Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Ergastolo ostativo e diritto alla speranza? Sì, però ... (di Carlo Fiorio, Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Perugia)


La sent. costituzionale n. 253 del 2019 ha eroso l’obbligo di collaborazione previsto dal comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit., trasformando la relativa presunzione da assoluta a relativa. In tali casi, peraltro, l’onere probatorio gravante sull’interessato è maggiormente gravoso, dovendo egli dimostrare non solo la non attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche l’assenza del pericolo di un loro ripristino.

Perpetual Life Imprisonmentand Right to Hope? Yes, but ...

Corte cost., sent. n. 253 of 2019 has eroded the obligation to cooperate provided for in paragraph 1 of art. 4-bis ord. penit., transforming the relative presumption from absolute to relative. In such cases, however, the burden of proof on the interested party is more onerous, having to demonstrate not only the lack of connections with organized crime, but also the absence of the danger of their possible recovery.

 

Corte costituzionale, sent. 4 dicembre 2019, n. 253 – Pres. Lattanzi; Est. Zanon È costituzionalmente illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sul­l’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; In via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), è costituzionalmente illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. (Massima) [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui esclude che il condannato all’erga­sto­lo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». 1.1.– Il collegio rimettente premette di essere investito del ricorso avente ad oggetto il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha rigettato il reclamo proposto da S. C. avverso il decreto con il quale il magistrato di sorveglianza dell’Aquila aveva [continua..]

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SOMMARIO:

La nouvelle vague della Corte costituzionale - Collaborazione penitenziaria, preclusioni assolute e funzione rieducativa della pena - La decisione della Consulta - La collaborazione non prestata: un tertium genus? - I rinnovati oneri probatori - NOTE


La nouvelle vague della Corte costituzionale

Dopo quasi trent’anni di alchimie interpretative, funzionali a non delegittimare un disegno legislativo di natura emergenziale, la Corte costituzionale, nello spazio di pochi mesi, ha inciso in maniera perentoria – e forse irreversibile – sull’assetto del “doppio binario” penitenziario [1]. Dapprima, con la sentenza in commento, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. penit., nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’atti­vi­tà delle associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit. [2], allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Più di recente, con la sent. n. 263 del 2019, stabilendo che la disciplina prevista dalla norma penitenziaria per i reati “ostativi” non può applicarsi con riguardo alla concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio nei confronti dei condannati minorenni. Da ultimo, con la sent. n. 32 del 2020, sconfessando il diritto vivente in tema di applicazione retroattiva di modifiche penitenziarie peggiorative, la Consulta ha – finalmente – attribuito all’art. 4-bis ord. penit il “rango” di norma penale, ponendo fine ad un’antica e strumentale querelle tra la giurisprudenza di legittimità, arroccata su inadeguati formalismi, e le più realistiche istanze dell’avvocatura e dell’ac­cademia [3]. Se questa più recente decisione rappresenta un passo straordinario nella storia del diritto penitenziario [4], la sentenza in commento [5], benché pronunciata “a ruota” di ben più innovativi e pressanti [6] dicta europei [7], ha inferto un vulnus più apparente che reale al modello collaborativo caratterizzante il sistema del doppio binario esecutivo costruito intorno all’art. 4-bis ord. penit. Il considerevole spazio temporale compreso tra la deliberazione ed il deposito delle motivazioni ha probabilmente [continua ..]


Collaborazione penitenziaria, preclusioni assolute e funzione rieducativa della pena

Le due questioni di legittimità costituzionale [9] abbracciavano, sul versante soggettivo, sia l’ergasto­la­no condannato per il delitto di associazione mafiosa [10], sia quello condannato per reati di “contesto mafioso” [11]. La Corte costituzionale ha esteso il proprio sindacato anche ai condannati a pena temporanea per qualsivoglia delitto (non solo quelli “mafiosi”) [12] contemplato dal comma 1 della norma penitenziaria, toccando il centro nevralgico del doppio binario penitenziario, rappresentato dalla collaborazione in executivis [13]. Sul versante oggettivo, invece, le questioni riguardavano i soli permessi premio: ed è su tali benefici che si è pronunciato il giudice delle leggi, escludendo, per il momento, l’àmbito delle misure alternative alla detenzione [14]. Nello specifico, entrambi gli atti di promovimento denunciavano la natura di presunzione assoluta palesata dal requisito della collaborazione con la giustizia [15]. Movendo dagli approdi della giurisprudenza costituzionale in materia di presunzioni cautelari [16], ed in particolare dalle sentt. n. 57 del 2013 [17] e n. 48 del 2015 [18] in relazione a delitti di contesto mafioso, la S.C evidenzia come, in executivis, la presunzione assoluta compendiata nell’art. 4-bis comma 1 ord. penit. copra un amplissimo settore eterogeneo e non sia suscettibile di erosione. La norma penitenziaria, invero, precludendo l’accesso ai benefici penitenziari a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit., non distingue tra gli affiliati di un’organizzazione mafiosa e gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma. In tale prospettiva, secondo la Corte rimettente, la norma penitenziaria si porrebbe contra Constitutionem, nella parte in cui applica presunzioni assolute di pericolosità sociale a condotte illecite che non presuppongono l’affiliazione a un’associazione mafiosa. Scendendo nello specifico, la Corte di legittimità individua una contraddizione tra la valenza tradizionalmente attribuita alla collaborazione («momento di rottura e di definitivo distacco dalle organizzazioni [continua ..]


