La Corte di legittimità ha ribadito come, nel procedimento de libertate, l’impossibilità di applicare la misura della custodia carceraria nei confronti dell’imputato ultrasettantenne – salvo la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza – non si limiti alla fase genetica di applicazione della misura, ma si estenda anche alla fase esecutiva della stessa. La decisione, dai numerosi precedenti conformi, consente, da un lato, di esaminare il cd. “principio di continuità del controllo di legalità sulle misure coercitive”, fil rouge delle dinamiche restrittive della libertà personale; dall’altro, permette di ricostruire – sia pure a grandi linee – il sistema di tutela “polivalente” dell’anziano nel procedimento penale, al fine di coglierne luci ed ombre.
<The Supreme Court confirmed that, in the de libertate proceeding, the impossibility of applying the measure of pre-trial detention to the defendant over seventy years old – except in the presence of exceptional precautionary requirements – is not limited to the genetic phase of application of the measure, but it also extends to the executive phase of the same. The decision, with its numerous conforming precedents, allows, on the one hand, to examine “the principle of continuity of the control of legality on coercive measures”, the leitmotif of the restrictive dynamics of personal freedom; on the other hand, it allows to reconstruct – broadly – the system of “polyvalent” protection of the elderly in criminal proceedings, in order to grasp the lights and shadows.
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1. Il caso - 2. L’iter argomentativo seguito dalla cassazione - 3. I principi fondanti sottesi al sistema cautelare - 4. Le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - 5. La tutela dell’anziano nel procedimento penale - NOTE
La sentenza in commento, seppur non innovativa nei contenuti, offre l’opportunità di riflettere sul tema della necessaria verifica dei presupposti per il mantenimento dello status custodiae in base a vicende successive al provvedimento genetico. In particolare, riconoscendo la piena “applicabilità” dell’art. 275 c.p.p. tanto alla fase genetica quanto a quella dinamica della cautela, essa ha ammesso la sostituzione della custodia in carcere con una misura meno afflittiva nei confronti di colui che abbia compiuto settant’anni nel corso dell’esecuzione della misura. Nello specifico, il ricorrente, sottoposto alla custodia inframuraria in relazione al reato di cui agli artt. 73, comma 1 e 80, comma 2, d.p.r., 9 ottobre 1990, n. 309, aveva presentato istanza di sostituzione della misura applicata in fase investigativa, richiesta che tuttavia era stata rigettata dal g.i.p. del Tribunale di Viterbo. Avverso il provvedimento, il detenuto aveva quindi proposto appello dinnanzi al Tribunale di Roma, Sezione specializzata per il riesame, dolendosi del proprio status di ultrasettantenne ed evidenziandone i riflessi sul quadro cautelare ex art. 275, comma 4, c.p.p. I motivi di gravame sostenuti dalla difesa erano stati, però, disattesi dal Tribunale della libertà sul presupposto che la valutazione sulle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza per le persone ultrasettantenni dovesse effettuarsi con riguardo al solo momento “genetico” di applicazione della misura, a nulla rilevando le vicende successive. Di conseguenza, la circostanza che l’imputato avesse raggiunto tale età solo nel corso dell’esecuzione della misura – e non già al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare – non consentiva l’applicazione della deroga di cui all’art. 275, comma 4, c.p.p. Della questione era stata successivamente investita la Suprema Corte, innanzi a cui si era dedotta violazione di legge in relazione all’art. 275 c.p.p., con specifico riguardo all’omessa valutazione delle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza a carico dell’imputato, ormai ultrasettantenne [1]. Accogliendo il ricorso, il Giudice di legittimità ha annullato con rinvio l’ordinanza. Trattandosi di una delle categorie di soggetti tutelati dall’art. 275, comma 4, c.p.p., la Corte ha ritenuto che, [continua ..]
