Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Un'attesa lunga vent´anni: il ricorso straordinario per l'esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo (di Rosa Maria Geraci, Professore associato di Procedura penale – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)


A distanza di più di vent’anni dalla Raccomandazione R (2000) 2 del 19 gennaio 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, la l. n. 134/2021 prevede finalmente l’introduzione di un nuovo, autonomo rimedio revocatorio per l’esecuzione del giudicato di Strasburgo. Si chiude così la lunga parentesi di supplenza pretoria culminata con l’intervento additivo di cui alla sentenza costituzionale n. 113/2011 e l’introduzione della c.d. “revisione europea”. Ne risulta riaffermato con forza il principio di legalità processuale; al tempo stesso, però, si aprono prospettive inedite in punto di tendenze evolutive del sindacato de legitimitate.

Parole chiave: ricorso straordinario, esecuzione sentenze della Corte EDU.

A twenty-year wait: the extraordinary appeal to enforce the judgements of the Strasbourg Court

After more than twenty years from the Recommendation R (2000) 2 of 19 January 2000 of the Committee of Ministers of the Council of Europe, law no. 134/2021 finally provides for the introduction of a new, extraordinary appeal for the execution of the Strasbourg judgements. This marks the end of the replacement work of case law, which culminated in Constitutional Court ruling no. 113/2011 and the introduction of the so-called "European revision". As a result, the principle of procedural legality has been strongly reaffirmed; at the same time, however, unprecedented prospects are opening up regarding the evolutionary trends of the “de legitimitate” review.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Dalla supplenza giudiziaria alla “revisione europea” - 3. Un nuovo, autonomo rimedio revocatorio - 4. La modulazione dei rapporti tra rimedi post iudicatum - 5. Tendenze evolutive - NOTE


1. Premessa

Una delle novità più significative e attese della l. 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “Riforma Cartabia”) [1] è contenuta all’art. 1, comma 13, lett. o), che, colmando un vuoto normativo a lungo protrattosi e recependo pedissequamente le indicazioni al riguardo fornite dalla “Commissione Lattanzi” [2], delega il governo ad introdurre un rimedio impugnatorio ad hoc per garantire l’esecuzione delle sentenze definitive della Corte di Strasburgo e l’assolvimento da parte del nostro Paese dell’obbligo di conformazione sancito dall’art. 46 CEDU [3]. Più esattamente, si prevede che il futuro «mezzo di impugnazione straordinario» sia proponibile «davanti alla Corte di cassazione», «entro un termine perentorio», «dal soggetto che abbia presentato il ricorso» innanzi al Giudice europeo; si attribuisce, inoltre, all’organo di nomofilachia «il potere di adottare i provvedimenti necessari e disciplinare l’eventuale procedimento successivo» e si grava il legislatore delegato del non semplice compito di districare i nodi dei rapporti tra rimedi straordinari, coordinando il nuovo strumento revocatorio con la rescissione del giudicato ex art. 629 bis c.p.p. (per cui si invoca pure l’individuazione di una «coerente collocazione sistematica») e con l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 c.p.p. Si imbocca così finalmente – a distanza di più di vent’anni dalla Raccomandazione R (2000) 2 del 19 gennaio 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa [4] – la “via maestra” per la soluzione del problema: la via legislativa, percorso obbligato per affrontare la delicata materia delle possibili, eccezionali eventualità di superamento del giudicato, da ancorare necessariamente ad una logica di stretta legalità [5]. Al tempo stesso, comportando l’innovazione la sostituzione dell’attuale “revisione europea” – in avvenire non più utilizzabile per la “riapertura” dei processi giudicati non equi – si restituisce coerenza intrinseca all’istituto ex artt. 629 ss. c.p.p., snaturato nella sua autentica fisionomia strutturale dalla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 113/2011 [6].