La decisione della Consulta

Sgombrato il campo da alcune rilevanti questioni pregiudiziali e di metodo [27], il giudice delle leggi analizza la compatibilità costituzionale della presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato – per i reati precisati – che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit. Dopo aver ripercorso le “stagioni” della disposizione penitenziaria, la Corte costituzionale richiama la propria, precedente giurisprudenza, escludendo che la disciplina oggi vigente possa qualificarsi come «“costrizione” alla delazione», dal momento che spetta al detenuto adottare o meno quel comportamento [28]. Nondimeno, essa individua il contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. proprio nel carattere assoluto della presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante. Prendendo le mosse dal leading case rappresentato dalla sent. n. 306 del 1993 [29], ove la Consulta, in controtendenza rispetto alla ratio legis sottesa al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, aveva incisivamente sottolineato che «la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento o “emenda”, secondo una lettura “correzionalistica” della rieducazione», la pronuncia in commento individua i medesimi approdi nella recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Viola c. Italia, ove la collaborazione quale indice presuntivo del distacco da precedenti scelte criminali, è stata sottoposta a serrata critica. La meno recente decisione costituzionale, invero, pur dichiarando, tra l’altro, non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ord. penit, in relazione all’art. 27, comma 3, Cost. – osservò che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il [continua ..]


La collaborazione non prestata: un tertium genus?

La sentenza, secondo i primi commentatori [40], avrebbe introdotto una nuova ipotesi di “collaborazione non prestata”, che si collocherebbe, quale tertium genus, tra la collaborazione positivamente prestata e quella impossibile o inesigibile. La tesi secondo cui il dictum costituzionale avrebbe implicitamente “sterilizzato” le figure della collaborazione “inesigibile”, “impossibile” ed “irrilevante”, sarebbe, invero, smentita dalla circostanza che la Consulta non ha inciso direttamente sul comma 1-bis dell’art. 4-bis ord., «ma, anzi, ne ha implicitamente confermato la persistente vigenza, traendone il modello per la costruzione della nuova ipotesi di “collaborazione non prestata”» [41]. Rispetto a tali, meno recenti istituti, la forma collaborativa coniata dalla Consulta evidenzia più gravosi onera probandi, dovendo il condannato allegare sia gli elementi idonei a superare la presunzione relativa di pericolosità, sia quelli che escludono il pericolo di un suo ripristino. In particolare, come correttamente rilevato [42], se, prima della decisione in commento, il condannato doveva prima dimostrare dinanzi al tribunale di sorveglianza di versare in una situazione di impossibilità (ovvero inesigibilità od irrilevanza collaborativa) e poi, in caso positivo, dimostrare al magistrato di sorveglianza competente per il permesso premio, di non avere collegamenti con la criminalità organizzata, oggi la situazione cambia completamente. Il medesimo condannato, invero, dovrà concentrare l’iniziativa direttamente dinanzi al magistrato, al quale dovrà fornire veri e propri elementi di prova relativi sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia del pericolo di ripristino di tali collegamenti.


I rinnovati oneri probatori

Come si accennava in premessa, lo sbandierato ripudio della presunzione assoluta è stato compensato dal recupero (e forse dal rafforzamento) delle prove “diaboliche” caratterizzanti il testo dell’art. 4-bis ord. penit. nella versione 1990-1991. Invero, eliminata l’assolutezza della presunzione, la Corte costituzionale delinea il procedimento probatorio relativo alla dimostrazione della non attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. A tal riguardo, il giudice delle leggi sottolinea come «la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo. Ciò giustifica che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi». È questo – a parere di chi scrive – il punto più criticabile della decisione in commento, la quale fa leva sul recupero dell’arcaico [43] criterio della prova negativa avente per oggetto l’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva» [44]. La relativa verifica dovrebbe, invero, lambire sia i profili strettamente penitenziari (condotta carceraria, partecipazione al trattamento rieducativo, evoluzione della personalità, eventuale percorso di revisione critica), sia quelli esterni (contesto sociofamiliare, patrimoniale e reddituale; attività del sodalizio criminale; eventuale indagini in corso involgenti la detta consorteria) [45]. Va da sé che l’eventuale – ma assolutamente realistica – inerzia degli organi amministrativi e di polizia chiamati a partecipare al procedimento probatorio di sorveglianza (CPOS, PNA, DDA, DIA) non consentirà al magistrato di [continua ..]


NOTE