Il libero convincimento del giudice è influenzato dai difficili equilibri tra giustizia penale e informazione: quanto sia schermato dalla normativa sul divieto di pubblicazione degli atti e fino a che punto possa essere condizionato dalle suggestioni mediatiche, è questione di grande attualità. Le soluzioni vanno rintracciate su più fronti, ricomponendo i segmenti del mosaico processuale attraverso dei rimedi normativi utili a recuperare ruoli, funzioni e responsabilità, che consentano al giudice di restare super partes, facendo salvo il diritto di cronaca giudiziaria senza rimanere ostaggi del processo mediatico.
The free conviction of the judge is influenced by the difficult balance between criminal justice and information: how much it is shielded by the legislation on the ban on the publication of documents and to what extent it is conditioned by media suggestions, is a matter of great relevance. The answers can be found on many fronts, recomposing the segments of the procedural mosaic through the regulatory remedies useful for recovering the roles, functions and responsibilities, the consent by the judge to keep super parties, means that the right of judicial reporting remains without prejudice and without being held hostage to media-driven trials .
Articoli Correlati: principio del libero convincimento del giudice - informazione - divieto di pubblicazione
1. Il tema dell’indagine - 2. Nella selva oscura dell’art. 114 c.p.p. le linee guida a tutela di interessi processuali - - 3. Il divieto di pubblicazione degli atti: uno scudo fragile a garanzia della presunta neutralità del giudice - 4. La parola o il bavaglio alla stampa? Direttrici costituzionali e internazionali - 5. De lege ferenda - NOTE
Non vi è chi non riconosca la complessità del rapporto tra giustizia penale e informazione, che si riverbera sulla quanto mai intricata disciplina del divieto di pubblicazione degli atti, di cui all’art. 114 c.p.p. Il groviglio normativo, tanto vituperato [1], è la sintesi estrema della necessità di comporre più interessi in gioco, correlati a valori fondamentali costituzionalmente protetti [2].
Se il codice di rito detta le regole del processo in termini di diritto positivo, dando forma ai princìpi inossidabili del “giusto processo”, è la Costituzione che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, il cui pendant è il diritto all’informazione, che, tuttavia, in questo delicato momento storico, mina i capisaldi del sistema accusatorio, sotto le mentite spoglie della necessità (di per sé assolutamente legittima) di controllare la corretta amministrazione della giustizia.
A complicare il difficile equilibrio tra giustizia penale e diritto all’informazione sono innanzitutto i canali di comunicazione di massa che viaggiano su binari spazio-temporali faticosamente governabili, gestiti da professionisti talvolta poco competenti e svincolati da presidi etico-deontologici. Basti pensare alla rete internet, ai social networks, ai talk shows televisivi, alle inchieste giornalistiche paragiudiziarie, alla diffusione delle fake news e agli hackers che manipolano dati e informazioni, al punto da scatenare intrighi internazionali restando nell’assoluto anonimato.
Le ricadute involgono il fronte processuale e quello extra-processuale. Sul primo versante, emerge il rischio di pregiudicare il corretto svolgimento dell’attività investigativa e di generare una profonda crisi di identità nei ruoli, nelle funzioni e nelle prerogative dei protagonisti della vicenda processuale. Sul terreno extra-processuale, l’opinione pubblica si conforma spesso alla cronaca giudiziaria, alle manipolazioni genetiche esercitate dai canali di informazione che rappresentano i fatti processuali e ne influenzano il giudizio di valore [3].
Queste premesse danno vita al cosiddetto “processo mediatico”, che miete più vittime di quello “ordinario”, perché espone alla gogna pubblica: persone sottoposte alle indagini da subito colpevolizzate [4]; persone offese, ulteriormente perseguitate dalla morbosa curiosità collettiva, che raramente si traduce in autentico spirito di compassione e solidarietà; terzi estranei a caccia di notorietà, o semplici testimoni inconsapevoli. L’opinione pubblica perde fiducia nell’intero sistema giustizia per il ritardo del processo giurisdizionale rispetto ai tempi e agli esiti del processo mediatico [5].
Ci si domanda se tutto questo eco mediatico, probabilmente causato dall’inadeguatezza della normativa sul divieto di pubblicazione di atti e di immagini, possa irrompere fino a condizionare la serenità e l’imparzialità nella formazione del convincimento del giudice [6].
Dove inizia l’obbligo di segretezza dell’attività investigativa, per garantirne lo sviluppo, la completezza e l’efficienza, e dove termina, per tutelare la presunzione di non colpevolezza, il diritto di difesa, il libero convincimento del giudice, la garanzia del contraddittorio e la riservatezza della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa dal reato sono confini tracciati dall’art. 329 c.p.p., che va letto in combinazione con l’art. 114 c.p.p. Ma lo scenario si complica ulteriormente quando si intende segnare la linea di demarcazione tra l’obbligo del segreto e il diritto all’informazione sull’attività investigativa, che pone su fronti opposti da una parte i protagonisti del processo e, dall’altra, la collettività, che, sia pure indirettamente e in termini mediati, ha sete di sapere per assicurarsi che la giustizia venga amministrata correttamente.
A ben guardare, i confini del diritto all’informazione della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa dal reato, nella fase delle indagini preliminari, sono delineati in modo chiaro quanto a tempi, forme e modalità, secondo la normativa fissata dal codice in materia di: divieto di pubblicazione degli atti (art. 114 c.p.p.) e segreto investigativo (art. 329 c.p.p.), accesso al registro delle notizie di reato (art. 335, commi 3, 3 bis e 3 ter c.p.p.), informazioni alla persona offesa (art. 90 bis c.p.p.), informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), informazione della persona sottoposta alle indagini sul diritto di difesa (art. 369 bis c.p.p.), avviso relativo alla conclusione delle indagini (art. 415 bis c.p.p.). Per contro, il diritto all’informazione vantato dalla collettività – costituzionalmente garantito (art. 21 Cost.) – non trova un riscontro in termini positivi nel corso delle indagini preliminari, quando vige il segreto investigativo (art. 329 c.p.p.), accompagnato dal divieto di pubblicazione di atti e immagini e dalle sanzioni conseguenti alle relative violazioni (artt. 114-115 c.p.p.). Evidentemente, nel bilanciamento degli interessi in gioco prevale quello all’efficienza investigativa e alla tutela della riservatezza della persona sottoposta alle indagini rispetto al diritto all’informazione.
Nella realtà applicativa, grande attenzione è rivolta alla fase iniziale del procedimento penale, la più delicata, che sollecita la massima allerta mediatica in relazione al clamore assunto dai fatti di cronaca giudiziaria. Durante le indagini preliminari si concentrano: le fughe di notizie, le inchieste giornalistiche parallele, che creano notevoli pressioni sugli organi ufficialmente deputati alle investigazioni, le costanti violazioni dei divieti di pubblicazione degli atti, con effetti devastanti e spesso irrimediabili.
Il diritto all’informazione risulta salvaguardato in termini positivi nella fase del dibattimento, caratterizzata dal principio fondamentale della pubblicità dell’udienza (art. 471 c.p.p.), che avrebbe senso se l’orologio del processo fosse perfettamente sincronizzato sulla sua durata ragionevole e, soprattutto, se la fase anteriore delle indagini preliminari fosse davvero contraddistinta dalla segretezza investigativa, secondo l’originario disegno del codice di rito.
La crisi della fase dibattimentale è riconducibile sia alla sua graduale perdita di centralità, quale sede naturale di acquisizione della prova, sia alle crescenti contaminazioni di saperi probatori che approdano nel panorama cognitivo del giudice senza passare dal vaglio del contraddittorio.
Quanto il giudice sia schermato dalla normativa sul divieto di pubblicazione degli atti nella formazione del suo convincimento e fino a che punto possa essere condizionato dalle suggestioni mediatiche è questione di grande attualità.
Alla complessità del problema – va subito detto – non può essere data una risposta univoca e occorre cercare di ricomporre i segmenti del mosaico processuale con dei rimedi normativi utili a recuperare ruoli, funzioni e responsabilità, che consentano al giudice di restare super partes, facendo salvo il diritto di cronaca giudiziaria ma senza rimanere ostaggi del processo mediatico.
L’istituto del divieto di pubblicazione di atti e immagini (art. 114 c.p.p.) incorpora garanzie che corrispondono a più prospettive di analisi della disciplina.
