Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Contestazioni a catena e retrodatazione: un punto fermo dalle Sezioni Unite (di Francesco Trapella, Docente affidatario di Laboratorio Professionalizzante – Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. d’Annunzio”)


Con la pronuncia in nota le Sezioni Unite stabiliscono che, in costanza dei presupposti dell’art. 297, comma 3, c.p.p., la retrodatazione dei termini di custodia cautelare si effettua imputando alla misura più recente l’intero periodo di carcerazione sofferto dall’interessato in forza del titolo più risalente.

Chain disputes and backdating: a full point of Joined Chambers

A comment about the decision of Joined Chambers on concerning chain disputes: under the circumstances described by Article 297, paragraph 3 of Code of Criminal Procedure, the backdating of the terms of pre-trial detention is carried out by attributing to the most recent measure the entire period of incarceration suffered by the accused on the basis of the earliest precautionary decree.

Ai fini della retrodatazione si conta l’intera custodia cautelare sofferta La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p. deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee. [Omissis]   RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 15 novembre 2019, il Tribunale della libertà di Milano ha confermato l’ordi­nanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari di Milano, in data 23 ottobre 2019, ha applicato a A.M. la misura cautelare della custodia in carcere in relazione a condotte punite dagli artt. 110, 81 cod. pen. e 73, comma 1, d.P.R n. 309 del 1990. L’addebito cautelare si riferisce all’acquisto, nel corso di più anni, di oltre cento chili di cocaina da L.R. e del successivo spaccio di tale sostanza stupefacente, condotte poste in essere in Bollate, in concorso con M.C., dal febbraio 2012 al 14 aprile 2017, data in cui il fornitore L.R. veniva arrestato. Avverso la suddetta misura il A.M. ha proposto richiesta di riesame sostenendo che i termini di durata dell’ordinanza cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano il 23 ottobre 2019 dovevano essere retrodatati alla data di emissione di precedente misura cautelare adottata nei suoi confronti il 7 settembre 2018 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza, con conseguente dichiarazione di inefficacia della seconda misura per decorrenza dei termini massimi. Nel procedimento pendente dinanzi all’autorità giudiziaria monzese A.M. era stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990 per avere, in concorso con A.C., detenuto a fini di spaccio 4/5 chili di cocaina, di cui 1,5 chili sequestrati all’interno di un box, sito in Senago e nella disponibilità del A.C. al momento del suo arresto, avvenuto il 3 ottobre 2016 in flagranza di reato. In sede di riesame, A.M. sosteneva che la Procura della Repubblica di Monza, fin dall’arresto del A.C. nell’ottobre 2016 e comunque dal 14 febbraio 2017, data nella quale quell’Ufficio procedeva alla trasmissione degli atti dei procedimenti penali nn. 11478/16 e 13047/17 RGNR alla Procura della Repubblica di Milano, aveva avuto a disposizione gli elementi per accertare il coinvolgimento del A.M. e il ruolo svolto dal L.R. nel traffico di stupefacenti oggetto del procedimento milanese, dal che derivava la ricorrenza dei presupposti per la retrodatazione richiesti dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. e l’intervenuto esaurimento dei termini massimi di custodia cautelare, con conseguente sopravvenuta inefficacia della misura in esame. Il Tribunale della libertà di Milano, dopo aver ricostruito lo svolgimento delle indagini che avevano condotto [continua..]

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SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La questione - 3. Le diverse soluzioni: a) la “modalità a scomputo” … - b) il computo dell’intera cautela sofferta per prima … - c) scelte intermedie - 4. Riferimenti europei - 5. Il principio di diritto … - 6. E la sua applicazione al caso in esame - 7. Conclusioni - NOTE


1. Il caso

La pronuncia in commento affronta il tema delle contestazioni a catena. La vicenda posta all’attenzione della Suprema Corte riguardava un soggetto, raggiunto nell’ottobre 2019 da un’ordinanza di custodia cautelare del G.i.p. milanese in un procedimento per traffico di stupefacenti: l’addebito si riferiva a vari acquisti di cocaina, finalizzati allo spaccio, nella zona di Bollate (Milano) tra il febbraio 2012 e l’aprile 2017. Nell’ottobre 2016, l’interessato era stato arrestato a Monza per la detenzione di 4/5 chili di cocaina, di cui una parte sequestrati in un box dell’hinterland meneghino di sua disponibilità; nello stesso procedimento, poi, nel settembre 2018, veniva ristretto in custodia cautelare. Tanto fondava il riesame contro la pronuncia di Milano: fin dall’arresto dell’indagato, nel 2016, la procura monzese aveva elementi per accertarne il coinvolgimento nei fatti oggetto del giudizio milanese; altrimenti detto, si sosteneva il collegamento tra le due procedure, tant’è che, già nel febbraio 2017, i magistrati di Monza trasmettevano ai colleghi del capoluogo lombardo gli atti delle proprie indagini. Da qui, secondo la difesa, sussistevano i presupposti per la retrodatazione ex art. 297, comma 3, c.p.p.: i termini di durata massima dell’ordinanza cautelare milanese dovevano essere anticipati alla data di emissione della misura monzese, di tredici mesi precedente, con successiva declaratoria di inefficacia per decorrenza dei limiti prescritti dall’art. 303 c.p.p. Il tribunale della libertà dava atto del nesso tra i reati oggetto delle due pronunce custodiali: più in particolare, i fatti indagati dall’ufficio di Milano erano «soggettivamente connessi e desumibili dagli atti prima del momento in cui è intervenuto in rinvio a giudizio per i fatti della prima ordinanza». Ciononostante, il riesame era rigettato sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale che avrebbe imposto, per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale della misura subita per prima, imputando alla seconda solo i periodi relativi a fasi omogenee. Nel caso di specie, nel procedimento monzese, l’ordinanza cautelare era del 7 settembre 2018; il 12 dicembre 2018 il pubblico ministero aveva chiesto il rinvio a giudizio; l’11 febbraio 2019 era stato disposto il rito abbreviato; il 13 marzo 2019 era intervenuta [continua ..]