Muovendo dal principio di cd. “continuità del controllo di legalità sulle misure coercitive”, la Corte di cassazione ha ripercorso la natura dei provvedimenti cautelari, la cui fisiologica provvisorietà – che li rende continuamente suscettibili di modifiche e revoche – trova giustificazione nel rigoroso ancoraggio alla verifica di persistenza dei presupposti cui la restrizione della libertà personale è subordinata. Richiamando il combinato disposto degli artt. 275 e 299 c.p.p., la Cassazione ha sostenuto che la misura cautelare debba essere revocata nell’ipotesi in cui venga meno taluno dei requisiti applicativi o, comunque, debba essere sostituita con altra – più o meno afflittiva – al variare dell’intensità dei pericula libertatis o al modificarsi delle condizioni personali definite dallo stesso art. 275 c.p.p. Ciò in quanto le indicate disposizioni impongono il controllo della perdurante legittimità della restrizione personale lungo tutto l’arco temporale che intercorre dall’ordinanza genetica a quella di sostituzione o revoca della misura, attraverso un costante adeguamento della capitis deminutio agli eventuali fatti sopravvenuti, alle possibili modifiche della situazione processuale, dei presupposti o delle condizioni di legge, nonché a fatti preesistenti non conosciuti o non valutati dal giudice [2], nel pieno rispetto dei canoni di adeguatezza e di proporzionalità [3]. A sostegno di tale orientamento, il Giudice di legittimità ha richiamato il c.d. “giudicato cautelare”, applicabile in relazione alle decisioni assunte nel procedimento incidentale de libertate. Tale istituto opera “allo stato degli atti” [4], ovvero a condizione che permangano invariati i requisiti in presenza dei quali la misura cautelare è stata disposta; pertanto, non potrebbe mai consentire alcuno sbarramento processuale ad una rivalutazione della quaestio libertatis che potrebbe verificarsi laddove sopravvenga una modificazione degli elementi su cui si è fondata l’originaria compressione della libertà personale. Con specifico riguardo alla condizione dell’anziano, il Supremo Consesso ha affermato che l’art. 275, comma 4, c.p.p. farebbe derivare dal superamento del settantesimo anno di età una [continua ..]
Il decisum della Corte fa proprie le ragioni poste a fondamento di un orientamento ermeneutico ormai consolidato [7], propenso a valorizzare il criterio di adeguatezza nell’arco dell’intera vicenda cautelare, esigendo da parte dell’autorità giudiziaria il necessario controllo circa la permanenza di tutte le condizioni legittimanti l’applicazione della misura, di cui si accentua conseguentemente il ruolo di stringente strumentalità rispetto all’accertamento penale. La limitazione della libertà personale deve, infatti, essere conforme al modello legale predisposto dal legislatore, di cui riserva di legge e di giurisdizione costituiscono i capisaldi scolpiti all’art. 13, comma 2, Cost. Il principio di legalità delle misure cautelari è recepito nell’art. 272 c.p.p. [8], in cui si riflette una regola di “tassatività” in virtù della quale le cautele devono essere solo quelle previste dalla legge processuale penale, risultando applicabili solo nei casi e con le procedure indicate dalla medesima normativa. La disposizione citata comporta, sul piano pratico, che il sacrificio imposto all’imputato [9] debba trovare la sua giustificazione nella tutela delle esigenze cautelari [10] e nella sussistenza di una consistente base probatoria descritta in termini di gravi indizi di colpevolezza [11]; diversamente, gli strumenti cautelari assumerebbero un carattere vessatorio contrario, tra l’altro, a quanto disposto dall’art. 277 c.p.p. [12]. Si tratta, quindi, di una valutazione da effettuare non solo nel momento iniziale di applicazione della misura, ma indispensabile anche durante la sua vigenza. Pertanto, è compito del giudice, per un verso, verificare costantemente la permanenza delle ragioni che hanno portato all’adozione della restrizione; per un altro, al mutamento delle medesime, adeguare immediatamente e conseguentemente lo status libertatis del destinatario della stessa. Mosso dalla necessità di offrire coerenza al sistema, il legislatore del 1988 ha cristallizzato, nel dettato dell’art. 299 c.p.p. [13], il criterio della indispensabile continuità del controllo sull’esercizio del potere cautelare. Ciò in quanto la vicenda de libertate impone una «visione unitaria e diacronica» [14] dei presupposti [continua ..]