L’indagine sulla normativa posta a tutela degli interessi di natura processuale [7] è qui caratterizzata dal collegamento logico-giuridico con la disciplina del segreto investigativo, ex art. 329 c.p.p., che presidia il buon esito delle indagini preliminari [8].
La regola generale, fissata dall’art. 114, comma 1, c.p.p., è quella del divieto assoluto di pubblicazione [9] degli «atti coperti dal segreto», divieto rivolto a chiunque ponga in essere la condotta divulgativa per mezzo della stampa e/o di qualsiasi altro strumento di diffusione. L’assolutezza è palmare, dal momento che il legislatore bandisce espressamente qualsiasi forma di pubblicazione anche «parziale o per riassunto» [10], non solo degli atti coperti dal segreto, ma anche «del loro contenuto»; il che significa che è assolutamente vietato rendere nota, in qualsiasi forma, anche solo l’esistenza concettuale di un atto coperto dal segreto [11].
Si celebra così la tradizionale partizione tra “segretezza interna”, che ha ad oggetto gli atti di cui non possono venire a conoscenza neppure le parti direttamente interessate al processo, a maggior ragione inaccessibili ai terzi estranei, e “segretezza esterna”, che esclude la conoscibilità degli atti solo per questi ultimi (i terzi, quindi il pubblico) [12].
L’intento primario è chiaramente quello di preservare: l’integrità e l’efficacia dell’attività investigativa condotta dall’organo inquirente, la presunzione di non colpevolezza della persona sottoposta alle indagini, la tutela della riservatezza delle persone direttamente o indirettamente coinvolte nel processo penale, «la serenità e l’indipendenza del giudice contro le possibili suggestioni o le interferenze di qualsiasi genere» [13].
Singolare come sin dalla vigenza del codice Rocco fosse avvertita la preoccupazione di preservare la formazione del convincimento del giudice da qualsiasi contaminazione [14]. Quella preoccupazione è stata amplificata sia dall’inadeguatezza genetica della disciplina in materia di divieti di pubblicazione, sia dalla prepotente ingerenza esercitata dai mass media.
Oggi l’intelaiatura dell’art. 114 c.p.p. si rivela lineare solo nella forma, non anche nei contenuti, in quanto prevede al comma 1 la regola generale del divieto assoluto di pubblicazione degli atti coperti dal segreto, seguita, nei commi successivi, dai divieti relativi (descritti dal legislatore parallelamente all’incedere delle fasi del processo) e da una norma di chiusura (art. 114, comma 7, c.p.p.), che, anziché rispondere alla sua tipica funzione di chiarire il margine esterno dell’intera disciplina, in realtà, crea un varco che ne favorisce la perenne violazione.
Nella lettura sistematica del divieto assoluto di pubblicazione, il primo intoppo interpretativo è rappresentato dalla esatta individuazione degli “atti coperti dal segreto”, rintracciabili ai sensi dell’art. 329, comma 1, c.p.p. nell’ampio contenitore degli «atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria». Tali dovrebbero etichettarsi tutti gli atti di indagine tipici e atipici, posti in essere ab origine per perseguire finalità di natura esclusivamente investigativa, vale a dire utili a ricercare e individuare elementi di prova, da parte degli organi inquirenti pubblici (pubblico ministero e/o polizia giudiziaria) [15]. Ai predetti, si aggiungono «le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste», inseriti nella suddetta elencazione, a seguito della legge di attuazione della cosiddetta “riforma Orlando” (art. 2, comma 1, lett. f, d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, modificato dalla l. 30 dicembre 2018, n. 145), nel preciso intento di evitare che, attraverso la pubblicazione di tali atti, si potesse aggirare la disciplina dei divieti di cui all’art. 114, comma 1, c.p.p. [16]
Nonostante il correttivo introdotto, restano aperte molte questioni riguardanti talune categorie di atti pubblicabili perché non rientranti nella predetta definizione, ma che comunque tradiscono lo spirito dell’istituto; si pensi, a titolo puramente esemplificativo, agli atti riconducibili alle indagini difensive, ovvero a quelli compiuti durante le inchieste giornalistiche.
L’obbligo del segreto e il conseguente divieto assoluto di pubblicazione permangono «fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari» (art. 329, comma 1, c.p.p.). Esiste, dunque, un primo margine temporale di caducazione della segretezza interna segnato dalla conoscibilità degli atti da parte dell’imputato, o meglio della persona sottoposta alle indagini, nonché del suo difensore, per ragioni connesse con lo sviluppo dell’attività investigativa, a cui segue, in via subordinata, un termine estremo, rappresentato dalla chiusura delle indagini preliminari (rectius non oltre il momento dell’invio dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ex art. 415 bis c.p.p.), decorso il quale viene meno il vincolo della segretezza interna.
A questo punto la gestione dell’obbligo del segreto viene rimessa nella mani del pubblico ministero, al quale in estrema sintesi è conferito il potere di “segretazione” e “desegretazione”, nel senso di anticipare ovvero di posticipare la conoscibilità, anche parziale, di taluni atti di indagine, mediante l’emanazione di un decreto motivato, in espressa deroga alla disciplina sui divieti di pubblicazione, nell’interesse superiore alla prosecuzione delle indagini (art. 329, commi 2 e 3, c.p.p.) [17].
Tornando nei meandri della disciplina del divieto di pubblicazione degli atti, va subito precisato che è errato far corrispondere il momento in cui cessa l’obbligo di segretezza interna con la legittimazione a divulgare gli atti anteriormente sottoposti a tale vincolo [18]; permane, infatti, l’obbligo di segretezza esterna, così come si evince dai passaggi successivi al comma 1 dell’art. 114 c.p.p.
Gradualmente, nell’incedere del processo, i divieti di pubblicazione da assoluti diventano relativi, nel senso che opera il divieto di pubblicazione «anche parziale» degli atti non più coperti dal segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza che dispone una misura cautelare personale ex art. 292 c.p.p. (art. 114, comma 2, c.p.p., così come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 216/2017) [19].
Trattasi di quegli atti di indagine per i quali è venuta meno la segretezza interna (dunque, conoscibili dalle parti), che evidentemente possono essere divulgati «per riassunto», quindi in termini di sintesi essenziale e descrittiva del contenuto, senza alcun rifermento testuale, anche solo parziale. Il divieto in parola, infatti, non appare esteso secondo la lettera della norma alla pubblicazione «per riassunto», a differenza di quanto previsto espressamente dall’art. 114, comma 1, c.p.p. Senza dire che la pubblicazione del contenuto di atti non coperti o non più coperti dal segreto sarebbe, comunque, ammessa dall’art. 114, comma 7, c.p.p. [20].
La scelta del legislatore è guidata da interessi di natura prettamente processuale, culminanti nell’intento di preservare la «neutralità metodologica» [21] nell’esercizio della funzione giudicante. É, infatti, il modello accusatorio che impone la suddivisione in fasi del processo, nonché l’acquisizione della prova mediate il metodo orale e nel contradditorio tra le parti, alla presenza di un giudice del dibattimento, terzo ed imparziale, che per rimanere tale deve essere all’oscuro delle risultanze probatorie relative alle fasi anteriori del procedimento.
In tale prospettiva, se non si deve procedere alla fase dibattimentale, ai sensi dell’art. 114, comma 2, c.p.p., «gli atti delle indagini e dell’udienza preliminare sono assoggettati al divieto di pubblicazione fino all’emissione dei provvedimenti che escludono l’instaurazione del processo (decreto di archiviazione) o ne determinano la conclusione anticipata (sentenza di non luogo a procedere, sentenza che applica una pena su richiesta delle parti, sentenza di merito nell’udienza preliminare), ovvero ancora fino a quando non sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna» [22]. Giova, comunque, precisare che con riferimento alla sentenza di non luogo a procedere, il divieto di pubblicazione permane fino a quando la pronuncia non risulti più soggetta ad impugnazione (ovvero, in caso di impugnazione della stessa, fino alla decisione definitiva), come pure il divieto in parola si ripristina automaticamente con la riapertura delle indagini dopo l’archiviazione (art. 414 c.p.p.), e con la revoca della sentenza di non luogo a procedere (art. 436, comma 2, c.p.p.).
Sulla scia di tale percorso logico-giuridico, gli atti del procedimento sono integralmente pubblicabili anche a seguito della pronuncia della sentenza anticipata di proscioglimento (art. 469 c.p.p.).