2. Dalla supplenza giudiziaria alla “revisione europea”

Come è noto, l’inerzia del legislatore italiano – per anni sordo ai reiterati e pressanti moniti di istituzioni sovranazionali e Corte costituzionale affinché anche il nostro Paese si dotasse di un meccanismo idoneo a garantire l’esecuzione del giudicato europeo [7] – aveva spianato la strada ad un’opera di supplenza pretoria. Fallite le pur intentate iniziative legislative allo scopo avviate [8], si era infatti intrapreso un non agevole percorso giurisprudenziale che, inaugurato dalla Corte di legittimità con una serie di escamotages interpretativi a legislazione invariata (non privi, invero, di talune forzature e aporie sistematiche) [9], si era completato con l’intervento del Giudice delle leggi, culminato nell’ampliamento del rimedio revocatorio ex art. 630 c.p.p. e l’introduzione della nuova “revisione europea” [10]. L’intollerabilità giuridica – oltre che etica e politica – dell’ulteriore persistenza di una lacuna legis preclusiva dell’adeguamento convenzionale [11] era dunque sfociata in un intervento additivo che, per quanto consapevole dei limiti e delle incongruenze intrinseci, ravvisava nell’istituto della revisione “tradizionale” l’unico strumento in grado di garantire – a diritto immutato – la riapertura del processo sanzionato dalla Corte europea. L’epilogo decisorio – coraggioso e necessitato – non impediva tuttavia alla Corte di riconoscere che «l’incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull’art. 630 c.p.p. non implica[va] una pregiudiziale opzione […] a favore dell’istituto della revisione», essendo al contrario «giustificata soltanto dall’ine­sistenza di altra e più idonea sedes dell’intervento additivo»: la revisione insomma costituiva l’istituto, fra quelli esistenti nel sistema processuale penale, che presentava «profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appar[iva] necessaria» [12], ma non certo quello oggettivamente più adeguato. Del resto, già con altro significativo intervento in materia la Consulta, prendendo espressamente posizione sul merito delle opzioni a disposizione del legislatore ordinario per superare il giudicato censurato in sede europea, aveva espresso un netto giudizio di [continua ..]


3. Un nuovo, autonomo rimedio revocatorio

È proprio nel solco di questi ultimi disegni riformatori che sembra collocarsi l’opzione delineata dall’art. 1, comma 13, lett. o), della l. 27 settembre 2021, n. 134, recettiva – come detto – delle indicazioni al riguardo fornite dalla Commissione Lattanzi [18]. Vi si prevede, infatti, di «introdurre un mezzo di impugnazione straordinario» distinto e autonomo da quelli esistenti, specificamente deputato a dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo. In questa prospettiva – come non potrebbe essere altrimenti – i criteri direttivi all’uopo formulati tracciano le coordinate solo essenziali del nuovo istituto, limitandosi a poche ma precise indicazioni vincolanti circa la competenza, i limiti temporali di attivabilità e la legittimazione; in aggiunta, impegnano il legislatore delegato anche alla modulazione dei rapporti tra rimedi post iudicatum, coordinando l’instaurando mezzo con gli istituti ex artt. 629 bis e 670 c.p.p. Ne risulta uno strumento solo abbozzato, i cui tratti caratteristici fondamentali tuttavia pare possibile tentare di delineare sommariamente. Ciò che sembra prender corpo è innanzitutto un nuovo rimedio revocatorio tipico, ispirato ad esigenze di favor, affidato – come già accade in altri Paesi, quali la Francia, il Belgio o la Germania – alla competenza della Corte di cassazione che, in quanto organo di nomofilachia, appare il più idoneo a coniugare l’esigenza di effettività della tutela del singolo con l’uniformità delle procedure interne volte a rimettere in discussione il giudicato nazionale reputato unfair. Proprio la necessità di rimarcarne l’autonomia, scongiurando possibili confusioni con altre impugnazioni straordinarie, fa apparire auspicabile l’attribuzione al nuovo mezzo di una denominazione ed una collocazione sistematica autonome: sotto il primo profilo, si potrebbe adottare la dicitura “Ricorso straordinario a seguito delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo”, abbandonando definitivamente l’espressione “revisione”, idonea a perpetuare incertezze e fraintendimenti; sotto il secondo, come suggerito dalla Commissione Lattanzi, dovrebbe inserirsi nell’ambito del libro IX del codice di rito un nuovo Titolo IV Ter che, nel ribadire la natura straordinaria del [continua ..]


