Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


La risposta della Corte costituzionale alla legge “spazzacorrotti”: scacco al Re! (di Agnese Del Giudice, Dottoranda di ricerca in Diritto dei Beni Privati, Pubblici e Comuni – Università del Salento)


Abbandonata la strada della fiduciosa “attesa”, nonché quella del monito sollecitatorio rivolto al legislatore, la Corte costituzionale vira – anche in materia penale e penitenziaria – verso posizioni decisorie assai più incisive rispetto al passato, promuovendo un netto innalzamento nella tutela di principi e valori che contrassegnano il “volto costituzionale” del sistema penale. In questa prospettiva, navigando lungo la rotta tracciata dalla giurisprudenza della Corte Edu, i giudici costituzionali colgono l’occasione offerta dalla legge n. 3 del 2019 per traghettare le norme esecutive e penitenziarie, da sempre ancorate alla regola tempus regit actum, sotto l’egida del principio di irretroattività. Così, con lucide argomentazioni, che muovendo dalla salvaguardia delle esigenze di “prevedibilità” della pena giungono sino all’affermazione delle ragioni dello Stato di diritto, la Corte estende il perimetro dell’art. 25, comma 2, Cost. alle modifiche sfavorevoli degli istituti che, pur formalmente processuali, determinano una trasformazione della natura della pena. Si ha, dunque, la sensazione di trovarsi su una scacchiera, dove l’esigenza di garantire il principio di legalità costituzionale e la “passione del punire” animano i giocatori di una interminabile partita. Questa volta, però, la Consulta muove decisa lungo le caselle e dà scacco al Re.

The answer of the Italian Constitutional Court to the law “spazzacorrotti”: checkmate!

The Italian Constitutional Court takes an incisive position in criminal and penitentiary law, strengthening the protection of principles and values of the Italian penal system. In this perspective, following the route established by the European Court of Human Rights, the Italian Constitutional Court takes the opportunity offered by Law n. 3/2019, to extend the principle of non-retroactivity to the measure that concerns the execution or enforcement of the penalty. In the light of the foregoing, the Court does not rule out the possibility that measures taken by the legislature after the final sentence has been imposed or while the sentence is being served may result in the redefinition or modification of the scope of the “penalty” imposed by the trial court. When that happens, the Court considers that the measures concerned should fall within the scope of the prohibition of the retroactive application of penalties enshrined in Article 25, § 2 of the italian Constitution.

It seems, therefore, to be on a “chessboard”, where the need to guarantee the principle of constitutional legality from one side and the "passion for punishment" from the other side, animate the two players so deeply involved in such an endless game. However with this decision, the Constitutional Judges move decisively along the “chessboard” and checkmate the King.

Keywords: irretroactivity – bonus leave of absence – crime against the public administration – danger assessment

SOMMARIO:

1. “Il Bianco” e “il Nero”: i nuovi confini della funzione di garanzia costituzionale in materia penale - 2. I delitti contro la p.a. come “reati ostativi”: la mossa del legislatore - 3. Il regime temporale delle disposizioni concernenti l’esecuzione della pena: a) la lettura tradizionale - 4. Segue: b) Il dibattito sul fronte “interno” tra interpretazione conforme e questioni di legittimità costituzionale - 5. Segue: c) la voce della Corte di Strasburgo - 6. La contromossa della Corte costituzionale: scacco al Re! - 7. La doppia anima del principio di irretroattività - 8. Il ravvisato contrasto con l’art. 24 Cost. - 9. La tassonomia della Corte: a) misure alternative alla detenzione, liberazione condizionale e divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione - 10. Segue: b) permessi premio, lavoro all’esterno e principio rieducativo - 11. Salus rei publicae suprema lex esto. I dubbi di ragionevolezza della presunzione di pericolosità per i delitti contro la p.a. - NOTE


1. “Il Bianco” e “il Nero”: i nuovi confini della funzione di garanzia costituzionale in materia penale