D’altronde, per blindare la neutralità psicologica dell’organo giudicate da qualsiasi suggestione, fino a quando restano incerti gli esiti della prima fase del procedimento e la relativa evoluzione, è impensabile la pubblicazione di atti potenzialmente destinati al fascicolo del pubblico ministero, atti, dunque, conoscibili dal giudice del dibattimento solo attraverso il meccanismo delle “contestazioni” (artt. 500 e 503 c.p.p.), oppure mediante la tecnica delle “letture” per sopravvenuta impossibilità di ripetizione (art. 512 c.p.p.) [23].
Da ultimo, il tessuto normativo dell’art. 114 c.p.p. ha subito un’ennesima dilatazione del suo spazio di operatività conseguente alla recente riforma del sistema delle intercettazioni telefoniche. Con l’introduzione del comma 2 bis si prevede un divieto assoluto di pubblicazione, anche solo parziale, «del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli artt. 268, 415bis e 454» [24].
Lo snodo processuale successivo attiene alla fase dibattimentale, nel corso della quale, con il sistema del doppio fascicolo (artt. 431 e 433 c.p.p.), il giudice può prendere cognizione esclusivamente di tutti gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, che, pertanto, sono immediatamente pubblicabili integralmente a partire dal momento della formazione del predetto fascicolo. Invero, a tale conclusione si è pervenuti a seguito dell’intervento della Consulta che, con la sentenza n. 59 del 1995, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 114, comma 3, c.p.p., nella parte in cui vietava la pubblicazione, anche in forma parziale, degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado [25]. Si trattava di un divieto anacronistico in relazione all’intento della norma di preservare il libero convincimento del giudice, posto che gli atti del fascicolo per il dibattimento rappresentano gli unici ai quali il giudice ha necessariamente accesso, o addirittura che egli stesso ha disposto, come nel caso degli «atti urgenti» (467 c.p.p.) nell’ambito degli atti preliminari al dibattimento [26]. Senza dire che la versione originaria del divieto in parola esorbitava dalle coordinate puntualmente tracciate dalla legge delega in materia [27].
Il divieto in questione si ripristina nel caso in cui venga sollevata e accolta una questione preliminare concernente il contenuto del fascicolo per il dibattimento, di cui all’art. 491, comma 2, c.p.p., che comporta la riconsegna dell’atto al fascicolo del pubblico ministero.
Ai sensi dell’art. 114, comma 3, c.p.p., sempre nel caso in cui si acceda alla fase dibattimentale, permane il divieto di pubblicazione, anche parziale (quindi non per riassunto, evidentemente ammesso) degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, atti accessibili alle parti, che includono anche gli esiti delle indagini difensive [28]. Si tratta di atti non garantiti, in quanto formati unilateralmente, sottratti alla conoscenza diretta del giudice, il quale potrà apprenderne il contenuto solo attraverso il meccanismo delle contestazioni (artt. 500 e 503 c.p.p.). Per questa ragione «è sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni» (art. 114, comma 3, c.p.p.).
A ben guardare, anche quest’ultimo profilo della disciplina suscita qualche perplessità, dal momento che, far dipendere dalla lettura degli atti utilizzati per le contestazioni la loro divulgazione integrale, «appare ingiustificato ed inopportuno, anche perché potrebbe finire per incentivare il ricorso a contestazioni strumentali» [29]. Occorre, allora, dare al dettato normativo una interpretazione più restrittiva, nel senso di legittimare la pubblicazione della parte di un atto ovvero della singola dichiarazione che sia stata utilizzata per la contestazione, piuttosto che della versione integrale dell’atto che la contiene [30].
Il divieto di pubblicazione avente ad oggetto gli atti di indagine condotti dagli organi inquirenti, custoditi nel fascicolo del pubblico ministero, permane fino alla pronuncia della sentenza in grado di appello (art. 114, comma 3, c.p.p.) [31]. Ancora una volta, il legislatore punta a scongiurare qualsiasi influenza sul panorama cognitivo e, dunque, sul libero convincimento del giudice del dibattimento, prima, ed eventualmente anche sul giudice d’appello, poi. Tale pericolo, comunque, non è schivato del tutto, in quanto non si può escludere una regressione del processo a seguito di accoglimento del ricorso per cassazione, che annulli con rinvio al giudice di merito (art. 623 c.p.p.), con eventuale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (art. 603 c.p.p.) [32].
Altre storture del sistema derivano dal dettato dell’art. 114, comma 7, c.p.p. in base al quale «È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto» [33]. La norma rivela la consapevolezza da parte del legislatore di dover coniugare il divieto di pubblicazione degli atti con il diritto all’informazione giudiziaria, circoscrivendo la divulgazione al “contenuto” dell’atto [34]; in dottrina si osserva che il dettato normativo pecca di ingenuità [35]. In particolare, si registra un difetto di coordinamento, che si sostanzia in una contraddizione, rispetto alla deroga contemplata dall’art. 329, comma 3, lett. b, c.p.p., secondo cui il pubblico ministero è legittimato a procrastinare la segretazione del contenuto di singoli atti o specifiche notizie riguardanti determinate operazioni, quando risulti necessario per la prosecuzione delle indagini.
Accanto alla svista del legislatore, la norma di chiusura presta il fianco a sviamenti interpretativi strumentali ad aggirare l’intera disciplina dei divieti, mediante «un’accorta “cosmesi” testuale» [36] legittimata sotto l’etichetta di “contenuto” dell’atto, che pone al riparo dall’applicazione di qualsiasi sanzione, «ma che certo non impedisce al giudice di riconoscere la provenienza del resoconto» [37]. In concreto, se l’atto non può essere pubblicato integralmente, e neppure parzialmente, cioè attraverso la tecnica dello stralcio, il “contenuto” di un atto può essere illustrato attraverso una descrizione tanto accurata da rivelarne l’interezza, privandola soltanto del «crisma dell’ufficialità» [38], con elusione del divieto di pubblicazione, o quanto meno con violazione dello spirito della norma.
L’impianto normativo posto a difesa della formazione neutrale del convincimento del giudice ha suscitato da subito molte incertezze [39], che nel tempo sono aumentate a causa del dilagante uso distorto della cronaca giudiziaria.
Si è passati dal cauto ottimismo della Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale nei confronti del «giudice del dibattimento, [il quale] se può essere influenzato dalla pubblicazione degli atti veri e propri, è in grado di non fondare il proprio convincimento su notizie di stampa più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il contenuto di atti» [40], alla fondata preoccupazione che le campagne mediatiche martellanti e colpevoliste possano nuocere alla cosiddetta “verginità cognitiva” del giudice [41].
Il circolo vizioso muove dai mezzi di comunicazione di massa che sul pianeta mediatico, sapientemente, sono in grado di pilotare e alimentare la curiosità collettiva verso i più raccapriccianti episodi di cronaca giudiziaria, non tanto per garantire il diritto all’informazione – come sarebbe legittimo – quanto per accaparrarsi l’audience. A sua volta, l’opinione pubblica viene coinvolta a tal punto da non voler semplicemente partecipare alla corretta amministrazione della giustizia controllando il suo naturale sviluppo, ma incidere più pesantemente attraverso manifestazioni collettive che si diffondono in modo virtuale (si pensi ai sondaggi sulla rete internet), o reale (mediante sit-in dinanzi alle sedi dei tribunali, o dimostrazioni collettive sui luoghi dei disastri, o ancora prese di posizione inopportunamente espresse da organi politici od opinion makers), per sollecitare l’intervento tempestivo del potere giudiziario, dimostrando a monte una generale sfiducia nel sistema giustizia.
Il clamore mediatico si concentra sempre nella fase preliminare delle indagini, quella coperta dalla segretezza, nel corso della quale corrono parallele le inchieste giornalistiche e gli scoop editoriali noncuranti sia delle regole relative ai divieti di pubblicazione degli atti, presidiati da blande ricadute sanzionatorie [42], sia dei princìpi fondamentali di civiltà giuridica [43], quali: la presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.) [44], la tutela dell’onore [45] e della riservatezza delle persone coinvolte nella vicenda giudiziaria (artt. 2 e 15 Cost.) [46], la terzietà e l’imparzialità del giudice (art. 111, comma 2, Cost.) [47].