4. La modulazione dei rapporti tra rimedi post iudicatum

La parte finale della delega di cui all’art. 1, comma 13, lett. o), l. n. 134/2021, impegna il Governo al non agevole compito di «coordinare» il rimedio di nuovo conio con la rescissione del giudicato ex art. 629-bis c.p.p. (istituto per cui si sollecita pure l’individuazione di «una coerente collocazione sistematica») e con l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 c.p.p. Si tratta di una direttiva alquanto generica ed “aperta”, che affida in toto ai decreti di attuazione la definizione dei rapporti e dei confini tra gli istituti in questione. Difficile fare previsioni sulle modalità con cui tali indicazioni verranno “tradotte” in un concreto assetto di disciplina. Ad ogni modo, il punto di partenza di ogni riflessione in proposito dovrebbe essere costituito dalla considerazione dell’intentio del legislatore delegante: questa appare invero inequivocamente orientata nel senso dell’introduzione di un rimedio “unitario” specificamente deputato all’esecuzione del giudicato CEDU. In altre parole, l’obiettivo perseguito dalla riforma sembra essere l’abbandono dell’attuare praticabilità dei percorsi differenziati individuati dalla giurisprudenza (revisione europea, ricorso straordinario per errore di fatto ex art. 625-bis c.p.p., incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 670 c.p.p.) – fonti di non poche «incertezze e dubbi interpretativi» [44] – a favore invece di un’unica via di ottemperanza: il nuovo ricorso straordinario affidato alla competenza della Corte di legittimità, la quale valuta le modalità più adeguate attraverso cui realizzare la restitutio in integrum della vittima di una violazione convenzionale, sia di carattere procedurale che sostanziale. In questa prospettiva, in caso di accertata lesione di garanzie partecipative ai sensi dell’art. 6 CEDU, il ricorrente vittorioso a Strasburgo, ai fini della conformazione al giudicato europeo, dovrebbe attivare il rimedio straordinario di recente conio; la Cassazione, quindi, al fine di consentire una riapertura del processo interno che assicuri alla vittima una piena restitutio in integrum, dovrebbe annullare la sentenza unfair rinviando il giudizio al giudice innanzi al quale la violazione è stata consumata [45]. All’art. 629-bis c.p.p., invece, residuerebbe un margine [continua ..]


5. Tendenze evolutive

La futura introduzione del delineato strumento revocatorio pare idonea a produrre significativi riflessi sistemici. Innanzitutto, in punto di forte riaffermazione del principio di legalità processuale. Non vi è dubbio, infatti, che lo sforzo profuso in passato dal diritto vivente nel tentativo di ovviare alla latitanza legislativa che impediva di dare un “seguito giudiziario” alle sentenze di condanna della Corte europea, se da un lato è apparso meritorio, denotando una spiccata sensibilità per i diritti umani [49], dall’altro ha segnato l’imbocco di una strada pericolosa, volta a piegare le ragioni del diritto ad esigenze di giustizia sostanziale, realizzando un uso “disinvolto” di istituti e categorie processuali, applicati oltre i limiti consentiti dalla disciplina codicistica e dai principi generali [50]. Un «uso manipolativo dello strumentario processuale» estremamente rischioso che, per far fronte alle contingenze dei casi concreti, denotava una certa tendenza alla “fantasia procedurale”, se non a vere e proprie forme di “lassismo concettuale”, sacrificando le esigenze di coerenza sistematica e ledendo il principio di legalità processuale [51]. L’odierna prospettiva di riforma legislativa pone un argine definitivo a tale deriva, scongiurandone i perniciosi ed incerti sbocchi futuri. Ne risulta riaffermato con forza il canone di legalità processuale che, ai sensi degli artt. 101, comma 2 e 111, comma 1, Cost., pone vincoli stringenti all’organo giudicante – in primis sotto il profilo della tassatività – contenendo pericolose tracimazioni verso il c.d. “diritto libero”, id est verso interpretazioni giurisprudenziali adeguatrici che in realtà mascherano forme di autentica creazione normativa, con un giudice comune che tende a improvvisarsi legislatore [52]. Un’interpretazone creatrice, insomma, che contraddice l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, giacché apre spazi irriducibili di incertezza [53], laddove invece lo svolgimento del processo penale deve essere indissolubilmente legato all’osservanza della legalità, il cui superamento impone l’imprescindibile passaggio attraverso l’opera riformatrice del legislatore. Un secondo profilo coinvolto concerne, poi, le tendenze evolutive del sindacato de [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2022