Ben poco è paragonabile alla tensione che provano due scacchisti nelle ultime fasi di una lunga partita decisiva, quando la scelta tra una mossa e l’altra potrebbe condurre alla “vittoria” o alla “sconfitta”. Ve n’è una, però, che efficacemente la rispecchia: quella, immanente al sistema giuridico, che governa l’“equilibrio dinamico” tra il legislatore, a cui solo è rimessa l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio, e il Giudice delle leggi, garante di disposizioni costituzionali poste in costante interazione non solo con l’evolversi della sensibilità sociale, di cui la legge statale è il punto terminale di ricezione, ma anche con il mutare dell’emotività giuridica, oggi influenzata dal paradigma interpretativo sovranazionale. Se è pur vero, infatti, che spetta al Governo e alle Camere, nel rispetto delle garanzie [1], dare voce alla propria autonomia politica per rendere vivo il disegno costituzionale, è vero anche che sulla Corte grava il dovere di assicurare un’indefettibile tutela quando siano state concepite disposizioni (in tutto o in parte) costituzionalmente illegittime [2]. Non a caso, le “partite” giocate nel corso dell’ultimo anno sono state numerose, e con esse la Consulta ha inteso precisare il ruolo della giustizia costituzionale a fronte della sfera riservata alla politica [3]. Precisazioni di grande rilievo – non solo per l’eco mediatica generata –, che hanno interessato soprattutto la materia penale e penitenziaria [4], terreni su cui il Giudice delle leggi si era mosso, in passato, con impareggiabile deferenza nei confronti della discrezionalità legislativa: al fine di garantire l’equilibrio tra la difesa della Costituzione e la salvaguardia dell’autonomia del potere legislativo [5], la Corte, a fronte di un vizio di incostituzionalità e di una pluralità di alternative possibili per porvi rimedio, era solita ritrarsi in un non possumus, siglato da declaratorie di inammissibilità [6]. Si asteneva, cioè, dall’affrontare il merito della questione [7]; semmai, constatando l’assenza di “soluzioni costituzionalmente obbligate” [8], accompagnava la pronuncia di inammissibilità con un monito al [continua ..]


2. I delitti contro la p.a. come “reati ostativi”: la mossa del legislatore

Il menzionato provvedimento legislativo, impropriamente noto come “legge spazzacorrotti”, presenta le sue credenziali sin dall’intitolazione («Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica ammi­nistrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici») che preannuncia norme “ad alto impatto” per fronteggiare in modo più efficace il dilagante fenomeno del malaffare, passato indenne attraverso gli inasprimenti sanzionatori operati dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 e, successivamente, dalla legge 27 maggio 2015, n. 69. L’inclusione della maggior parte dei delitti contro la p.a. tra i reati c.d. “assolutamente ostativi” previsti dall’art. 4-bis, comma 1, legge n. 354 del 1975 è, senz’altro, la novità di maggior peso tra quelle introdotte dalla legge n. 3/2019, tutte ispirate ad un generalizzato irrigidimento della risposta punitiva statale [32], non solo per la sua indiscutibile carica simbolica, ma soprattutto per le numerose ricadute pratiche che – bon gré mal gré – essa determina. Al favor per l’inasprimento generalizzato del regime esecutivo è sottesa l’insidiosa idea che si debbano salvaguardare – nelle eloquenti parole della relazione tecnica governativa al disegno di legge – le «esigenze di effettività, dissuasività e persistenza» della pena [33]. Forse, appartiene alla medesima matrice culturale anche la congettura, circolata con immeritata fortuna ancora di recente in Italia, che l’accesso ad una misura extramuraria costituirebbe l’ennesima manifestazione del c.d. “privilegio degli affari”, consentendo al “pubblico dipendente infedele” di riprendere la corsa dopo una breve “sosta ai box” [34]. In questa prospettiva, la novella legislativa impedisce al condannato per alcuni reati contro la p.a. [35], che non collabori con la giustizia, a norma dell’art. 58-ter legge n. 354 del 1975 o del neo-introdotto art. 323-bis, comma 2, c.p. [36], di accedere alle misure extra moenia e ai benefici penitenziari (art. 1, comma 6, lett. b), legge n. 3 del 2019) [37]. Sempre che non ricorra una delle consuete “condizioni equiparate” [38], alternativamente idonee a dissolvere l’effetto ostativo. Non solo. [continua ..]


