Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Diplopie nella correlazione tra accusa e sentenza (di Lorenzo Pulito, Ricercatore di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”)


Lo sforzo del legislatore volto a predisporre un nucleo di norme funzionali a presidiare il principio di correlazione tra accusa e sentenza non ha incontrato analogo rigore nell’esperienza applicativa, che ha invece favorito il diffondersi di soluzioni elusive della regola processuale. L’approccio antiformalistico assunto dalla giurisprudenza tollera che lo “scollamento” tra fatto contestato nell’imputazione e fatto emergente dal compendio probatorio assunto in dibattimento sia destinato a rimanere a lungo nascosto tra le pieghe dell’originaria imputazione – per poi materializzarsi, spesso anche nelle vesti di una nuova qualificazione giuridica, soltanto nei motivi della decisione – e lascia tale instabilità patologica priva di conseguenze ovunque possa dirsi che su di essa l’imputato abbia avuto la possibilità di difendersi e contraddire.

Diplopias in the correlation between accusation and judgment

The effort of the legislator aimed at preparing a core of functional rules to safeguard the principle of correlation between accusation and judgement did not find a similar severity in the application experience, which instead favored the spread of elusive solutions to the procedural rule. The anti-formalistic approach adopted by the case law tolerates that a certain degree of "disconnection" between the fact reported in the notice of indictment and the one emerging from the collection of evidences taken during the trial will still remain concealed for a long time in the folds of the original indictment–with a late materialization only in the motivations of the judge’s decision and often also in the guise of a new juridical qualification. The same approach leaves this pathological instability devoid of consequences in all the cases in which it can be affirmed that the accused person has had the opportunity to defend him/herself and rebut.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Origini e fondamento del principio - 3. Ipotesi di correlazione in fatto e disinvolto pragmatismo della giurisprudenza - 4. La riqualificazione giuridica del fatto: tra sterilizzazione degli obblighi convenzionali e prassi manipolatorie - 5. Correlazione e riti alternativi: spinte evolutive e dinamiche inerziali - 6. La correlazione in udienza preliminare: rischi e disfunzioni del “modello collaborativo” - 7. L’onda degli effetti distorsivi della prassi sui giudizi di impugnazione - 8. Prospettive e osservazioni conclusive - NOTE


1. Premessa

Il principio generale che regola il rapporto tra domanda di parte e poteri del giudice, quello di correlazione tra accusa e sentenza [1], trae origine dal ripudio dell’idea che anche dal processo penale possa nascere un’accusa: soddisfa la duplice esigenza di assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa, che logicamente postula un’esauriente informazione circa i profili fattuali e giuridici dell’imputazione, e di presidiare la distinzione tra la funzione d’accusa e quella di giudizio, tutelando il principio di imparzialità del giudice. Sebbene la “correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza” sia chiaramente tracciata dal legislatore, che impiega l’espressione nella rubrica dell’art. 521 c.p.p., la giurisprudenza l’ha resa oggetto di una «vera a propria sterilizzazione» [2]. Ricostruire le trame dell’opera giurisprudenziale di sostituzione della fattispecie legale di correlazione con quella pretoria è il primo passo fondamentale da compiere per avviare una doverosa “reazione” capace di ricollocare al centro l’idea che il processo penale consiste nel giudizio su una previa accusa.


2. Origini e fondamento del principio

l principio di correlazione è tradizionalmente ricondotto alla tutela del diritto di difesa anche se, più recentemente, ne è stata valorizzata una lettura volta a esaltarne la essenziale funzione di preservare la distinzione tra il ruolo dell’accusatore e quello del giudice, impedendo a quest’ultimo di cumulare sia la funzione d’accusa che quella di giudizio [3]. Di conseguenza, il fondamento costituzionale viene individuato prioritariamente nell’art. 111, comma 2, primo periodo, Cost. e – a livello sovranazionale – nell’art. 6 Cedu ove prescrive, quale requisito del giusto processo, la terzietà ed imparzialità del giudice. L’imputazione – è noto – si compone di due qualificanti: quelli storici e quelli giuridici [4]. I due componenti ricevono, tuttavia, un differente trattamento normativo [5]. Per gli aspetti fattuali, i caratteri costitutivi del principio di correlazione operano pienamente. La normativa ordinaria delinea un modello secondo cui, nel corso del dibattimento, alla pubblica accusa compete l’obbligo di costante adeguamento dell’imputazione alle risultanze istruttorie [6], mentre al giudice – chiamato a raffrontare l’imputazione contestata con queste ultime al culmine della fase decisoria – compete pronunciarsi nel merito nel caso in cui i due termini di paragone coincidano, dovendo in mancanza astenersi dal giudicare su fatti che non siano stati previamente contestati [7] ed emettere un provvedimento restitutorio degli atti al p.m. al fine di non ledere le prerogative di questi nell’esercizio dell’azione penale e di non vanificare difesa e contraddittorio. Per gli aspetti giuridici, invece, in funzione derogatoria rispetto al principio di correlazione, il primo comma dell’art. 521 c.p.p. autorizza il giudice a mutare la cornice giuridica in cui la pubblica accusa ha inteso ricondurre il fatto storico [8]. In altri termini, la coincidenza tra la qualificazione giuridica menzionata nell’imputazione e quella risultante ex actis non costituisce presupposto indispensabile per la emanazione della sentenza di merito, tanto di condanna quanto di proscioglimento [9].