In questo clima non vi è chi non riconosca come la diffusione di informazioni non corrette, o non riscontrabili sul piano documentale con le dovute cautele, nonché la pubblicazione del contenuto di atti (talora distorto dall’umore o dal pregiudizio dell’opinionista di turno) riguardanti procedimenti penali di particolare rilevanza sociale, inevitabilmente condizioni l’opinione pubblica. Quest’ultima, a sua volta, come una “mina vagante” è potenzialmente in grado di turbare la serenità psicologica del giudice chiamato a decidere [48] e, ancor prima, del magistrato inquirente pressato dalla necessità di sfatare i risultati delle inchieste giornalistiche ignare delle garanzie processuali [49].
A tacer d’altro, il giudice è innanzitutto una “persona” dotata di un sapere giuridico e di una professionalità tali da poter esercitare la funzione di ius dicere, in modo autonomo e indipendente essendo soggetto soltanto alla legge secondo i canoni costituzionali (artt. 101-104 Cost.), ma come ogni persona non è impermeabile a sollecitazioni provenienti dal suo vissuto, dalla sua esperienza e dal suo equilibrio personale, che inevitabilmente si riverbera su quello professionale [50].
D’altronde, il libero convincimento del giudice si fonda contestualmente su una “componente conoscitiva” correlata a un’inscindibile “componente emozionale”. Pertanto, lo spazio della deliberazione del giudice è governato dalle regole di giudizio che «si pongono quale contrappeso normativo alla eccessiva dilatazione della sfera emozionale della decisione e costituiscono uno strumento ulteriore di controllo sulla giustificazione razionale della stessa» [51].
Ora, la sfera emozionale della decisione, che non può essere oggettivamente scissa da quella conoscitiva, incide in modo latente e risulta confinata dalle regole di valutazione della prova, che impongono al giudice di fondare il suo convincimento esclusivamente sulle prove legittimamente acquisite in sede dibattimentale (art. 526 c.p.p.). Questo implica che, in teoria, il giudice del dibattimento è tenuto a ignorare tutto il materiale probatorio custodito nel fascicolo del pubblico ministero, materiale del quale potrà legittimamente tener conto nel momento in cui lo stesso transiterà in sede dibattimentale, attraverso il filtro del contraddittorio tra le parti.
Nella realtà applicativa i termini della questione si pongono diversamente, specie per i processi di particolare clamore mediatico. Accade, non di rado, che tante informazioni giungano al giudice anzitempo, attraverso le inchieste giornalistiche e la pubblicazione di atti o del contenuto di atti inizialmente coperti dal segreto, che, malgrado non siano utilizzabili formalmente, perché non acquisiti attraverso i canali ufficiali, finiscono per incidere sulla componente emozionale della formazione del convincimento del giudice, rischiando di condizionare l’esito della decisione [52]; nulla di diverso dal «rischio che il giudicante – pur geloso della propria autonomia – sia in realtà incline ad assecondare, persino senza rendersene conto, l’opinione corrente» [53].
Nell’impossibilità di misurare con esattezza quanto la decisione del giudice possa essere fuorviata, si deve prendere atto che la normativa sui divieti di pubblicazione degli atti, operante a tutela dell’integrità del convincimento del giudice, rappresenta uno scudo fragile e inadeguato rispetto alla nobile funzione alla quale egli è preposto [54].
La cronaca giudiziaria, veicolata dai mezzi di informazione, svolge una funzione sociale nella partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, quale garanzia di controllo sulla corretta applicazione della legge e, al tempo stesso, quale strumento deterrente nei riguardi della collettività che acquista consapevolezza delle conseguenze, in termini di sanzioni, derivanti dalla violazione delle regole. Resta aperta la questione relativa al punto di equilibrio tra libertà di stampa e segreto investigativo [55], in un contesto sempre più condizionato dal progresso tecnologico, che abbatte facilmente le barriere spazio-temporali, travolgendo le garanzie fondamentali, ivi comprese quelle a presidio del libero convincimento del giudice.
Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 Cost., entra, dunque, in rotta di collisione con il “buon funzionamento della giustizia”, salvaguardato dagli artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, Cost., che si manifesta anche attraverso l’interesse all’efficacia dell’attività investigativa e la tutela della corretta formazione del convincimento del giudice. Per garantire il diritto all’informazione non può essere pregiudicato il corretto sviluppo delle inchieste giudiziarie attraverso la divulgazione di taluni atti di indagine [56].
Se fino a ieri il telegiornale, la radio e i quotidiani rappresentavano gli unici canali di informazione, gestiti (di norma) da scrupolose e deontologicamente corrette professionalità nel campo del giornalismo, oggi a questi strumenti (prevalentemente destinati alle vecchie generazioni) si aggiungono quelli di più rapida fruizione via internet (come i social networks) che veicolano, in tempo reale e in forma martellante, notizie di cronaca giudiziaria nebulose, contraddittorie, prive di riscontri, in una parola dettate più che dall’esigenza di raccontare la verità da quella di destare stupore, impressionare secondo logiche di sensazionalismo mediatico [57].
Accanto, dunque, all’aspetto fisiologico, che riconduce la pubblicazione esterna del contenuto degli atti giudiziari non più coperti dal segreto ad espressione di garanzia e di controllo da parte dell’opinione pubblica sulla corretta amministrazione della giustizia, emerge, prepotentemente, il profilo patologico rappresentato dall’avventata divulgazione del contenuto degli stessi atti. Questi ultimi, se trasmessi e percepiti dalla collettività in modo deformato, rischiano di compromettere l’esito delle indagini preliminari, violare la presunzione di non colpevolezza della persona sottoposta alle indagini, lederne l’onore e la riservatezza [58], insidiare la serenità del giudice nella elaborazione del suo convincimento.
Nella consapevolezza che sarebbe anacronistico, oltre che contrario ai pilastri dello Sato di diritto, porre il bavaglio alla stampa mediante il potenziamento dei divieti di pubblicazione, le soluzioni vanno ricercate su più fronti che siano in grado di recuperare un assetto normativo adeguato a coniugare libertà di stampa e rispetto dei valori del giusto processo.
D’altronde, rendere accessibile ai giornalisti tutto il materiale investigativo divulgabile perché non più coperto dalla segretezza, eliminando il diaframma tra segretezza interna e segretezza esterna (che favorisce la fuga di notizie e alimenta la violazione dei divieti) è la soluzione prospettata, sia pure in termini generici [59], dalla Raccomandazione (2003)13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, adottata il 10 luglio 2003, che stabilisce i «Principi relativi alle informazioni fornite attraverso i mezzi di comunicazione in rapporto ai procedimenti penali». Detta Raccomandazione tutela, innanzitutto, il diritto all’informazione dell’opinione pubblica, garantito attraverso la libertà di stampa (principio n. 1) e l’accesso da parte di tutti i giornalisti (che ne facciano richiesta) alle informazioni lecitamente ottenute dall’autorità giudiziaria senza discriminazioni (Principio n. 4), «attraverso comunicati stampa, conferenze stampa tenute da funzionari/ufficiali autorizzati o analoghe modalità comunque autorizzate» (Principio n. 5). Particolare attenzione è riservata al rispetto del principio della presunzione di innocenza, inteso come «parte integrante del diritto ad un giusto processo» (Principio n. 2), nonché alla tutela della privacy delle persone coinvolte nei procedimenti penali in corso (Principio n. 8). All’autorità giudiziaria si richiede di fornire informazioni accurate, precedentemente verificate e fondate su ipotesi ragionevoli (Principio n. 3), specie con riferimento ai procedimenti penali di interesse pubblico, «purché ciò non comprometta il segreto investigativo e le indagini di polizia, né impedisca o ritardi la conclusione dei procedimenti stessi» (Principio n. 6).
Evidenti i riferimenti tesi a garantire i canali ufficiali di informazioni divulgabili, purché previamente riscontrate dall’autorità giudiziaria, come anche la predisposizione degli strumenti utili ad assicurare l’ammissione dei giornalisti nelle aule giudiziarie nel rispetto delle regole del processo, senza pregiudizio per il corretto svolgimento dello stesso e delle persone coinvolte come testimoni (Principi nn. 10-16). Ai giornalisti, inoltre, dovrebbe essere consentito ricevere copia delle sentenze di cui sia stata data lettura pubblicamente, allo scopo di poterle diffondere o comunicare alla collettività (Principio n. 15).
Si tratta di princìpi di civiltà giuridica che – richiamando idealmente gli artt. 6, 8 e 10 CEDU [60] – denotano l’importanza di una specifica regolamentazione dei rapporti tra stampa e giustizia penale.