3. Il regime temporale delle disposizioni concernenti l’esecuzione della pena: a) la lettura tradizionale

Che l’inclusione della maggior parte dei delitti contro la p.a. nell’elenco dei “reati ostativi” avrebbe sollevato, tra i più, inquietudini e malumori era ampiamente prevedibile. Eppure, mai si sarebbe potuta immaginare una risposta reattiva della giurisprudenza, come in concreto manifestatasi. Sul punto, invero, i quasi dimenticati argomenti del garantismo penale si sono misurati non solo con la perdurante concezione espressiva della pena detentiva e con l’uso simbolico della sua minaccia [40], ma anche – e soprattutto – con una giurisprudenza di legittimità graniticamente ancorata, in tema di norme processuali e di ordinamento penitenziario, ad un paradigma formalistico e, quindi, all’autarchico principio tempus regit actum, benché, negli ultimi quindici anni, l’approccio pragmatico e antiformalistico della Corte Edu nella ricostruzione evolutiva del concetto di «matiére penale» [41] abbia contagiato anche la giurisdizione domestica. In effetti, mai abiurando l’orientamento interpretativo che, nella sua essenza, trova compiuta esposizione in un risalente arresto delle Sezioni Unite [42], i giudici di legittimità, pur a fronte di un generale scetticismo manifestato sul punto da una considerevole parte della dottrina [43], hanno costantemente negato – con una sola prenunzia eccezione [44] – che le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene e le misure alternative alla detenzione siano assimilabili alle norme penali sostanziali, in quanto estranee al­l’accertamento del reato e all’irrogazione della pena ed attinenti, invece, soltanto alle modalità esecutive della sanzione irrogata. Hanno sempre ritenuto, quindi, che quelle disposizioni soggiacciano al principio tempus regit actum e non a quello di irretroattività di cui agli artt. 25, comma 2, Cost. e 2 c.p. [45]. Ragion per cui, in assenza di una specifica disciplina transitoria, «un’eventuale modifica normativa che [dovesse introdurre] una più severa disciplina [sarebbe] immediatamente applicabile a tutti i rapporti esecutivi che non [siano] ancora esauriti» [46]. La tesi è essenzialmente incardinata su tre distinte ragioni, che rispondono a puntuali esigenze concrete, della cui “razionalità” non può dubitarsi. Vi sarebbe, anzitutto, la [continua ..]


4. Segue: b) Il dibattito sul fronte “interno” tra interpretazione conforme e questioni di legittimità costituzionale

Le idee audaci – verrebbe da dire – sono come i pedoni che avanzano sulla scacchiera: possono essere bloccati, certo, ma possono anche far vincere le “battaglie” [48]. Così, all’indomani dell’entrata in vigore della legge “spazzacorrotti”, il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità è stato oggetto di un’intensa riflessione critica, promossa da una composita schiera di decisioni (una catena di pedoni) che, nel giro di breve tempo, hanno gettato le basi per uno storico revirement giurisprudenziale. Il turnaround si deve al sinergico operare di due distinti approcci. La giurisprudenza di merito [49], nella consapevolezza della solidità del diritto vivente, ma anche del particolare atteggiarsi della legalità penale convenzionale, ha invocato d’emblée un intervento della Consulta, sollevando questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 1, comma 6, lett. b), legge n. 3 del 2019 nella parte in cui non contempla una disciplina transitoria che ne escluda l’applicabilità ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Con coraggio, dunque, ha preso le distanze dall’orien­tamento maggioritario domestico, evidenziandone il contrasto con l’interpretazione da tempo prospettata dalla Corte Edu riguardo ad istituti formalmente esecutivi, che, tuttavia, nel concreto operare, vanno «beyond the execution of penality» [50], incidendo sulla effettiva portata della pena. La Suprema Corte, invece, ha ritenuto di risolvere autonomamente il problema dell’operatività intertemporale della nuova legge, muovendo, però, dalla diversa considerazione [51] che la sopravvenienza normativa in esame abbia interferito con una fattispecie, pur sempre processuale, ma «complessa» [52], la cui disciplina, per ciò solo, resterebbe assoggettata, per l’intero procedimento, al quadro normativo, antecedente alla legge n. 3/2019, che ne ha determinato l’avvio [53]. In quest’ottica, ha escluso che il mutamento legislativo sopravvenuto – nell’irrobustire il catalogo dell’art. 4-bis, comma 1, legge n. 354/1975, richiamato dall’art. 656, comma 9, c.p.p. – possa determinare la revoca del provvedimento di sospensione legittimamente emesso ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p. o [continua ..]


