La Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata a pronunciarsi per la prima volta sulla compatibilità convenzionale del c.d. ergastolo ostativo previsto dall’ordinamento italiano (artt. 22 c.p., 4-bis e 58-ter ord. penit.), ha riscontrato la violazione dell’art. 3 della Convenzione. In particolare, la Corte ha affermato che, per effetto del regime applicabile alla pena inflitta al ricorrente, le sue possibilità di liberazione risultano eccessivamente limitate: un tale assetto non soddisfa i criteri che consentono di ritenere “riducibile” una pena perpetua e si traduce nella violazione del principio di dignità umana, desumibile dall’art. 3 CEDU ma immanente all’intero sistema convenzionale
The European Court of Human Rights, called to rule for the first time on the conventional compatibility of the c. life sentence provided for by Italian law (articles 22 cp, 4-bis and 58-ter ord. penit.), found the violation of art. 3 of the Convention. In particular, the Court stated that, due to the regime applicable to the sentence imposed on the appellant, his liberation possibilities are excessively limited: such an arrangement does not meet the criteria that allow a perpetual punishment to be deemed "reducible" and translates into a violation of the principle of human dignity, which can be deduced from the art. 3 ECHR but immanent to the entire conventional system.
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La genesi e il percorso di formazione della pronuncia - la riforma dell’impugnabilità oggettiva della sentenza di patteggiamento e l’illegalità della misura di sicurezza: profili di criticità - Il merito della pronuncia della Corte europea - I paradigmi della Corte europea nel confronto con l’art. 27, comma 3, Cost. - Il metodo “pilota”, gli effetti, le conclusioni - NOTE
La rilevante questione sottoposta alla Suprema Corte scaturisce da un processo in cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bergamo, con sentenza di patteggiamento del 4 luglio 2018, ha applicato all’imputato la pena di anni 3 e mesi 9 di reclusione, insieme alla multa di € 14.000,00, con riguardo ai reati di cui all’art. 73, comma 1, T.U. stup., unificati con la continuazione, disponendo altresì confisca, con distruzione della droga in sequestro. Il giudice di merito, tuttavia, non ha ordinato l’espulsione dell’imputato dal territorio dello Stato a pena espiata, come espressamente previsto dalla norma di cui all’art. 86, T.U. stup., né ha motivato sull’assenza di pericolosità che avrebbe potuto legittimare l’omessa applicazione della misura di sicurezza pur con una simile condanna a pena superiore ai due anni. L’imputato, peraltro, si trovava illegalmente sul territorio dello Stato, senza occupazione, nonché pienamente inserito nel circuito dello spaccio di diverse sostanze stupefacenti. A tal riguardo, dunque, la Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia ha proposto ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 86 T.U. stup.), proprio per l’omessa applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione. Sono stati, quindi, chiamati a pronunciarsi sulla questione i giudici di legittimità, i quali hanno, anzitutto, evidenziato la presenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla ricorribilità per cassazione della sentenza di applicazione della pena che abbia omesso di disporre una misura di sicurezza e segnatamente l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per uno dei reati previsti dall’art. 86 d.p.r. n. 309 del 1990. Invero, secondo il diverso orientamento richiamato nella pronuncia de qua, tale sentenza “negoziata” non è impugnabile dal p.m. con il ricorso per cassazione, ostandovi il comma 2-bis dell’art. 448 c.p.p., introdotto dalla l. n. 103 del 2017, la quale individua delle ipotesi tassative per la proponibilità di tale impugnazione, tra cui l’illegalità della misura di sicurezza, che richiederebbe, però, l’effettiva adozione della stessa. La decisione in esame, di contro, non rinviene nell’art. 448, comma 2-bis, c.p.p. alcun ostacolo alla ricorribilità per [continua ..]