Sulla stessa scia, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in più occasioni, ha messo in guardia dalle conseguenze nefaste dei “pseudo-processi” celebrati dai media, sottolineando la rilevanza centrale dell’esercizio della libertà di stampa da coniugare e, dunque, regolamentare, nei rapporti con l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario [61]. Significative le linee guida tracciate dalla ben nota sentenza Dupuis c. Francia, per circoscrivere la libertà di stampa attraverso un duplice controllo, di natura positiva, con riferimento alla: i) veridicità o fondatezza dell’informazione; ii) sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti; iii) oggettiva e chiara esposizione della notizia; cui si aggiunge un controllo di segno negativo, nel senso di escludere la violazione dei princìpi della corretta amministrazione della giustizia e della presunzione di innocenza. La Corte di Strasburgo, dunque, attribuisce alla normativa in materia di segretezza degli atti processuali la precisa funzione di salvaguardare sia la presunzione di innocenza, sia l’esercizio imparziale della funzione di ius dicere, che impone al giudice di decidere esclusivamente sulla scorta delle risultanze probatorie legittimamente acquisite, senza alcuna influenza esterna [62].
Da più parti, si è evidenziata la necessità di garantire maggiore professionalità e competenza dei giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria [63], che non possono improvvisare e devono essere in grado di tradurre il tecnicismo giuridico senza arbitrarie/scorrette semplificazioni. La competenza, preludio essenziale per poter fornire informazioni corrette e non mistificate, è spesso carente in una moltitudine di cronisti, che ignora le categorie fondamentali del rito penale e si fa portavoce di informazioni farcite di errori macroscopici persino nelle denominazioni degli istituti o degli organi giudiziari di riferimento [64].
Maggiore cautela è auspicabile anche nell’esercizio del cosiddetto giornalismo investigativo, che, se, per un verso, riveste un’importate funzione sociale mettendo in luce abusi, disfunzioni, condotte illecite, violazioni di qualsiasi genere, per altro verso, rischia di intralciare l’operato degli organi deputati alle investigazioni (pubblici o privati), interferendo, talvolta in modo irreversibile, sulla genuinità e integrità degli elementi di prova [65]. Basti pensare al condizionamento psicologico che una persona informata sui fatti potrebbe subire a causa dell’attenzione mediatica che la induca a rilasciare molteplici interviste; a lungo termine, le suggestioni subite potrebbero compromettere, nel senso di deformare, l’autenticità del ricordo riportato successivamente in sede di deposizione testimoniale. Sarebbe, dunque, più opportuno che la stampa si limitasse a fornire le notizie che potenzialmente integrano gli estremi di un reato, svolgendo un’attività socialmente utile di whistleblowing, cioè di segnalazioni che eventualmente potrebbe dar corso ad un procedimento penale, astenendosi dall’ulteriore sviluppo di un’inchiesta parallela, priva degli strumenti e delle garanzie del “giusto processo”.
L’attività più specifica di informazione dovrebbe essere resa in modo completo (nei limiti di quanto divulgabile) e, soprattutto, in modo corretto, nel senso di corrispondente al vero, comunicando l’evoluzione delle inchieste giudiziarie piuttosto che di quelle giornalistiche (o, per lo meno, precisando la fonte di riferimento), senza mai perdere di vista il beneficio del dubbio a presidio della presunzione di non colpevolezza. In tale prospettiva, lo scettro dell’attività investigativa, anche per riabilitare una corretta sensibilità dell’opinione pubblica, andrebbe riportato nelle mani degli organi inquirenti istituzionali, a beneficio del buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
La fiducia dell’opinione pubblica nella corretta amministrazione della giustizia esercita, indubbiamente, un’importante “funzione di coesione sociale” [66]. Attualmente questo valore fondamentale sembra vacillare, anche a causa delle pressioni mediatiche che irrompono nelle coscienze comuni destabilizzando l’esatta percezione del sistema giustizia penale, condizionandone il buon funzionamento e ponendo in crisi le garanzie primarie [67].
Alla complessità del problema, avvertito su più piani, perché molteplici sono i contrastanti interessi in gioco, è utile far fronte con rimedi che incidano sulla disciplina, attualizzandola in rapporto ai più moderni strumenti di comunicazione di massa, per recuperare i giusti confini di operatività del diritto all’informazione, da coniugare con il divieto di pubblicazione degli atti posto a presidio dell’efficienza investigativa, della presunzione di non colpevolezza e del libero convincimento del giudice.
Sul versante normativo, occorre percorrere le vie della semplificazione delle regole, attraverso una maggiore chiarezza espositiva, che eviti sottigliezze linguistiche spesso veicolo di confusione sul terreno interpretativo, così come occorre presidiare i divieti di pubblicazione. In questa prospettiva, è pienamente condivisibile l’auspicio di cancellare il distinguo tra atto (non pubblicabile) e contenuto dell’atto (pubblicabile) [68], che «pecca di semplicismo, perché muove dall’ingenua premessa che, per salvare le forme del giusto processo, sia sufficiente rendere inaccessibili al giudice gli atti dell’indagine preliminare non utilizzabili in dibattimento» [69]. Invero, la legittimazione a pubblicare il contenuto degli stessi atti inesorabilmente prelude all’elaborazione, da parte dell’opinione pubblica, di una convinzione in termini di innocenza o colpevolezza, in grado di condizionare le scelte finali dell’organo giudicante.
Merita attenta riflessione anche la proposta di eliminare «la differenza tra segreto e divieto di pubblicazione, nel senso di prevedere che tale divieto debba, almeno di regola, cadere contestualmente al venir meno della segretezza endo-processuale ex art. 329 c.p.p.» [70].
Se i divieti vengono ridimensionati, probabilmente si creano le premesse per garantirne la più rigorosa osservanza. Circoscrivere, infatti, i divieti di pubblicazione ad ipotesi tassative, tese a salvaguardare il buon esito delle indagini e la tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti, può agevolare l’accertamento delle violazioni.
Anziché proibire sulla carta quello che viene sistematicamente violato nella realtà applicativa sembra più audace legittimarlo, evitando così la diffusione di informazioni inesatte, fuorvianti e pregiudizievoli sia per gli utenti, che si formano un’opinione distorta, sia per i protagonisti della vicenda processuale colpevolizzati aprioristicamente [71].
Un significativo passo avanti è stato realizzato con l’emanazione del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, che ha, tra l’altro, regolamentato i «rapporti con gli organi di informazione» (art. 5). La disciplina è espressione della necessità di fronteggiare fenomeni aberranti come la fuga di notizie e le manie di protagonismo che talvolta colpiscono anche gli organi inquirenti pubblici, oltre a riconoscere la fondamentale importanza del diritto di cronaca giudiziaria. In estrema sintesi, si prevede la canalizzazione delle informazioni fornite agli organi di stampa mediante apposite conferenze indette e gestite esclusivamente da parte del Procuratore della Repubblica, o di un magistrato delegato in tal senso, nell’intento di garantire sia la fondatezza, l’univocità e l’attendibilità delle notizie riportate, sia il carattere della impersonalità dell’ufficio inquirente assegnatario dell’inchiesta. A quest’ultimo proposito, la normativa introduce, per la prima volta, un divieto assoluto per i magistrati della Procura della Repubblica «di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio» (art. 5, comma 3, d.lgs. n. 106/2006) [72]. Ottimale sarebbe riuscire a garantire la corretta osservanza di tale divieto, mediante l’effettiva applicazione delle sanzioni disciplinari corrispondenti alle relative violazioni.
Recentemente è stata formulata una proposta di legge che intende estendere il divieto di pubblicazione, di cui all’art. 114 c.p.p., anche al nome e all’immagine dei magistrati titolari di un procedimento penale, fino alla celebrazione della prima udienza dibattimentale, ove prevista [73]. L’intento è chiaramente quello di salvaguardare l’incolumità e la riservatezza del magistrato titolare di un procedimento penale, ma soprattutto di preservare la serenità nella formazione del suo convincimento, oltre a «scoraggiare tentazioni di protagonismo e relative anticipazioni di notizie», secondo quanto si legge nella relazione di accompagnamento alla coerente proposta di legge.