5. Segue: c) la voce della Corte di Strasburgo

Il discorso è ben noto e riguarda il più volte citato modus interpretandi di tipo sostanzialistico – fondato sulla nozione “autonoma” di «matière pénale», elaborata sulla scorta dei celebri Engel criteria [55] – teso a disvelare la vera natura di un istituto, al fine di estendervi le garanzie e principi della Convenzione. Per il consolidato orientamento della Corte europea – inaugurato dalla nota decisione Del Rio Prada c. Spagna [56], ma già contenuto in nuce nella pregressa giurisprudenza convenzionale [57] –, la nozione di “materia penale” comprenderebbe anche il sistema delle misure esecutive e penitenziarie che comportino una ridefinizione o una modifica della portata della pena inflitta. La Corte EDU, cioè, pur ribadendo che il divieto di irretroattività di cui all’art. 7 Cedu si applica, in linea di principio, solo alle disposizioni che definiscono i reati e fissano le pene (e non anche a quelle processuali ed esecutive), ritiene non decisiva la formale distinzione tra una misura che costituisce una “pena” e una misura “relativa all’esecuzione o all’applicazione di una pena”, allorquando la disposizione definita processuale dal diritto interno travalichi la semplice esecuzione, incidendo sulla natura della pena stessa e sul diritto alla restituzione anticipata della libertà. In tal caso, infatti, saremmo al cospetto di una norma di «diritto penale materiale», così derivandone l’applicazione del principio nulla poena sine lege [58]. Le ragioni a sostegno di questa conclusione sarebbero di palmare evidenza: ove il divieto di retroattività non operasse anche in tali ipotesi, gli Stati – schermandosi dietro il principio della “autoqualificazione” [59] – resterebbero liberi di ridefinire ex post, in senso sfavorevole per l’interessato, la portata della pena inflitta per fatti già compiuti, così aggirando i presidi imposti dall’art. 7 Cedu (in particolare, al § 1, secondo periodo). La Corte di Strasburgo, non a caso, sottolinea come il termine «imposed», contenuto nel secondo periodo dell’art. 7, § 1, Cedu, non possa essere interpretato nel senso di escludere dal campo applicativo della disposizione tutte le misure adottabili dopo che sia stata emessa una [continua ..]


