Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La lenta agonia del processo accusatorio a trent'anni dall'entrata in vigore: trionfante nella Carta costituzionale, moribondo nel reale (di Paolo Ferrua)


Il processo accusatorio ha incontrato, sin dalla sua entrata in vigore, forti ostilità, culminate nella svolta inquisitoria del 1992 con la dichiarazione di illegittimità delle regole di esclusione probatoria dettate a tutela del contraddittorio. Dopo la riforma del ‘giusto processo’, l’attacco frontale al contraddittorio è cessato, ma l’avversione alle regole del modello accusatorio è proseguita in forme più larvate ma altrettanto insidiose: tra esse, la sopravvivenza di alcune disposizioni di natura inquisitoria, le interpretazioni giurisprudenziali riduttive delle garanzie, le programmate riforme processuali. Il risultato è la progressiva metamorfosi del processo accusatorio in un processo di tipo ‘misto’, secondo un’esperienza già vissuta nella Francia rivoluzionaria.

The death struggle of the adversarial system thirty years after its entry into force: triumphing in the Constitutional Charter but dying in reality

Since its entry into force, the adversarial system has encountered severe hostilities, culminating in the inquisitorial turn of 1992 with the declaration of illegitimacy of the rules of evidentiary exclusion that emerged to protect the adversarial system. After the reform of the so-called ‘fair trial’, the direct attack on the adversarial principle has ceased, but the aversion to the rules of the adversarial model has continued in more larval but equally insidious forms: among them, the survival of some arrangements of inquisitorial nature, some reductive jurisprudential interpretations of procedural guarantees, and some planned procedural reforms, to quote but a few. The result of this aversion is a progressive metamorphosis of the adversarial trial into a “mixed” trial, which seems to take the system back into a situation already experienced in revolutionary France.

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SOMMARIO:

Il codice di procedura penale del 1988 e la svolta inquisitoria del 1992 - La riforma del ‘giusto processo’ e le sopravvivenze inquisitorie: le limitazioni del diritto alla prova nell’art. 190-bis c.p.p. - L’acquisizione delle sentenze irrevocabili - Interpretazioni creative: mutamento del collegio giudicante e rinnovazione della prova - Il trionfo del diritto vivente sul diritto vigente - La regola di giudizio nell’udienza preliminare - Il processo accusatorio, trionfante e moribondo: breve excursus sulle degenerazioni inquisitorie nella Francia rivoluzionaria - NOTE


Il codice di procedura penale del 1988 e la svolta inquisitoria del 1992

Inarrestabili, si susseguono, sul vigente codice di procedura penale, gli interventi del legislatore, della Corte costituzionale e di una giurisprudenza più o meno creativa [1]. Il principale vizio della maggior parte di questi interventi è di sovrapporre ad un processo concepito in chiave accusatoria – dove la prova è formata in dibattimento – istituti ispirati al modello ‘misto’, una sottospecie di quello inquisitorio, in cui il dibattimento è fortemente condizionato dagli esiti delle fasi anteriori. Ogni tentativo di conciliare i due opposti modelli vede inevitabilmente prevalere quello inquisitorio. Infatti, mentre dal processo inquisitorio è impossibile evadere se non attraverso una riforma globale, il modello accusatorio è un arnese molto delicato, incline a degenerare non appena subisca qualche contaminazione con regole o principi che gli sono estranei: basta eliminare o semplicemente indebolire la barriera che impedisce alle indagini preliminari di penetrare nel dibattimento e l’accusatorio si converte in inquisitorio. Purtroppo, il codice del 1988 non è riuscito gradito a larga parte della magistratura; e, quando una legge non incontra il favore dell’autorità giudiziaria che è chiamata ad interpretarla e ad applicarla, le probabilità che si risolva in un fallimento sono molto elevate. Era appena entrato in vigore il nuovo processo e già nasceva, su iniziativa di Marcello Maddalena, un movimento per la revisione del codice di procedura penale, ritenuto inadeguato a combattere la criminalità; ma non fu neppure necessario provvedere alla sua revisione, perché la Corte costituzionale con tre sentenze nel 1992 (nn. 24, 254, 255) dichiarò illegittime le regole di esclusione probatoria contenute negli artt. 195 (divieto di testimonianza indiretta per la polizia giudiziaria), 500 e 513 c.p.p. (irrilevanza probatoria delle dichiarazioni contestate al testimone e delle dichiarazioni rese dal coimputato avvalsosi della facoltà di non rispondere). Il risultato fu la conversione dell’indagine preliminare in una gigantesca istruzione sommaria; un’esperienza per certi versi peggio che inquisitoria, perché a formare le prove, destinate ad essere poi acquisite in dibattimento, non è un giudice che manterrebbe quantomeno una parvenza di imparzialità, ma il pubblico ministero, ossia [continua ..]