Ancora una volta, l’attenzione è concentrata sulla necessità di garantire l’esercizio “incontaminato” della funzione giurisdizionale, imparziale nella misura in cui venga custodita al riparo da qualsiasi condizionamento esterno, proveniente in modo particolare dalle inchieste giornalistiche che non si limitano ad informare l’opinione pubblica ma inculcano nella stessa pre-giudizi di colpevolezza. Nella cosiddetta “era dell’imputato mediatico” [74], appare deformata persino la percezione del processo penale che nell’immaginario collettivo non viene inteso come strumento per assicurare la tutela delle garanzie fondamentali, ma per assurdo quale sede dove la presunzione di non colpevolezza rappresenta un intralcio, nel senso di ostacolare la repressione dei crimini [75].
In definitiva, occorrono piccoli ma significativi cambiamenti che dovrebbero realizzarsi innanzitutto sul terreno culturale e deontologico, in cui bisogna recuperare il rispetto dei ruoli, delle funzioni e delle professionalità in sede giudiziaria e sul versante giornalistico. È tempo di riaffermare il primato della presunzione di non colpevolezza, quale criterio guida non solo per chi conduce l’inchiesta giudiziaria, su cui grava l’onere della prova, ma anche per il cronista che la racconta garantendo il diritto all’informazione, utile a sensibilizzare in tale senso anche la coscienza sociale [76]. In altre parole, il valore della presunzione di non colpevolezza va inteso non solo come “garanzia individuale”, ma anche in una chiave di lettura inedita di “garanzia collettiva”, nel senso di assumere un rilievo pubblicistico di natura endo-processuale (per gli organi inquirenti e giudicanti) ed extra-processuale (per i mass media e l’opinione pubblica) [77].
Quanto all’organo giudicante, per onestà intellettuale bisogna prendere atto che è anacronistico inseguire il mito della verginità cognitiva del giudice, in quanto non è nuova, e tanto meno oscurabile, l’attenzione mediatica per i processi che affascinano l’opinione pubblica. Nondimeno, il giudice deve restare il più possibile ancorato alle regole del codice che prescrivono l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti previsti dalla legge, a maggior ragione se si tratta di informazioni apprese attraverso canali extra-processuali [78]; al meno dovrebbe.
[1] Cfr. E. Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media e fiction, Milano, Giuffrè, 2016, p. 143, secondo il quale l’art. 114 c.p.p. rappresenta una diposizione «improvvida e fuorviante»; di comune avviso: R. Orlandi, La giustizia penale nel gioco di specchi dell’informazione, in Dir. pen. cont., 2017, n. 3, p. 53, che parla di articolo «tortuoso e tormentato»; G.P. Voena, sub art. 114, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, 5a ed., tomo I, Milano, Ipsoa, 2017, p. 1091.
[2] In tal senso, G. Giostra, Processo penale e informazione, 2 a ed., Milano, Giuffrè, 1989, p. 290. Dello stesso avviso: R. Orlandi, op. cit., p. 48; F. Palazzo, Note sintetiche sul rapporto tra giustizia penale e informazione giudiziaria, in Dir. pen. cont., 2017, n. 3, p. 141; N. Triggiani, Giustizia penale e informazione. La pubblicazione di notizie, atti e immagini, Padova, Cedam, 2012, p. 6 ss.
[3] In questi termini: G. Giostra, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, p. 58; N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 246 s.
[4] A tale proposito, E. Amodio, op. cit., p. XII, osserva: «Lo spettacolo della colpevolezza offerto dai talk show, talvolta con rozze inchieste condotte con il microfono in mano, sacrifica sull’altare dell’intrattenimento dei telespettatori tutti i valori della giustizia penale a cominciare dalla presunzione di innocenza».
Per ulteriori approfondimenti sul punto v. P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Torino, Giappichelli, 2008, p. 159 ss.
[5] In tema: L. Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Dir. pen. proc., 2017, n. 3, p. 4 ss.; G. Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, Roma-Bari, Laterza, 2020, p. X; F. Palazzo, Note sintetiche, cit., p. 143; G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Torino, Giappichelli, 2015, p. 71.
[6] Cfr.: A. Galati-E. Zappalà-F. Siracusano, Gli atti, in G. Di Chiara-V. Patané-F. Siracusano (a cura di), Diritto processuale penale, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2018, p. 192; G. Giostra, L’opinione pubblica in tribunale e il tribunale dell’opinione pubblica, in M.N. Miletti (a cura di), Riti, tecniche, interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento (Atti del convegno, Foggia, 5-6 maggio 2006), Milano, Giuffrè, 2006, p. 529; N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. XIII; G.P. Voena, Processo penale e mezzi di comunicazione di massa: un instabile stato dell’arte, in questa Rivista, 2017, n. 6, p. 1114.
[7] La disciplina contemplata dall’art. 114, commi 4-6, c.p.p. prevede taluni divieti di pubblicazione a tutela di interessi di natura extraprocessuale non oggetto del presente studio.
[8] Sul punto v.: R. Orlandi, op. cit., p. 52; F. Palazzo, Tutela penale del segreto processuale, in Dir. pen. proc., 2009, n. 5, p. 541 ss.
[9] Per ulteriori approfondimenti sul concetto di “pubblicazione”: N. Triggiani, voce Segreto processuale e divieto di pubblicazione (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali II, tomo 1, Milano, Giuffrè, 2008, p. 1077; G. Ubertis, sub artt. 114-115 c.p.p., in E. Amodio-O. Dominioni (a cura di), Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. II, Milano, Giuffrè, 1989, p. 27 s.; G.P. Voena, sub art. 114 c.p.p., cit., p. 1154.
[10] A tale proposito, N. Triggiani, Atti, in A. Scalfati-A. Bernasconi-A. De Caro-A. Furgiuele-M. Menna-C. Pansini-N. Triggiani-C. Valentini, Manuale di diritto processuale penale, 3a ed., Torino, Giappichelli, 2018, p. 157, precisa: «Per pubblicazione “parziale” deve intendersi la propalazione testuale di parti degli atti, mentre la pubblicazione “per riassunto” è quella operata in forma sintetica, ma con l’interpolazione di parti dei testi degli atti».
[11] In tal senso, da ultimo, cfr. G.P. Voena, Processo penale e mezzi di comunicazione di massa, cit., p. 1116.
Sulle conseguenze della violazione di questo divieto, in campo sostanziale, cfr. R. Bartoli, Tutela penale del segreto processuale e informazione: per un controllo democratico sul potere giudiziario, in Dir. pen. cont., 2017, n. 3, p. 62, secondo il quale: «Sul piano sostanziale, il divieto di pubblicazione è presidiato dalla fattispecie di cui all’art. 684 c.p., il cui tenore letterale si attaglia perfettamente a quanto disposto dall’art. 114, comma 1, c.p.p., in quanto punisce “chiunque pubblica in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione”».
[12] La classificazione elaborata durante la vigenza del c.p.p. 1930 da G.D. Pisapia, Il segreto istruttorio nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1960, p. 43, risulta ancora attuale. Per ulteriori approfondimenti sul punto cfr.: F.M. Molinari, Il segreto investigativo, Milano, Giuffrè, 2003, p. 67 ss.; N. Triggiani, voce Segreto processuale, cit., p. 1075; Id., Giustizia penale e informazione, cit., p. 38.
[13] Così G.D. Pisapia, op. cit., p. 145.
[14] Ibidem.
[15] Per ulteriori approfondimenti sul punto v.: R. Adorno, Sulla pubblicazione del contenuto di atti di indagine coperti dal segreto, in V. Perchinunno (a cura di), Percorsi di procedura penale, Dal garantismo inquisitorio a un accusatorio non garantito, vol. I, Milano, Giuffrè, 1996, p. 167 ss.; N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 39 ss.; Id., voce Segreto processuale, cit., p. 1079; G.P. Voena, Processo penale e mezzi di comunicazione di massa, cit., p. 1117; Id., sub art. 114 c.p.p., cit., p. 1159.
[16] La modifica, a seguito del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, conv. con modif. dalla l. 25 giugno 2020, n. 70, trova applicazione per i procedimenti penali iscritti dopo il 30 agosto 2020.
[17] Esempi classici sono rappresentati dalla pubblicazione di identikit, fotografie o videoriprese della persona ricercata, ovvero della persona offesa scomparsa.
Sul potere riconosciuto al pubblico ministero di “segretazione” o “desegretazione”, in sede dottrinale, è stato evidenziato il rischio di “abusi”, rischio concreto che non può essere superato dalla garanzia della motivazione del provvedimento, non suscettibile di alcun controllo se non di tipo disciplinare; in tal senso: N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 57 s.; C. Valentini, Stampa e processo penale: storia di un’evoluzione bloccata, in Proc. pen. giust., 2011, n. 3, p. 136 ss.