3. Ipotesi di correlazione in fatto e disinvolto pragmatismo della giurisprudenza

Differente è anche il trattamento normativo “interno” alle ipotesi di correlazione in fatto, imperniato sulla malferma giustapposizione tra “fatto diverso” e “fatto nuovo” [10]. La regola per cui ogni regiudicanda deve essere oggetto di accertamento in un proprio processo trova espressione nella norma di cui all’art. 518 c.p.p., che impedisce al “fatto nuovo” risultante dal dibattimento di essere oggetto di un giudizio ormai principiato (salvo che la volontà delle parti e del giudice converga unanimemente per disattenderla). Il concetto di fatto nuovo non è normativamente definito. Può essere inteso tale quello che, rappresentando un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, si aggiunge al fatto originario e accresce quantitativamente il processo (fatto nuovo per addizione). Oppure, secondo un’altra accezione di marca pretoria, quello che vede l’imputazione originaria modificarsi al punto tale da essere abbandonata a favore di un’altra imputazione, che con la prima non abbia più nulla in comune (fatto nuovo per sostituzione) [11]. Nel caso in cui l’originaria imputazione non subisca tale radicale metamorfosi trova applicazione l’art. 516 c.p.p., che detta per il “fatto diverso” un criterio opposto a quello della separata procedibilità contenuto nell’art. 518 c.p.p.: il processo prosegue regolarmente laddove ex actis emerga un “fatto diverso” e il pubblico ministero intervenga a modificare l’imputazione (la stessa disciplina vale poi per l’ipotesi di emersione di un reato connesso e per le circostanze aggravanti). La giurisprudenza non si è preoccupata di dettare criteri generali per selezionare la novità (“per sostituzione”) del fatto rispetto alla sua mera diversità [12]; altrettanto complicata resta l’individuazione del coefficiente minimo di diversità che faccia sorgere, per l’accusa, l’obbligo di adeguamento del fatto contestato a quello emergente ex actis e, per il giudice, l’obbligo di pronunciare il non liquet una volta accertato il difetto di correlazione. Tali difficoltà di “perimetrazione” hanno favorito l’attecchimento di percorsi giurisprudenziali esegeticamente più snelli, che hanno rimodellato le nuove contestazioni, dando vita ad [continua ..]


4. La riqualificazione giuridica del fatto: tra sterilizzazione degli obblighi convenzionali e prassi manipolatorie

Il potere del giudice di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa, riassumibile nel principio iura novit curia, è stato affermato nel processo penale non senza riserve, avendo la dottrina messo in evidenza come non sia «affatto indifferente difendersi, lungo l’intero arco processuale, da una accusa riconducibile ad una norma e vedersi poi condannati in sentenza in riferimento ad una norma diversa» [17]. In effetti, la modifica del nomen iuris ingenera un certo “spaesamento” nell’imputato, che non può pretendersi si difenda alla cieca o finisca per collaborare alla ricostruzione dell’accusa [18]. Non a caso la giurisprudenza europea [19], pur senza mettere in discussione il potere del giudice di discostarsi dalla qualificazione giuridica prospettata dal pubblico ministero, ha evidenziato il contrasto tra il principio iura novit curia e l’art. 6, par. 3, Cedu, sostenendo la necessità di garantire una previa difesa anche in iure [20] e superando sotto tale profilo la distinzione tra fatto e diritto [21]. Tuttavia, anche i “limiti” al potere di riqualificazione segnati dalla giurisprudenza europea – fermi nel riconoscere il diritto dell’imputato di essere dettagliatamente informato anche dei profili giuridici dell’accusa e di disporre di tempo e mezzi per preparare la difesa – non sono sfuggiti all’opera di sterilizzazione da parte di quella interna [22]. Secondo la quale, la componente giuridica dell’imputazione può modificarsi in ogni momento del processo, a condizione che – è questo il punto – la qualificazione alternativa sia stata oggetto di previa discussione tra le parti: teoricamente la riqualificazione unilaterale sarebbe vietata. Senonché, ove pure essa avvenga, resta priva di conseguenze tutte le volte in cui il contraddittorio in iure possa essere recuperato in un momento successivo (i.e., di regola, con le impugnazioni) [23]. In altri termini, soltanto nel giudizio di legittimità una riqualificazione “a sorpresa” (perché non discussa nei gradi precedenti) risulta vietata [24], dovendo la Corte di cassazione, prima di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella attribuita nel giudizio di merito, soddisfare preventivamente la condizione di informare di tale [continua ..]