La riforma del ‘giusto processo’ e le sopravvivenze inquisitorie: le limitazioni del diritto alla prova nell’art. 190-bis c.p.p.

A dieci anni dalla svolta inquisitoria, è intervenuta la riforma del ‘giusto processo’; la regola del contradditorio nella formazione della prova – a buon diritto definibile come la Regola d’Oro del processo accusatorio – è stata dapprima enunciata nel nuovo testo dell’art. 111, comma 4, Cost. (l. costituzionale n. 2 del 1999) e poi concretizzata nelle disposizioni del codice di rito, sostanzialmente ricondotte alla loro originaria formulazione (l. n. 63 del 2001). I giudici della Consulta, subito investiti di nuove questioni di legittimità, hanno doverosamente riconosciuto la presenza, nel mutato quadro costituzionale, di una regola di esclusione probatoria per effetto della quale le dichiarazioni, unilateralmente raccolte nell’in­dagine preliminare, restano prive di valore probatorio nel dibattimento, salvo le eccezioni espressamente contemplate. Si è così pensato che il processo accusatorio fosse ormai definitivamente al riparo da ogni attacco. Ahimè, l’aggressione frontale al contraddittorio è cessata grazie alla riforma costituzionale, ma la svalutazione delle regole del processo accusatorio è gradualmente riaffiorata in forme più larvate, ma non meno pericolose: alludo alla sopravvivenza di alcune disposizioni di natura inquisitoria introdotte a seguito delle sentenze costituzionali del 1992, alle interpretazioni giurisprudenziali ‘creative’ e ai progetti di riforma oggi in discussione. Vediamo qualche esempio di questi eterogenei strumenti di subdola riduzione delle garanzie. Le norme più lesive del contraddittorio, sopravvissute alla riforma del giusto processo, sono, a mio avviso, gli artt. 190-bis e 238-bis c.p.p. La prima disposizione attenua il diritto alla prova nel dibattimento per una lunga serie di reati, limitando l’esame di persone, che abbiano già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o di un dibattimento (destinato ad essere rinnovato), «solo quando riguardi fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze». Scelta criticabile sotto un duplice profilo. Anzitutto, perché poco compatibile con il diritto alla prova nei termini in cui è tutelato dall’art. 111, comma 3, Cost. che lo garantisce «davanti al [continua ..]


L’acquisizione delle sentenze irrevocabili

Va ancora peggio con l’art 238-bis c.p.p. Con la riforma del giusto processo si è correttamente specificato nell’art. 238 c.p.p. che le dichiarazioni assunte in incidente probatorio o in dibattimento e acquisite in un diverso processo possono essere utilizzate contro l’imputato soltanto se la sua difesa ha partecipato all’assunzione della prova; ossia, soltanto se i diversi processi si svolgono contro il medesimo imputato. Senonché alla medesima riforma è sopravvissuto l’art. 238-bis c.p.p. per effetto del quale le sentenze irrevocabili possono essere acquisite in un diverso processo ai fini della prova del fatto in esse accertato. Disposizione anch’essa doppiamente criticabile, nonostante la Corte costituzionale ne abbia ripetutamente affermato la legittimità. Anzitutto, perché le sentenze irrevocabili non sono prove, ma atti di valutazione della prova. Poi perché valorizzare come prova la sentenza pronunciata in un diverso processo equivale di fatto a valorizzare le prove su cui essa si fonda, nonostante la difesa del processo ad quem non abbia partecipato alla loro assunzione. La Corte costituzionale nega il contrasto con l’art. 111, comma 4, Cost., richiamandosi alla possibilità della difesa di contraddire quanto affermato nella sentenza irrevocabile; ma è un argomento irrilevante perché ciò che qui si lamenta è la lesione del contraddittorio nella formazione della prova, non di quello sulla prova già formata. Per di più, ad aggravare la deroga al contraddittorio, concorre la giurisprudenza della Cassazione; l’ambito operativo della disposizione viene, infatti, esteso anche alle premesse storiche della sentenza, ossia ad ogni fatto che risulti affermato nel percorso narrativo della motivazione [3]. Conclusione, a mio avviso, contraddetta dal testo dell’art. 238-bis c.p.p.: l’espressione «fatto accertato» va riferita alla statuizione contenuta nel dispositivo, ossia al fatto oggetto del processo. Perché un fatto possa dirsi giuridicamente ‘accertato’ non è sufficiente che il giudice ne renda conto nella motivazione. Occorre che il giudice lo dichiari espressamente con un fiat, un atto performativo che può essere contenuto solo nel dispositivo.