6. La contromossa della Corte costituzionale: scacco al Re!

Per quanto imbastite per risolvere un problema “ad esaurimento” (riguardante, cioè, i soli casi di reati contro la p.a. commessi prima dell’entrata in vigore della legge “spazzacorrotti”), le argomentazio­ni di ampio respiro elaborate dai giudici costituzionali [63] lasciano presagire ulteriori sviluppi. La sentenza rappresenta una svolta storica nello sviluppo del principio di irretroattività, doverosamente esteso, a determinate condizioni, al settore dell’ordinamento penitenziario, un tempo sottratto – quasi come ius exceptum – all’egida dell’art. 25, comma 2, Cost. Una svolta coraggiosa, perché segna il superamento delle rigide dicotomie formali accolte nell’architettura del codice Rocco e dell’insidiosa idea che le norme dell’ordinamento penitenziario siano al riparo dalla “volubilità” del legislatore, in quanto nome processuali non incidenti sulla libertà personale del singolo. Nell’offrire una lettura evolutiva e flessibile dei principi costituzionali, la Corte parte da lontano. Racconta, dapprima, di un «quadro ricco di sfumature» [64], che raffigurerebbe lo stato della giurisprudenza costituzionale in materia, più volte chiamata a misurarsi con la retroattività di modifiche in peius di tenore analogo a quelle oggetto di scrutino. Riferisce, cioè, di aver esaminato diverse questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento al principio di irretroattività [65], pronunciandosi talora con decisioni di accoglimento parziale – sulla base, però, di parametri diversi dall’invocato art. 25, comma 2, Cost. (in particolare, avvalendosi degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.) [66] –, talaltra con sentenze di rigetto [67], senza tuttavia spingersi, in queste sedi, sino ad una dichiarazione generale di principio circa l’estraneità di tutte le modifiche in peius della disciplina esecutiva al raggio d’azione del principio di legalità. Rievoca, quindi, un fascio di esperienze ben lontano dalla “collaborazione a specchio” che caratterizza l’attuale circuito della cross-constitutional interaction, eppure enormemente significativo per una “Corte dei diritti” ancora estranea [68] al sistema multilevel di garanzia. Lo scenario, si sa, è poi celermente [continua ..]


7. La doppia anima del principio di irretroattività

La Corte spiega con molta chiarezza – anzi, con un livello di chiarezza forse suscettibile di provocare reazioni emotive – che il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora prevedute, pure in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione, non solo garantisce la ragionevole prevedibilità delle conseguenze derivanti dalla violazione del precetto penale (salvaguardando la «certezza di libere scelte d’azione», anche sotto il profilo difensivo), ma rappresenta, altresì, un presidio contro l’abuso del potere legislativo, storicamente proteso – sul presupposto che salus rei publicae suprema lex esto – ad aggrava­menti ex post di pene per fatti pregressi [71]. La ratio del divieto costituzionale è, dunque, bilatera: da un lato, garantire il singolo da variazioni normative di segno peggiorativo non “prevedibili”; dall’altro, difendere lo Stato di diritto, costruito – appunto – sull’idea di prééminence du droit e sulla soggezione ad esso del potere politico. Il concetto di “Stato di diritto” evoca, dunque, un potere politico che assoggetta le sue decisioni a regole e principi stabiliti ex ante. Il fine è chiaro: scongiurare il pericolo che la politica tracimi in puro esercizio del potere senza diritto, o con un diritto specificamente creato per raggiungere e mai limitare gli scopi del potere medesimo, non sempre fondati sull’idea di sicurezza, ma anche su altri – e meno nobili – interessi. Sebbene questa idea della voluntas Principis asservita ad «una “legge” pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare» [72] non sia – appunto – un’idea nuova [73], deve constatarsi come essa abbia acquisito una autonoma capacità dimostrativa nell’iter argomentativo della Corte, promettendo, forse, ulteriori sviluppi nei diversi settori dell’ordinamento in cui rilevano esigenze analoghe. In questa prospettiva, i giudici costituzionali «[“riposizionano”] i paletti del principio di irretroattività» [74]. Non dubitano, infatti, che la regola sinora consacrata [continua ..]