5. Correlazione e riti alternativi: spinte evolutive e dinamiche inerziali

Si provi ad esaminare adesso il rapporto tra i mutamenti dell’imputazione e i conseguenti diritti difensivi, in particolare sotto il profilo dell’accesso ai riti alternativi, la cui richiesta costituisce una delle più pregnanti modalità di esercizio del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. [32]: l’aspetto problematico concerne la difficoltà di coordinare il momento in cui avviene la riqualificazione, per lo più coincidente con il momento finale del processo di primo grado, e la richiesta di rito alternativo, disciplinata da rigide preclusioni temporali antecedenti alla fase finale del dibattimento. Sebbene, alla luce degli arresti europei, potrebbe sostenersi che, soltanto quando l’editto accusatorio è integralmente e chiaramente perimetrato, tanto in fatto quanto in diritto, sia possibile attivare l’eser­cizio delle facoltà processuali, tra cui la richiesta di accesso a riti alternativi, l’interpretazione giurisprudenziale interna invalsa è nel senso di mantenere piuttosto netta la distinzione tra le due differenti tipologie di modifiche, reputando che il case-law sovranazionale non sia giunto al punto di imporre al legislatore italiano di predisporre espressamente istituti di rimessione in termini per avanzare istanze di rito alternativo nel caso di riqualificazione giuridica ex art. 521 c.p.p. [33]. Invece, seppur a tappe lente, per i mutamenti in facto la giurisprudenza costituzionale ha via via mutato il paradigma che lega le nuove contestazioni dibattimentali ai riti deflativi [34] (patteggiamento [35], abbreviato [36], oblazione [37], messa alla prova [38]). Le limitazioni del diritto di accesso dell’imputato a un rito speciale dopo la modifica dell’impu­tazione ex art. 516 c.p.p. o la contestazione suppletiva effettuata ex art. 517 c.p.p. sono state infrante attraverso il superamento della distinzione tra nuove contestazioni “fisiologiche” e “patologiche” [39], l’abbandono della logica della “rimproverabilità” della variazione all’una o all’altra parte processuale e dell’ottica di assicurare l’accesso al rito alternativo in «‘funzione riparatoria’ necessaria a compensare un comportamento doloso o negligente della parte pubblica» [40], la rimodulazione del criterio [continua ..]


6. La correlazione in udienza preliminare: rischi e disfunzioni del “modello collaborativo”

La giurisprudenza, nel silenzio normativo, considera il principio di correlazione immanente al sistema processuale e, dunque, applicabile anche nell’udienza preliminare [49], dove tuttavia viene impiegato confondendo piani sistematici diversi. Qui il provvedimento restitutorio previsto dall’art. 521, comma 2, c.p.p. viene adoperato tanto nel caso in cui si registri la diversità del fatto (che, in tale sede, ricorre tra imputazione e atti di indagine), quanto per quello in cui l’imputazione sia difettosa (per genericità o indeterminatezza). Secondo consolidata giurisprudenza [50], il giudice dell’udienza preliminare, laddove riscontri il difetto di enunciazione del fatto in modo chiaro e preciso, dovrebbe sollecitare il pubblico ministero ad emendare l’atto imputativo e, nel caso in cui l’interlocuzione non abbia sortito effetto, emanare un provvedimento restitutorio; in base alla prassi applicativa, il giudice mantiene il suo ruolo interventista anche nell’ipotesi in cui si tratti di fatto diverso, seppur – si badi – al di fuori delle garanzie difensive modellate su quelle di cui agli artt. 519 e 520 c.p.p. In udienza preliminare, dunque, sia che si tratti di imputazione difettosa che di imputazione diversa, la giurisprudenza delinea un modello in cui il giudice interviene in via preventiva a sollecitare le opportune modifiche e, soltanto successivamente, nel caso in cui la previa richiesta all’accusa resti inascoltata, mediante l’esercizio del potere restitutorio. Sebbene in udienza preliminare la verifica sulla chiarezza e precisione dell’imputazione e quella sulla diversità del fatto tendano a sovrapporsi, non vi è dubbio, tuttavia, che si tratti di controlli ontologicamente distinti (verifica sulla qualità dell’imputazione [51] versus verifica della fattispecie di correlazione): in dibattimento, i tratti di distintività tra i due sindacati si evincono anche attraverso i profili temporali, poiché il primo non può essere effettuato dopo l’apertura del dibattimento, mentre il secondo viene esercitato, all’esito dell’istruttoria, in sede di deliberazione della sentenza. Poiché il “modello collaborativo”, delineato in udienza preliminare, sta espandendosi anche al dibattimento [52], ove pure si è ritenuto che il giudice che riconosca la genericità o [continua ..]


