termini diventano non solo il tempo ‘sufficiente’ ma anche il tempo ‘necessario’; e poiché quei termini, con il meccanismo delle proroghe, non sono certo i tempi ideali, l’effetto in taluni casi può essere un ritardo dei tempi processuali. Si aggiunga che il passaggio dalla prescrizione del reato, operante in primo grado, alla improcedibilità, operante in fase di impugnazione, lascia interamente a disposizione del giudice di primo grado i termini di prescrizione ‘sostanziale’; la consapevolezza che in nessun modo il tempo risparmiato potrà essere utilizzato dai giudici dei gradi successivi per i quali scatteranno ab initio i nuovi termini di improcedibilità, non contribuirà sicuramente all’accelerazione dei tempi processuali, rischiando semmai di rallentarli. Il secondo effetto, assai più insidioso, è indirettamente evocato da una previsione, in sé rassicurante, recentemente espressa a Palermo della ministra Cartabia (v. Il Dubbio, 11 novembre 2021): «L’impro­cedibilità che tanto ha suscitato discussioni deve rimanere un’extrema ratio, possibilmente da non attivare mai». Se così fosse, sarebbe naturale chiedersi, per l’ennesima volta, se davvero valesse la pena di ricorrere a un istituto di così dubbia costituzionalità solo per inseguire il consenso dei pentastellati. Non sarebbe stato mille volte preferibile e, di certo, più coerente ripristinare, con opportune modifiche, la prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato? Tuttavia, non è su questo aspetto che intendiamo soffermarci. Ammettiamo per ipotesi che, come afferma la ministra, l’improcedibilità resti di fatto inoperante, grazie alla tempestiva conclusione dei processi. L’interrogativo pertinente riguarda i mezzi con i quali si realizzerà il benefico effetto. In assenza di una coraggiosa opera di depenalizzazione – sempre annunciata e mai [continua ..]


14. Inammissibilità e improcedibilità

Con la menzionata ordinanza del 19 novembre 2021, n. 43883 [30], la settima sezione della cassazione ha affermato la prevalenza della inammissibilità sulla improcedibilità osservando che «la proposizione di un ricorso inammissibile non consente la costituzione di valido avvio della corrispondente fase processuale e determina la formazione del “giudicato sostanziale”, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione, in quanto non investito del potere di cognizione e decisione sul merito del processo, non può rilevare eventuali cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p.»; e ha concluso che «i suddetti principi, sebbene riferiti alla prescrizione, sono estensibili all’istituto della “improcedibilità”, in quanto la ratio della nuova normativa, certamente finalizzata a garantire la ragionevole durata del processo, implica che tale correlazione è solo tendenziale, non potendo prestarsi a forma di strumentalizzazione realizzabili attraverso la proposizione di ricorsi inammissibili». Che la inammissibilità debba prevalere sulla ‘improcedibilità’, così come prevale sulla prescrizione ‘sostanziale’, è di tutta evidenza. Tanto la improcedibilità quanto la inammissibilità hanno carattere processuale e, come tali, precludono l’esame del merito, avendo entrambe la precedenza sulle cause di non punibilità: come in un gioco di scatole cinesi, se non è aperta la porta del processo, non si può aprire quella del merito che sta all’interno. Ma c’è una netta differenza. La improcedibilità chiude una fase con una sentenza che, divenuta irrevocabile, sostituisce quella già emessa, come accade nella logica delle impugnazioni; la inammissibilità impedisce l’apertura della fase, invalidando quanto fosse già stato compiuto a seguito dell’atto inammissibile. La conseguenza è chiara: l’inammissibilità, quando sia accertata, non solo impedisce di dichiarare l’improcedibilità, ma invalida l’improcedibilità eventualmente già dichiarata nella fase introdotta da un’impugnazione inammissibile. In altre parole, ad assumere rilevanza, non è il momento in cui l’inam­missibilità è accertata, ma quello in cui si è [continua ..]


15. Improcedibilità e ne bis in idem

Quid iuris, infine, sui rapporti tra l’improcedibilità e la regola del ne bis in idem? Una breve premessa è necessaria. La tripartizione più coerente delle sentenze è quella tra sentenze meramente processuali, nelle quali va inclusa per l’appunto la dichiarazione di improcedibilità, sentenze di proscioglimento (o di assoluzione: sono termini sinonimi), nelle quali rientra la estinzione del reato, e sentenze di condanna, fra le quali la sentenza di applicazione della pena concordata. Le prime appartenenti al genere delle decisioni sul processo, le altre a quello delle decisioni sul merito [33]. Non è questa, tuttavia, la sistematica codicistica che, da un lato, include l’estinzione del reato fra le sentenze di non doversi procedere e, dall’altro, riconduce queste ultime nell’ambito delle sentenze di proscioglimento (cfr. la rubrica dell’art. 469 c.p.p., la Sezione I, capo II del Libro VII e l’art. 531 c.p.p.). Bisogna, dunque, ammettere che l’art. 649 c.p.p., nel collegare la regola del ne bis in idem alle sentenze di proscioglimento e di condanna, la estende anche alle sentenze di non doversi procedere, lasciando salva l’eccezione di cui all’art. 345 c.p.p. Resta da stabilire se alla dichiarazione di improcedibilità possa applicarsi l’art. 345 comma 2 c.p.p. che estende alla mancanza di ogni altra condizione di procedibilità la regola contemplata nel primo comma, per effetto della quale l’azione penale può essere nuovamente esercitata «se è in seguito proposta la querela, l’istanza, la richiesta o è concessa l’autorizzazione ovvero se è venuta meno la condizione personale che rendeva necessaria l’autorizzazione». Si può discutere sul punto. Tuttavia, nel caso della improcedibilità, a sopraggiungere non può essere materialmente la condizione di procedibilità, come richiede l’art. 345 c.p.p., essendo il tempo ormai trascorso; ma soltanto una diversa qualifica del fatto tale da rendere applicabili termini più ampi. La possibilità di riproporre l’azione parrebbe, quindi, esclusa, anche perché, agli effetti dell’art. 649 c.p.p., ferma restando l’identità del fatto, risulta irrilevante il semplice mutamento del titolo, del grado o delle circostanze. La conseguenza è la piena e [continua ..]


16. Conclusione

La conclusione deriva dalle premesse del discorso sin qui svolto. L’improcedibilità è il frutto di un’infelice contrattazione tra le forze politiche, condotta sotto l’incubo dell’emergenza sanitaria e della pressione economica che ne è derivata; a riconoscerlo, più o meno esplicitamente, sono ormai gli stessi esponenti che l’hanno concepita. Fortunatamente, non è un istituto scolpito su tavole di marmo. Non lo erano le sentenze costituzionali della svolta inquisitoria del 1992, travolte dalla riforma costituzionale del ‘giusto processo’; non si vede perché debba esserlo l’improcedibilità. Il tentativo di rimediare ai vizi e alle contraddizioni dell’improcedibilità a colpi di interpretazioni ‘creative’ o in via di ritocchi e sentenze costituzionali pare destinato ad un sicuro fallimento. Credo che i tempi siano maturi per reclamare con forza il ritorno all’antica, consolidata prescrizione sostanziale (come, d’altronde, originariamente suggerito dalla commissione ‘Lattanzi’). Irrealistico? Per nulla; è una sfida difficile, ma perfettamente ragionevole. La rassegnazione, l’accet­tazione come inevitabile dello stato di fatto non è mai un buon metodo.


NOTE
Fascicolo 1 - 2022