8. Il ravvisato contrasto con l’art. 24 Cost.

L’art. 25, comma 2, Cost. non è l’unico parametro valorizzato dalla Corte. L’impossibilità di cambiare strategia difensiva dopo un mutamento – nel corso delle indagini o del processo – del quadro normativo sull’esecuzione della pena determinerebbe la lesione del diritto di difesa. Un rilievo, quest’ultimo, «di intuitiva evidenza» che, toccando un aspetto nevralgico del problema, non poteva essere adombrato dalla violazione – quella dell’art. 25, comma 2, Cost. – dotata di maggiore vis espansiva. La retroattività della nuova disciplina, infatti, mortificherebbe le basilari garanzie del giusto processo (art. 111 Cost., art. 6 Cedu) e, a monte, lo stesso principio di certezza del diritto, di cui è proiezione il “principio di affidamento”, che costituisce, a sua volta, un limite alla libertà del legislatore di agire “ora per allora” [76]. È incontestabile, al riguardo, che una modifica sfavorevole della disciplina esecutiva e penitenziaria, con effetto retroattivo sui procedimenti in corso, frusterebbe – contravvenendo alla stessa fairness processuale – il diritto inviolabile di difesa (art. 24 Cost.), che senz’altro implica la facoltà di scelta dell’iter procedimentale da seguire. Che la volontà della parte possa assumere una specifica rilevanza sulle dinamiche processuali è, del resto, un dato acquisito [77]: se spetta al pubblico ministero promuovere l’azione penale, l’imputato può orientarla nella direzione del rito e del metodo probatorio, scegliendo, alla luce delle variabili del singolo processo (e, quindi, degli epiloghi prospettabili, della prognosi sanzionatoria, dei benefici correlati alla scelta di un procedimento alternativo, delle tempistiche processuali, delle implicazioni sullo strepitus fori, ecc.), se «difendersi provando», anche nelle forme diverse e ben più limitate del rito abbreviato, o – piuttosto – «negoziando» [78], nell’ottica di una pena che lo candidi sin da subito ad una misura alternativa, passando per il meccanismo sospensivo dell’art. 656, comma 5, c.p.p.


9. La tassonomia della Corte: a) misure alternative alla detenzione, liberazione condizionale e divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione

La proiezione di quest’iter argomentativo sulla quaestio sub iudice ha indotto la Corte – nel prisma dell’art. 25, comma 2, Cost., letto alla luce dell’art. 7 Cedu – ad escludere l’applicazione retroattiva delle (sole) modifiche estensive dell’art. 4-bis legge n. 354 del 1975 che incidano, in chiave afflittiva, sulla qualità e sull’essenza della pena irrogata, rendendola, almeno agli inizi, necessariamente detentiva. La Corte, però, consapevole delle insidie che la versatile nozione di “materia penale” reca con sé, rifugge da un’applicazione generalizzata dello strumento convenzionale (c.d. “chilling effect”) ed offre, utilizzando la tecnica del distinguishing, un’accurata opera di selezione di istituti concretamente incidenti sulla portata della comminatoria e, quindi, “sostanzialmente penali”. In questa prospettiva, riconosce la “natura sostanziale” delle misure alternative alla detenzione, in quanto relative “al punire” [79] e non “al procedere” [80], ricavandone il divieto di applicazione retroattiva dell’art. 1, comma 6, lett. b), legge n. 3 del 2019, che ha indirettamente inciso su tali misure. È chiaro, infatti, che la retroazione temporale della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, legge n. 354 del 1975 rispetto alle misure extramurarie incide concretamente sulla qualità della pena inflitta al condannato per reati contro la p.a., tramutandola – ora per allora – da normalmente alternativa in certamente detentiva (almeno per la parte iniziale). Trattasi di considerazioni plasticamente riproponibili per la liberazione condizionale (artt. 176 e 177 c.p.), anch’essa finalizzata a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società. Alla Corte costituzionale, non a caso, appare egualmente evidente che subordinare il riconoscimento di tale misura alla previa collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporti, per il condannato, un significativo prolungamento del periodo da trascorrere “dentro” il carcere e, quindi, l’espiazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto. Questa conclusione investe anche il divieto processuale di cui all’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. Invero, muovendo dall’assunto che la collocazione [continua ..]