Come accennato, l’accertata sussistenza del fumus commissi delicti costituisce elemento necessario, ma non sufficiente ai fini della legittima applicazione di una misura cautelare. A tale scopo, infatti, è indispensabile il ricorrere di un ulteriore elemento, ovvero il pericolo che il destinatario della misura, lasciato libero, possa pregiudicare le esigenze – connesse all’accertamento – ritenute meritevoli di tutela. In altri termini, il precipuo scopo della previsione di cui all’art. 274 c.p.p. non può che essere quello di delimitare l’area di applicabilità delle misure ante iudicatum, attribuendo a queste ultime specifiche finalità di contrasto ai pericula libertatis [18] che potrebbero verificarsi in assenza di provvedimenti restrittivi della libertà personale. L’individuazione delle esigenze cautelari da prevenire in concreto riveste un ruolo fondamentale non solo per decidere sull’applicazione o meno della cautela, ma anche per orientare le scelte giudiziali nel caso in cui sia possibile, astrattamente, l’applicazione di due o più misure. A tal fine, il legislatore ha previsto che l’autorità giudiziaria debba ispirarsi ad una serie di criteri, cristallizzati nel disposto dell’art. 275 c.p.p. In primis, rileva al riguardo il principio di cd. “adeguatezza”, in forza del quale la scelta della misura da applicare deve essere calibrata sulla natura e sul grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (art. 275, comma 1, c.p.p.); in secondo luogo, viene in gioco il canone di cd. “proporzionalità”, secondo cui ogni misura deve essere congrua, sotto il profilo della deminutio libertatis, sia rispetto alla gravità del fatto, sia al quantum di pena che si ritiene possa essere irrogato (art. 275, comma 2, c.p.p.); ancora, occorre rispettare pure il criterio di cd. “gradualità”, a mente del quale la custodia cautelare in carcere costituisce la più intensa delle limitazioni della libertà personale e, pertanto, deve essere applicata solo quando non sia assolutamente possibile operare diversamente (art. 275, comma 3, c.p.p.), costituendo l’extrema ratio [19]. Come affermato dal Giudice delle leggi, infatti, la restrizione della libertà personale deve essere ispirata al principio del cd. [continua ..]
Dall’analisi della presunzione di cui all’art. 275, comma 4, c.p.p. sembra dunque emergere chiaramente la volontà del legislatore di tutelare determinate categorie di soggetti deboli. Eppure, non può escludersi la preordinazione della disciplina pure all’ulteriore finalità, prettamente processuale, di sfoltire il popolo delle carceri [36]. Come è noto, la copiosa legislazione degli ultimi anni in tema di misure cautelari personali – sollecitata da innumerevoli moniti dei Giudici supremi nazionali ed europei [37] – ha cercato di porre un freno al sovraffollamento carcerario, fenomeno alla cui causazione ha contributo, in maniera non indifferente, il ricorso nella prassi non sempre oculato alla custodia inframuraria. Il tema oggetto di analisi offre, dunque, l’opportunità di valutare l’impiego della carcerazione non solo quale soluzione estrema per la realizzazione delle esigenze cautelari, ma anche come ordinario strumento di espiazione della pena detentiva, al fine di operare un parallelismo tra la condizione dell’anziano nel sistema cautelare e quella riservata al medesimo nella fase esecutiva. A dimostrazione della analoga necessità di controllo anche nella fase post rem iudicatam, l’ordinamento penale ha mostrato particolare cura nel preservare dal pregiudizio carcerario le stesse categorie di soggetti tutelate in sede cautelare, alle quali è offerta la possibilità di espiare la pena mediante strumenti alternativi alla detenzione. Più nel dettaglio, l’intentio legis di limitare al minimo lo strumento detentivo per le persone in età avanzata si rinviene nel trattamento riservato all’ultrasettantenne incensurato [38], autore di reati non particolarmente gravi [39], al quale si attribuisce, secondo il dettato di cui all’art. 47-ter, comma 1, ord. penit. [40], la possibilità di eseguire la pena detentiva nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza. Tale regime favorevole è indirizzato expressis verbis non solo alla «persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione, abbia compiuto i settanta anni», ma anche a colui che «dopo l’inizio della stessa» abbia raggiunto tale soglia anagrafica. Il dato acquisisce specifico rilievo se confrontato con la [continua ..]