7. L’onda degli effetti distorsivi della prassi sui giudizi di impugnazione

Le prassi possono generare, indirettamente e inconsapevolmente, effetti distorsivi. La giurisprudenza che evita sistematicamente la restituzione degli atti all’accusa ex art. 521, comma 2, c.p.p., rendendo possibile che le modifiche in facto e in iure si materializzino “a sorpresa” direttamente in sentenza, pone in ombra innanzi tutto la stessa effettività delle impugnazioni. Il thema decidendum, oltre a fissare il thema probandum, costituisce parametro di riferimento per la decisione, che dovrà soffermarsi nella parte motiva della sentenza sui fatti così come delineati dalla pubblica accusa. Se si sottrae alla decisione il suo parametro e si consente al giudice di sostituirlo con altro non contestato, allora anche la giustificazione della decisione risulterà alterata al pari, di conseguenza, del controllo che sulla stessa è chiamato ad eseguire il giudice dell’impugnazione. Inoltre, se da un lato tale prassi sospinge celermente il processo verso la decisione di prime cure, dal­l’altro rischia di incidere negativamente sui tempi dei successivi gradi di giudizio [54], che saranno inevitabilmente instaurati nel tentativo di recuperare il contraddittorio in precedenza perduto. Le parti avranno interesse ad impugnare la sentenza che abbia deciso sulla “contestazione sostanziale”, mirando al suo annullamento che, in ossequio al principio di correlazione e indipendentemente dal previo accertamento in concreto di una qualche lesione dei diritti difensivi dell’imputato, dovrebbe essere disposta in applicazione dell’art. 604, comma 1, c.p.p. [55]. Ma l’interpretatio abrogans dell’art. 521, comma 2, c.p.p. invalsa nella prassi è in grado di filtrare anche nei giudizi di impugnazione, ove è agevole preconizzare che alcuna forma di invalidità sarà ritenuta sussistente se possa affermarsi che l’imputato è stato messo in condizione di difendersi sull’imputa­zione materiale [56]. Accertamento quest’ultimo che almeno la corte d’appello, essendo giudice di merito, dovrebbe poter compiere più efficacemente. Il giudice di legittimità, invece, si mostra sempre alquanto refrattario ad effettuare “incursioni” – pur consentite per le questioni processuali – nel fascicolo del dibattimento, così come si converrebbe per raffrontare l’imputazione [continua ..]


8. Prospettive e osservazioni conclusive

Il diritto vivente funge, in materia di correlazione, da lente deformante rispetto al dato normativo [62]: nella prassi l’imputazione finisce per assurgere ad attività che il pubblico ministero e il giudice esercitano in una sorta di ‘incestuosa cogestione’. Un simile approccio, ispirato a malfermo pragmatismo, contrasta con la terzietà del giudice e con l’autonomia del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale: alla fine, invece di soddisfare le ragioni efficientistiche che l’alimentano, determina gravi disfunzioni processuali. Individuare soluzioni in grado di rendere effettivi il dovere del pubblico ministero di procedere con tempestività (e nelle debite forme) alla nuova contestazione e quello del giudice di osservare il vincolo di correlazione fra accusa e sentenza non è affatto semplice. Per risolvere le problematiche che concernono la correlazione in iure si è pensato alla «piena assimilazione tra fatto e diritto, così che ogni potenziale violazione della correlazione tra accusa e sentenza, riguardi essa i profili storici o i profili giuridici, comporti la restituzione degli atti al pubblico ministero, secondo quanto già previsto dall’art. 521 co. 2 Cpp» [63]: tuttavia, con riferimento alla contestazione in fatto, si è visto come tale previsione venga sistematicamente aggirata. Un tratto comune a diverse proposte consiste nell’individuazione di specifici sbarramenti processuali in cui affrontare definitivamente il nodo della correlazione, tanto in fatto che in diritto. Così, si è ipotizzato di circoscrivere il potere riqualificatorio entro il limite preclusivo della discussione delle questioni preliminari [64]: se ciò potrebbe garantire che l’istruttoria dibattimentale si incentri sull’ipotesi poi oggetto della decisione, non può disconoscersi come la necessità di variare il nomen iuris discenda più spesso proprio dall’evoluzione probatoria cui si assiste in tale fase. In maniera non troppo dissimile, ma con specifico riferimento alla correlazione in fatto, la dottrina ha proposto l’introduzione di uno snodo tra la chiusura dell’istruttoria e la discussione finale, volto a consentire al pubblico ministero di confermare o variare l’addebito e della previsione, ove si verificasse l’ipotesi della modifica [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2022