10. Segue: b) permessi premio, lavoro all’esterno e principio rieducativo

La Corte, per contro, non ritiene che la portata contenutistica della nozione di “materia penale” sia tale da includere anche i benefici penitenziari del permesso premio (art. 30-ter legge n. 354 del 1975) e del lavoro all’esterno (art. 21 legge n. 354/1975), trattandosi di istituti che non incidono sulla qualità della pena, che continua ad essere “intramuraria”, bensì solo sulla sua dimensione esecutiva. Essi, infatti, consentono al condannato “i primi spazi di libertà” a fini rieducativi, in vista dell’even­tuale concessione di misure alternative alla detenzione, ma il condannato ammesso periodicamente a goderne resta pur sempre un detenuto che sconta una pena detentiva, anche quando le condizioni di accesso ai benefici medesimi siano state rese più gravose da una sopravvenienza normativa. In ordine a tali istituti, dunque, opera la regola tempus regit actum. Nondimeno, dinanzi alla constatazione che, per essi, non possa trovare applicazione la garanzia costituzionale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., la Corte rimarca l’anomalia di un iter rieducativo bruscamente interrotto da fattori esogeni e indipendenti dalla condotta colpevole del soggetto in vinculis ed esclude, conseguentemente, che il legislatore possa disconoscere arbitrariamente, attraverso una modifica in malam partem retroattivamente applicabile, il percorso effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, alla data di entrata in vigore della nuova legge, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. La Consulta [81], a ben vedere, raccoglie le sollecitazioni di alcuni giudici rimettenti, riproponendo il comune sentire delle plurime pronunce di costituzionalità che, nel tempo [82], hanno delineato la portata della funzione rieducativa e dei principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (artt. 3 e 27, comma 3, Cost.). Rievoca quelle argomentazioni molto care oggi, più che in passato, alla Consulta [83], secondo cui, ove fosse preclusa una valutazione individualizzata del percorso carcerario del condannato e negato l’accesso ai benefici in forza di una presunzione di immutabilità sia della personalità, che del contesto esterno di riferimento, l’opzione repressiva finirebbe per relegare nell’ombra il profilo rieducativo che rappresenta, invece, il cuore pulsante [continua ..]


11. Salus rei publicae suprema lex esto. I dubbi di ragionevolezza della presunzione di pericolosità per i delitti contro la p.a.

La legge “spazzacorrotti”, nella parte in cui estende il regime “assolutamente ostativo” alla maggior parte dei delitti contro la p.a., si caratterizza per l’indiscutibile carica simbolica [90]. Invero, la riforma segna il definitivo allineamento normativo tra criminalità “bianca” (white collar) e criminalità “nera” (cioè organizzata) [91], dimenticando, d’un lato, le diversità – profonde e notorie – che connotano i due fenomeni criminosi, e trascurando, dall’altro, la stessa ratio sottesa al “trattamento differenziato” del c.d. “doppio binario” (nella sua articolazione penale, processuale e penitenziaria), originariamente pensato, a ragion veduta, per il fenotipo del crimine organizzato. In quest’ottica, opta per un criterio di differenziazione esecutiva fondato su una presunzione legale di pericolosità, connessa – in quanto tale – alla sola commissione, giudizialmente accertata, di una certa tipologia di reati: risulta, così, irrilevante che il condannato abbia tenuto un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole in termini rieducativi. “One” strike and you are out: qualificato come “infedele”, in quanto condannato per uno dei reati contro la p.a., il dipendente pubblico rimane permanentemente pericoloso. Il proposito del legislatore è evidente: dare un segnale di netto rigore, precludendo alla criminalità dilagante di “sfruttare” gli spazi lasciati dalla legislazione premiale, perché la pena “deve” essere «certa, esclusivamente retributiva, neutralizzatrice, meglio se elevata e dura, da scontare integralmente dietro le sbarre fino all’ultimo giorno» [92]. La matrice culturale è altrettanto manifesta: il “pubblico dipendente infedele” rappresenta il simbolo dell’efferatezza e la sua punizione deve esprimere pubblicamente «la restaurazione dei valori calpestati, l’ineluttabilità della pena e il messaggio morale della lotta contro di essi» [93]. Il risultato rasenta l’ovvietà: il forzoso periodo di “osservazione” intramuraria prescritto per questa tipologia di reati nulla ha a che vedere con peculiarità trattamentali imposte dalle caratteristiche strutturali delle fattispecie in [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2021