Interpretazioni creative: mutamento del collegio giudicante e rinnovazione della prova

Un singolare esempio di interpretazione creativa, a tutto svantaggio del processo accusatorio, è offerto dalla sentenza delle Sezioni unite, 30 maggio 2019, n. 41736, avente ad oggetto l’art. 525 c.p.p. Il supremo collegio, le cui interpretazioni sono oggi divenute vincolanti nei limiti previsti dall’art. 618, comma 1-bis, c.p.p., afferma che in caso di mutamento della persona del giudice dibattimentale: a) il diritto di chiedere il riascolto del teste compete solo alla parte che ne abbia chiesto l’ammissione; b) la parte deve indicare le specifiche circostanze che rendono necessaria la rinnovazione della testimonianza al fine di evitare che questa si risolva nella mera ripetizione di quanto già deposto. Per inquadrare bene la vicenda occorre risalire alla sentenza costituzionale che ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità concernente il diritto alla rinnovazione della prova in caso di mutamento del collegio giudicante [4]. Prendendo spunto dai lunghi tempi del processo che affievoliscono i ricordi dei testimoni, la Corte costituzionale, con un gigantesco obiter dictum, suggeriva al legislatore di introdurre deroghe all’identità tra il giudice che assume la prova e quello che decide, sulla scia della giurisprudenza europea, favorevole alla previsione di simili deroghe; il tutto, senza individuare alcun profilo di illegittimità nell’art. 525 c.p.p., né interrogarsi sul significato del precetto costituzionale che garantisce alla difesa il diritto di esaminare i testimoni «davanti al giudice» (art. 111, comma 3, Cost.); né, infine, chiedersi se non esistano opportuni rimedi per contenere le ipotesi di mutamento dei collegi giudicanti, come, ad esempio, subordinare il trasferimento dei magistrati alla conclusione dei dibattimenti in corso. In sostanza, una serie di gratuiti consigli al legislatore sulle innovazioni da introdurre, con l’inevitabile sottinteso di un benevolo giudizio da parte della Consulta ove mai ne fosse eccepita l’illegittimità. Che un simile modus procedendi si inquadri in un corretto equilibrio di poteri tra il legislatore e la Corte costituzionale, resta, a mio sommesso avviso, assai dubbio. La ragione è presto detta: alla Corte spetta il tema dell’illegittimità, qui non affrontato nemmeno in motivazione; al legislatore la scelta delle [continua ..]


Il trionfo del diritto vivente sul diritto vigente

Commentando la sentenza delle Sezioni unite mi chiedevo se il legislatore avrebbe trovato la forza di intervenire per riaffermare con atto di interpretazione ‘autentica’ il diritto alla rinnovazione della prova contemplato dall’art. 525 c.p.p. Un legislatore che si rispetti non può assistere impassibile alla vanificazione per via giurisprudenziale delle regole che ha dettato; né sarebbe di ostacolo la menzionata sentenza costituzionale perché, come accennato, nessuna illegittimità si imputa al vigente testo dell’art. 525 c.p.p., ora misconosciuto dalle Sezioni unite. Era una domanda retorica, destinata a risolversi in quella assai più pertinente: con quali modalità interverrà il legislatore per ratificare l’interpretazione ‘creativa’ della Cassazione, nella consapevolezza che, comunque, il suo intervento sarà bene accolto dalla Corte costituzionale, avendola essa stessa consigliato? Non occorre andare lontano a cercare la risposta perché, a quanto trapela da autorevoli fonti, l’intenzione del legislatore è di estendere l’art. 190-bis c.p.p. al caso di mutamento del collegio giudicante, subordinando così la rinnovazione della prova alla circostanza che riguardi fatti diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni o appaia necessaria sulla base di specifiche esigenze. Più che ragionevoli sarebbero i dubbi di legittimità prospettabili su questa ulteriore estensione dell’art. 190-bis c.p.p., che già di per sé appare in tensione con il diritto alla prova tutelato dall’art. 111, comma 3, Cost.; e nondimeno è facile prevedere quale sarebbe la loro sorte presso la Corte costituzionale, dati i suggerimenti da essa già espressi sull’opportunità di introdurre deroghe all’oralità in caso di mutamento del giudice dibattimentale. La realtà è che ormai si assiste da tempo ad una grottesca inversione del fisiologico rapporto tra legislazione e giurisdizione. Il diritto vivente, espresso dalla giurisprudenza, che dovrebbe uniformarsi al diritto vigente, prodotto dal legislatore, se ne è progressivamente distaccato e reso autonomo; al punto che sempre più spesso è il diritto vigente ad inseguire e ratificare gli approdi innovativi del diritto giurisprudenziale. Le cause di questo fenomeno che relega la [continua ..]