La l. 23 giugno 2017, n. 103 – nota comunemente come “Riforma Orlando” – ha introdotto alcune rilevanti modifiche alla disciplina del patteggiamento, focalizzando l’attenzione sui motivi di ricorso per cassazione e sulla correzione degli errori materiali, al chiaro scopo di garantire una più celere definizione del procedimento penale, nonché di scoraggiare iniziative meramente dilatorie. In realtà, l’originario progetto di riforma (contenuto nel disegno di legge n. 2798, presentato alla Camera dei deputati il 23 dicembre 2014) era animato dal ben più ambizioso intento di ridisegnare l’intera fisionomia del rito speciale de quo, mirando fondamentalmente – come si legge nella relazione di accompagnamento – ad «eliminare l’incongruenza, evidente soprattutto nei casi di cosiddetto patteggiamento allargato, […] dell’irrogazione di una pena senza accertamento pieno di responsabilità». Tuttavia, nel corso dei lavori parlamentari, è stata abbandonata l’idea di approvare una riforma organica dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, mentre i conditores hanno preferito focalizzarsi ad affrontare e risolvere la delicata questione della troppo ampia impugnabilità per cassazione della sentenza di patteggiamento [1]. Invero, per circa trent’anni il codice di rito penale non ha dettato alcuna disposizione specifica in tema di ricorribilità per cassazione delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti. La mancata creazione di una serie di motivi di ricorso ad hoc, parametrati sulle indubbie peculiarità del rito “contrattato”, ha fatto sì che alle pronunce “negoziate” si potesse applicare la sola disciplina “comune” in materia di giudizio di legittimità, prevista nel libro IX del codice di procedura penale, e che, di conseguenza, competesse direttamente agli interpreti ed operatori del diritto l’arduo compito di individuare in quale delle eterogenee ipotesi stabilite dall’art. 606 c.p.p. le sentenze di patteggiamento fossero concretamente impugnabili [2].
Il 12 dicembre 2016, il ricorrente adisce la Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo di essere stato condannato all’ergastolo, una pena non riducibile e, per questo, qualificata inumana e degradante. I fatti, in sintesi. Il 16 ottobre 1995, il ricorrente fu condannato a 15 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Palmi, per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, aggravato dalla circostanza di aver ricoperto il ruolo di capo e di promotore delle attività criminali del gruppo mafioso. La condanna fu confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria che, tuttavia, ridusse la pena a 12 anni di reclusione. Il 22 settembre 1999, la Corte d’Assise di Palmi gli inflisse la pena dell’ergastolo per ulteriori fatti relativi ad attività criminali di stampo mafioso, confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria il 5 marzo 2002, che lo riconobbe colpevole del delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso ai sensi dell'art. 416-bis c.p., nonché di altri reati (omicidio, rapimento e sequestro che ha causato la morte della vittima, e detenzione abusiva di armi da fuoco) aggravati dalle circostanze previste dall'art. 7 d.l. n. 152 del 13 maggio 1991, convertito in l. n. 203 del 1991 oltre che da quella ulteriore di aver assunto il ruolo di capo dell'organizzazione criminale e di promotore delle relative attività. In applicazione del regime della continuazione, la Corte d'Assise d'Appello lo condannò alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per due anni. Marcello Viola propose ricorso per Cassazione, che fu respinto il 26 febbraio 2004. Il 12 dicembre 2008, la Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, su richiesta del condannato, riconoscendo la unicità del programma criminale tra i fatti oggetto dei due processi, rideterminò cumulativamente la pena, fissandola nell'ergastolo con isolamento diurno per due anni e due mesi. Nel frattempo, tra giugno 2000 e marzo 2006, il ricorrente fu sottoposto al regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis, comma 2, l. n. 354 del 1975, poi revocato dal Tribunale di sorveglianza. In seguito, egli presentò al Tribunale di sorveglianza, in varie occasioni, richieste di permesso premio, sempre respinte sul presupposto della esclusione dal beneficio dei permessi premio dei condannati all'ergastolo per uno dei reati di cui all'art. 4-bis ord. penit. che non [continua ..]