[18] In tema v. C. Intrieri-F. Piquè, La tutela del segreto esterno: “virgin mind” del giudice e nuovi media, in questa Rivista, 2016, n. 6, p. 158.
[19] A tale ultimo proposito, profili di criticità vengono sollevati da A. Galati-E. Zappalà-F. Siracusano, op. cit., p. 193, secondo i quali «La “precisazione” introdotta dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, che interpolando l’art. 114 comma 2 ha espressamente sancito la divulgabilità dell’ordinanza cautelare – limitatamente al suo contenuto – appare superflua. Il provvedimento cautelare è, infatti, atto geneticamente non segreto per una duplice ragione e a prescindere, quindi, dall’espressa previsione introdotta dal d.lgs. n. 216 del 2017 […]: non è un atto del pubblico ministero o della polizia giudiziaria, non è, inoltre, un atto di indagine».
[20] Fatta eccezione per l’ipotesi in cui sia intervenuto un provvedimento di segretazione ad hoc, ex art. 329, comma 3, lett. b, c.p.p.
[21] Così G. Varraso, Gli atti, in O. Dominioni-P. Corso-A. Gaito-G. Spangher-N. Galantini-L. Filippi-G. Garuti-O. Mazza-G. Varraso-D. Vigoni, Procedura penale, 7a ed., rist. agg., Torino, Giappichelli, 2020, p. 191.
[22] Così N. Triggiani, Atti, cit., p. 158.
[23] Per ulteriori approfondimenti sul punto cfr. N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 75.
[24] Tale comma è stato inserito dall’art. 2, comma 1, lett. a, d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, conv. con modif. dalla l. 28 febbraio 2020, n. 7, come da ultimo modif. dall’art. 1, comma 2, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, conv. con modif. dalla l. 25 giugno 2020, n. 70, che trova applicazione per i procedimenti penali iscritti dopo il 30 agosto 2020.
[25] Cfr. C. cost., 24 febbraio 1995, n. 59, in Giur. cost., 1995, p. 503 ss. Per alcuni commenti alla decisione v.: E. Aprile, È illegittimo il divieto di pubblicazione, prima della pronuncia della sentenza di primo grado, degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, in Nuovo dir., 1995, p. 873 ss.; S. Cavini, È incostituzionale il divieto di pubblicare gli atti del fascicolo per il dibattimento, in Cass. pen., 1995, p. 2450 ss.; M. Ceresa Gastaldo, Processo penale e cronaca giudiziaria: costituzionalmente illegittimo il divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo per il dibattimento, in Giur. cost., 1995, p. 2123 ss.; G. Giostra, Alt al divieto di pubblicare gli atti del fascicolo per il dibattimento, in Dir. pen. proc., 1995, p. 659 ss.; L. Luparia, voce Pubblicazione di atti e di immagini, in G. Spangher (a cura di), Dizionario sistematico di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2008, p. 263 ss.; E. Lupo, sub art. 114 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al codice di procedura penale, III aggiornamento, Torino, Utet, 1998, p. 87 ss.; Id., La pubblicabilità degli atti d’indagine preliminare: la Corte costituzionale amplia i limiti legislativi, in Legisl. pen., 1995, p. 499 ss.; F.M. Molinari, Sulla illegittimità costituzionale del divieto di pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 810 ss.; G. Piziali, Questioni sull’art. 114, comma 3, c.p.p. (dopo l’intervento censorio della Corte costituzionale), in Ind. pen., 1995, p. 364 ss.; G. Tarli Barbieri, Libertà di informazione e processo penale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte EDU: problemi e prospettive, in Dir. pen. cont., 2017, n. 3, p. 28; N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 70 ss.
[26] Sul punto cfr. G. Giostra, Processo penale e informazione, cit., p. 346.
[27] Per la precisione il riferimento è al criterio direttivo n. 71, punto quarto, l. delega n. 81/1987.
[28] Il divieto previsto dall’art. 114, comma 3, c.p.p. opera a prescindere dalla scelta di taluni coimputati di optare per il giudizio abbreviato, dal momento che permane l’esigenza di evitare il turbamento della serenità del giudizio ancora in corso, nei riguardi di coloro che abbiano deciso di procedere secondo il rito ordinario: in tal senso Trib. Ancona, 15 marzo 2008, in Arch. nuova proc. pen., 2010, n. 2, p. 211, con nota di D. Certosino, “Frazionamento” dei giudizi e divieto di pubblicazione degli atti.
[29] Così G. Giostra, Processo penale e informazione, cit., p. 347.
[30] Ibidem.
[31] A questa regola fa eccezione l’ipotesi in cui la sentenza emanata dal giudice di primo grado risulti inappellabile; in tal caso, infatti, gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero potranno essere diffusi subito dopo la suddetta pronuncia.
[32] In tal senso: N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 69; G. Ubertis, sub artt. 114-115 c.p.p., cit., p. 30; G.P. Voena, sub art. 114 c.p.p., cit., p. 1168.
[33] Tale disposizione è stata definita “improvvida” e “fuorviante” da E. Amodio, op. cit., p. 143.
[34] Sulla differenza tra “atto” e “contenuto” dell’atto, v., per tutti, N. Triggiani, voce Segreto processuale, cit., p. 1077 ss.
[35] Sul punto cfr. R. Orlandi, op. cit., p. 55 s.
[36] Così G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 166. In altra sede lo stesso Autore parla di «uso sapiente di tecniche narrative e di espedienti espositivi adeguati» (Id., Processo penale e informazione, cit., p. 351).
[37] Ibidem.
[38] Cosi G. Giostra, Processo penale e informazione, cit., p. 351.
[39] In tal senso v. E. Lupo, sub art. 114, in M. Chiavario (coordinato da), Commento al codice di procedura penale, vol. II, Torino, Utet, 1990, p. 49, secondo il quale «la diffusione di notizie inesatte e false può raggiungere una intensità tale da incidere in modo massiccio sulla pubblica opinione, con effetti psicologici soprattutto sulle corti di assise, e senza che nel dibattito della stampa possa emergere l’atto vero». Sempre in tema, G. Giostra, Processo penale e informazione, cit., p. 334, evidenzia «una certa ingenuità nel tentativo di difendere con il divieto di pubblicazione degli atti di indagine la corretta formazione del convincimento giudiziale».
[40] Così la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord., n. 2, p. 49.
[41] Per ulteriori approfondimenti sulla distinzione tra “verginità cognitiva” e “serenità di giudizio” da parte del giudice, si veda F. Palazzo, Note sintetiche, cit., p. 143.
[42] Secondo G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 164: «La ragionevolezza dei limiti imposti al diritto di cronaca per tutelare il segreto di indagine non sembra discutibile: sono limiti sacrosanti, semmai troppo blandamente presidiati, dato che la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di solito è punita con un’ammenda che non può essere superiore a 258 euro (art. 684 c.p.), di risibile efficacia deterrente per qualsiasi testata anche di modesta tiratura». Dello stesso avviso P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 21a ed., 2020, p. 524 s.
In tema, N. Triggiani, Atti, cit., p. 161, il quale scrive: «l’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore è risultato, insomma, assolutamente inadeguato …». Lo confermano il numero esiguo di pronunce giurisprudenziali in materia e i numerosi fallimenti nel rinnovare la materia (v. ancora N. Triggiani, Segreto processuale e divieto di pubblicazione tra norme vigenti, prassi devianti e prospettive de jure condendo, in Arch. nuova proc. pen., 2010, n. 3, p. 278 ss.).
[43] Cfr. E. Amodio, op. cit., p. 131 ss.
[44] In generale sul tema cfr.: G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, Zanichelli, 1979; P.P. Paulesu, op. cit., p. 159 ss.
[45] Sul punto v. F.M. Molinari, op. cit., p. 252 ss.
[46] In tema v. O. Mazza, Il giusto processo tutela anche la riservatezza, in Dir. pen. proc., 1997, n. 9, p. 1039 ss.
[47] Sul punto v. G.P. Voena, Processo penale e mezzi di comunicazione di massa, cit., p. 1131.