La regola di giudizio nell’udienza preliminare

Un’ulteriore insidia per il processo accusatorio deriva da una riforma su cui pare convergere il consenso della Magistratura e delle Camere penali. Alludo alla regola di giudizio che oggi governa l’alternativa tra il rinvio a giudizio e la sentenza di non luogo a procedere; regola di giudizio ritenuta inadeguata perché troppo incline a favorire il primo, marginalizzando la seconda. Il progetto è di modificare la regola «al fine di limitare il rinvio ai casi in cui gli elementi acquisiti consentano, se confermati in giudizio, l’accoglimento della prospettazione accusatoria», id est, la pronuncia di una condanna. Ora, è senz’altro vero che la pronuncia di non luogo a procedere trova scarsa applicazione nella prassi. Ma non va dimenticato che, in una struttura accusatoria, occorre preservare l’autonomia del dibattimento, evitando che il rinvio a giudizio dell’imputato possa convertirsi, agli occhi dei giudici incaricati della decisione, in una sorta di condanna anticipata; di conseguenza, la fase preliminare al processo non deve risolversi in un accertamento del merito ma in una semplice delibazione dell’accusa. Lo osservava, sessant’anni or sono, Francesco Carnelutti, denunciando la malattia del processo penale italiano, nel quale «il dibattimento si riduce[va] a una specie di controllo del giudizio pronunciato in esito alla fase preliminare» [6]. Ed è quello che puntualmente rischia di verificarsi con la riforma programmata. La sentenza di proscioglimento, pronunciata nell’udienza preliminare quando gli elementi acquisiti non appaiano tali da consentire la condanna, se confermati in dibattimento, occuperebbe lo spazio idealmente rappresentato dall’assoluzione nel giudizio abbreviato; con la conseguenza che il rinvio a giudizio occuperebbe quello della condanna nel medesimo giudizio. Ma, mentre tutto ciò determinerebbe un sicuro pregiudizio per l’imputato rinviato a giudizio a seguito di una valutazione così approfondita nel merito, non è affatto detto che la riforma riuscirebbe ad invertire la prassi oggi eccessivamente avara nella pronuncia del non luogo a procedere. E la ragione è presto detta. In ogni alternativa decisoria occorre distinguere un termine ‘marcato’, il quale può essere affermato solo in quanto ne siano interamente provati i presupposti, e un termine [continua ..]


Il processo accusatorio, trionfante e moribondo: breve excursus sulle degenerazioni inquisitorie nella Francia rivoluzionaria

«Una costituzione gracile in Italia il processo penale l’ha sempre avuta», affermava nel 1962 Francesco Carnelutti [9]. Parole quanto mai attuali, perché oggi il processo accusatorio, trionfante nella Carta costituzionale, è moribondo nel reale. Possiamo andare oltre e aggiungere che la costituzione gracile il processo accusatorio nell’Europa continentale l’ha sempre avuta. Nel 1791 con il Décret 16-29 sept. fece il suo ingresso nella Francia rivoluzionaria il processo accusatorio; e, per superare le resistenze dei magistrati (i parlamenti), legati all’antica procedura inquisitoria, fu introdotta la giuria, importandola dalle istituzioni angloamericane (Décret 16-24 août 1790). Il rispetto dell’oralità e del contraddittorio era tale che, per garantire al massimo il genuino convincimento dei giurati, non ci si limitò a vietare la lettura delle informazioni testimoniali assunte in precedenza; si vietò anche la trascrizione delle deposizioni dibattimentali, affinché nulla di estraneo a quanto direttamente percepito in udienza potesse influire sul verdetto o indurre i giurati a distrarsi, per poi consultare i verbali in camera di consiglio. Ciononostante, iniziò presto il declino del processo accusatorio, sia per la giustizia ordinaria, sia per quella straordinaria del Tribunale rivoluzionario. Quanto alla giustizia ordinaria, l’involuzione inquisitoria iniziò con il Code des délits e des peines, elaborato da Merlin de Douai nel 1795, nel quale si avvertiva netta la tendenza ad accentuare il peso dell’istruzione preliminare sul dibattimento attraverso la lettura dei precedenti difformi al testimone; proseguì con la legge del 7 piovoso anno IX (27 gennaio 1801), che riorganizzò la prima fase del processo secondo un modello singolarmente simile all’Ordonnance del 1670; e fu portata a termine con il napoleonico Code d’instruction criminelle 1808, che consacrò ufficialmente il sistema ‘misto’, fondato sullo sdoppiamento del processo in due fasi: l’una scritta e segreta, volta a compiere tutte le indagini utili all’accertamento della verità, l’altra pubblica e orale, destinata alla discussione e alla conferma degli elementi raccolti in precedenza. Quanto al tribunale straordinario, istituito il 10 marzo 1793 per [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2020