Ebbene, le soluzioni offerte dai giudici di Strasburgo sono persuasive; non anche il metodo utilizzato per formularle: incentrando il proprio ragionamento censorio sulla «equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato» [11], la Corte sembra aver concentrato l’attenzione sul problema del perimetro della volontà del condannato, sulla eventualità che la mancata collaborazione con la giustizia possa non corrispondere ad una scelta libera dello stesso, nonché sulla massima d’esperienza che collega il difetto di collaborazione alla persistenza dei legami criminali, ponendo in ombra quello centrale della ponderazione tra le diverse manifestazioni della socialità (funzione sociale) della pena rispetto alla potenziale perpetuità dell’ergastolo ostativo. Per noi, infatti, i termini del rapporto vanno invertiti, cosicché la illegittimità convenzionale dell’art. 4-bis ord. penit. – oltre che comunitaria, per inosservanza degli artt. 1 e 4 CDFUE – deriva da scelte sostanziali patologiche del legislatore, incompatibili, innanzitutto, con il principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena, tendendo a stabilire relazioni (invece, impraticabili) fra risocializzazione e collaborazione ed immediatamente dopo, determinando una corrispondenza tra questa e la presunzione di pericolosità. Invero, nonostante la indiscussa discrezionalità del legislatore di prevedere disposizioni speciali rispetto ai modi dell’esecuzione della pena, non si può abdicare alla garanzia politica che il percorso risocializzativo sia modulato sull’uomo e non soltanto sul fatto; che l’automatismo tra titolo di reato e diniego della concessione dei benefici sia costruito in termini di relatività, non anche di assolutezza; che non siano fissate presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Solo in questo modo, quella discrezionalità, pur connessa a valutazioni di politica criminale e di tutela della sicurezza pubblica, appare ragionevole e, come tale, insindacabile [12]. Diversamente [13], dovrebbe ammettersi la possibilità che il fenomeno stravolga l’ordine legale, giustificando arretramenti della legalità costituzionale, sovranazionale, internazionale; che la [continua ..]
La Corte europea utilizza la procedura di sentenza pilota [50] (espressamente codificata all’art. 61 reg. Corte e.d.u.) per censurare l’Italia [51], accertando non solo l’inadempimento nel caso concreto, ma anche il sottostante problema strutturale, cioè, l’esistenza nell’ordinamento penitenziario nazionale, di una legislazione che produce la violazione sistemica e continuativa dell’art. 3 CEDU. Si tratta di una sentenza di tipo normativo, programmaticamente concepita allo scopo di rimediare al più presto, tramite standards universalizzanti di risoluzione del conflitto, a quelle violazioni costitutive derivate dal difetto di bilanciamento legislativo tra diritti ed interessi in causa; dalla natura sicuramente extravagante rispetto all’ambiente decisionale europeo, funzionale a garantire i diritti fondamentali di singoli individui. Infatti, pur se potenzialmente produttiva di effetti erga omnes, l’attività della Corte si concentra, prima di tutto, sulle specifiche circostanze del caso concreto, decidendo ricorsi individuali, senza annullare, né manipolare testi legali. Non a caso, un aspetto centrale del diritto giurisprudenziale di fonte convenzionale è rivelato proprio dall’espresso riconoscimento che ogni caso individuale pervenuto al suo vaglio sia differente e debba essere giudicato interamente on its facts and merits, in base, appunto, alle sue specifiche peculiarità fattuali [52]. Diversamente nel caso di specie, in cui la forma pilota della sentenza si desume dalle circostanze che la Corte non riconosce soltanto al ricorrente Marcello Viola, ma alla generalità dei condannati all’ergastolo ostativo, il diritto alla prospettiva di liberazione ed alla possibilità di ottenere un riesame della pena; stabilisce una prerogativa assoluta e, pertanto, chiusa a possibili deroghe e/o bilanciamenti con altri interessi, soprattutto se di diversa rilevanza ed una potestà, di cui si impongono, allo Stato condannato, la inderogabilità del suo nucleo essenziale e la insopprimibilità del profilo ontologico, consentendone la discrezionalità solamente in relazione alle determinazioni del perimetro esterno necessarie ad assicurarne la praticabilità. Infatti, s’è detto, la Corte non censura la collaborazione in sé, bensì la sua [continua ..]