[48] A tale proposito v. E. Amodio, op. cit., p. 139, secondo il quale: «Gli stereotipi del giudice “corazzato” (per le sue qualità morali, psicologiche e di esperienza) e dei media inoffensivi perché banalmente ripetitivi nasconde una aprioristica valutazione che si risolve in un vero e proprio negazionismo».
[49] E. Bruti Liberati, Prassi, disciplina e prospettive dell’informazione giudiziaria, in Dir. pen. cont., 2018, n. 1, p. 2, osserva come «il Pm sembra percepire il suo ruolo come angelo vendicatore di ingiustizie, piuttosto che accertatore di “reati penali”».
[50] A tale proposito, G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 5, sottolinea come «Ogni persona investita del titanico compito di giudicare ha un vissuto, un patrimonio culturale e un assetto emotivo che fatalmente ne influenzano la capacità di percepire, di valutare e di decidere».
[51] Così F.R. Dinacci, Regole di giudizio (Dir. proc. pen.), in Arch. pen., 2013, p. 2, il quale osserva, ancora, come l’esistenza di specifiche regole di valutazione della prova è sintomatica di un sistema normativo che rifiuta sia «l’intuizionismo giudiziario» sia il contrapposto sistema delle prove legali.
[52] Osserva, all’uopo, D. Ciruzzi, Il condizionamento dei “media” nel processo penale, in Questione giust., 1994, p. 198: «il libero convincimento del giudice, non consistendo in una mera formula magica, si traduce sostanzialmente in un tasso di humus culturale che è determinato, essenzialmente, dal tipo d’informazione che si riceve».
[53] Così R. Orlandi, op. cit., p. 56. Sul punto, v. anche, P.P. Paulesu, op. cit., p. 25.
[54] A tale proposito, G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 166, osserva: «Insomma, questo divieto di pubblicare in tutto o in parte un atto non segreto sembra una barriera di carta pesta, che senza giovare alla giustizia, fa male alla cronaca giudiziaria». Dello stesso avviso C. Intrieri-F. Piquè, op. cit., p. 163.
[55] A tale proposito, sempre attuali le osservazioni di G.P. Pisapia, op. cit., p. 214, secondo il quale: «Tale disciplina si impone sia per il rispetto dovuto agli interessi pubblici e privati che possono esserne compromessi sia perché la stampa stessa possa meglio realizzare la sua funzione sociale, che è fonte di diritti e di privilegi, ma anche di doveri e limiti».
[56] In tal senso N. Triggiani, Giustizia penale e informazione, cit., p. 10 s. Sul punto v., anche, G. Tarli Barbieri, op. cit., p. 23.
[57] A tale proposito, E. Amodio, op. cit., p. 130, osserva: «l’informazione giornalistica con la sua incisività e la sua invadenza ruba la scena alla giustizia in toga».
Sul punto v. anche, G. Voena, in Processo penale e mezzi di comunicazione di massa, cit., p. 1114, secondo cui: «Nell’ultimo ventennio si è sviluppata sulle reti quello che potrebbe chiamarsi, con una buona dose di ottimismo, una riflessione collettiva sui casi giudiziari e che, in chiave di accentuato pessimismo, va sotto il nome di circo mediatico-giudiziario essendo divenuta inarrestabile la diffusione di talk show dedicati ai casi giudiziari». Lo stesso Autore, in un altro passaggio, evidenzia come la comunicazione giudiziaria, più che “informare” l’opinione pubblica su quanto avviene nei procedimenti penali, tende a “formarla”, nel senso di incentivarla a prendere posizione sul merito dei processi. Pertanto, «il popolo, tramite i mezzi di comunicazione di massa, ambisce esso stesso a giudicare e, così facendo, rischia di condizionare il comportamento dei soggetti del processo».
[58] In tema v. F.M. Molinari, op. cit., p. 253 ss.
[59] Sul punto, R. Orlandi, op. cit., p. 52, osserva: «Pur nella sua genericità, tale Raccomandazione dispensa ai legislatori nazionali utili linee-guida per bilanciare i molteplici interessi destinati qui a intrecciarsi e a configgere».
[60] In tema, G. Tarli Barbieri, op. cit., p. 30 ss., sottolinea l’ampia tutela riconosciuta nella giurisprudenza della Corte EDU al diritto di cronaca giudiziaria.
[61] Sul punto v. M. Chiavario, I rapporti giustizia-“media” nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Foro it., 2000, V, c. 209 ss.
[62] In tema v.: A. Balsamo-S. Recchione, Il difficile bilanciamento tra libertà di informazione e tutela del segreto istruttorio: la valorizzazione del parametro della concreta offensività nel nuovo orientamento della Corte Europea, in Cass. pen., 2007, p. 4796 ss.; L. Filippi, La sentenza Dupuis c. Francia: la stampa “watchdog” della democrazia tra esigenze di giustizia, presunzione d’innocenza e privacy, in Cass. pen., 2008, p. 813 ss.
[63] In tal senso: L. Filippi, op. cit., p. 823; G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 175; Id., Processo penale e mass media, cit., p. 68; F. Palazzo, Tutela penale, cit., p. 543; N. Triggiani, Segreto processuale e divieto di pubblicazione tra norme vigenti, cit., p. 280.
[64] Si sente spesso parlare di “avviso di garanzia”, di “tribunale dei minorenni”, di “assoluzione piena per insufficienza di prove”, e si costruiscono impianti probatori colpevolisti ignari della “presunzione di non colpevolezza”.
[65] Sul punto v.: R. Orlandi, op. cit., p. 58; P.P. Paulesu, op. cit., p. 162, il quale osserva come «l’invadenza dei mezzi di comunicazione di massa sul processo si traduce in una forma di co-gestione giornalistica della vicenda giudiziaria».
[66] Così G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 25.
[67] Cfr. P.P. Paulesu, op. cit., p. 2 s.
[68] In tal senso G. Giostra, Prima lezione, cit., p. 166.
[69] Così R. Orlandi, op. cit., p. 56.
[70] Così N. Triggiani, Segreto processuale e divieto di pubblicazione tra norme vigenti, cit., p. 279. Nello stesso senso Id., Giustizia penale e informazione, cit., p. 237 s.
[71] Più in generale, sul punto, v. G. Giostra, Processo penale e mass media, cit., p. 69, secondo il quale: «sarebbe nefasto pensare di porre restrizioni alla libertà di stampa – foss’anche quella, di tutte la più ipocrita, di riferire soltanto i fatti, privi di commento – per scongiurare il pericolo che possa condizionare negativamente l’opinione pubblica». Contra, E. Amodio, op. cit., p. 145.
[72] Critico sul punto G.P. Voena, Processo penale e mezzi di comunicazione di massa, cit., p. 1128, a parere del quale «Il disegno di evitare forme di personalizzazione e di protagonismo giudiziario tramite lo strumento della verticalizzazione non è andato troppo innanzi».
[73] Trattasi della proposta di legge C. 1268, promossa dagli onorevoli Ruggieri e Bartolazzi, recante “Modifiche all’articolo 114 del codice di procedura penale, concernente il divieto di pubblicazione del nome e dell’immagine dei magistrati”, assegnato il 27 marzo 2019 alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati in sede referente.
[74] Così P.P. Paulesu, op. cit., p. 18.
[75] In questi termini, R. Orlandi, Effettività della sanzione penale e principi processuali, in Critica del dir., 1997, p. 37. Sul punto, G. Giostra, Processo penale e mass media, cit., p. 60, rileva «una certa insofferenza per la giustizia istituzionale, intessuta di regole e di limiti, a fronte del presunto accesso diretto alla verità, che sembra assicurato dall’avvicinamento di un microfono o di un obiettivo alle fonti. […] L’insidiosa idea, sottesa a questo favor per il processo celebrato sui mezzi di informazione, è che il miglior giudice sia l’opinione pubblica».
[76] A tale proposito, sin dalla vigenza del codice Rocco, G. Illuminati, op. cit., p. 7 s., evidenziava «la scarsa sensibilità della coscienza sociale» nei riguardi del princìpio della presunzione di innocenza, come uno dei principali problemi, con risvolti anche sul terreno delle scelte politiche. L’Autore rilevava, addirittura, una tendenza inversa, di autentico pregiudizio da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’imputato, spesso identificato con il colpevole, a causa dell’importante condizionamento esercitato in modo spregiudicato dai mezzi di comunicazione di massa.
[77] In tal senso P.P. Paulesu, op. cit., p. 19 s.
[78] Cfr. E. Bruti Liberati, op. cit., p. 13.