2. La questione

Le Sezioni Unite erano chiamate ad interrogarsi se, nel caso di pluralità di ordinanze cautelari per fatti connessi, la retrodatazione dei termini ex art. 297, comma 3, c.p.p. debba effettuarsi frazionando la durata globale della misura sofferta per prima ed imputando alla seconda solo i periodi relativi a fasi omogenee, oppure computando l’intera restrizione patita, anche nei momenti relativi a dissimili stadi del procedimento. La questione è stata esaminata guardando a diversi orientamenti giurisprudenziali: –    la tesi maggioritaria [2] sostiene la c.d. modalità a scomputo: per verificare l’avvenuta scadenza del termine di fase relativo alla seconda misura, occorrerebbe calcolare la durata della custodia subita nella medesima fase del primo procedimento; a tale periodo andrebbe sommato il tempo trascorso in vinculis in ragione della cautela più recente, per poi verificare se il totale dei due periodi determini o meno il superamento del termine di fase relativo all’ultima restrizione; –    l’orientamento minoritario [3] – e, qui, invocato dal ricorrente – esige lo sconto dell’intera misura applicata per prima dalla durata riferibile al secondo provvedimento cautelare; –    un’opinione intermedia [4] aderisce alla modalità a scomputo, pur ricorrendovi solo quando le misure siano state disposte in procedimenti che versino nella stessa fase; laddove il giudizio in cui è stata emessa la prima restrizione passi ad uno stadio successivo, la custodia disposta per ultima non perde efficacia, ma, anzi, segue le stesse sorti della prima cautela: potrà, infatti, esserne dichiarata la perenzione solo quando siano spirati i termini massimi afferenti all’ordinanza più risalente. Nel prosieguo si esamineranno funditus le tre posizioni appena accennate, con sguardo rivolto ai precedenti costituzionali ed europei che sono intervenuti sul tema di analisi.


3. Le diverse soluzioni: a) la “modalità a scomputo” …

Le opzioni interpretative sull’art. 297, comma 3, c.p.p. impongono di tenere conto degli interessi coinvolti nella materia in esame: le esigenze connesse alla cautela, afferenti alla necessità di garantire il corretto funzionamento della “macchina giudiziaria” [5], e il diritto del singolo alla libertà personale. Urge, insomma, evitare abusi dell’inquirente, capaci di pregiudicare oltre il dovuto la sfera individuale [6]. Una delle strade percorse dalla giurisprudenza – maggioritaria, fino alla sentenza in commento – recuperava il principio di segmentazione [7] dei termini cautelari di fase, in rapporto all’evolversi del procedimento. Il meccanismo, noto allo studioso odierno, fu introdotto sotto la vigenza del codice Rocco [8], con l. 28 luglio 1984, n. 398 [9]. Merita leggere i lavori preparatori della novella e, in particolare, la relazione della Commissione “Giustizia” che ne accompagnava il disegno di legge; un passaggio, più di altri, spiega la ratio dell’istituto: «i termini di carcerazione sono previsti per le singole fasi processuali e non sono più sommabili tra loro, come finora è avvenuto. Non vi è infatti alcuna logica ragione per cui il tempo di carcerazione preventiva non consumato in istruttoria venga poi utilizzato ad esempio in appello o nel grado di cassazione; ciò costituisce un vero e proprio premio alle pigrizie burocratiche. Ogni livello deve avere la sua responsabilità e dunque il suo termine» [10]. Con altre parole, è intuibile come il prossimo decorso del termine cautelare spinga all’accelerazione del procedimento [11]; così, se l’inquirente indaga velocemente e chiede il rinvio a giudizio prima che scadano i tempi della custodia in carcere, del residuo non si possono giovare le corti degli stadi successivi per prolungare il processo, sicure di una più lunga permanenza in vinculis dell’imputato [12]. In breve: l’autonomia dei termini di fase è strumento che punta a rinvenire un equilibrio tra istanze individuali e collettive [13], responsabilizzando l’autorità ed impedendo che la sua inerzia si riverberi negativamente su chi il processo lo subisce. Ferma la premessa, la si accantoni giusto un attimo per tornare sulla modalità a scomputo. Lo s’è visto: l’operazione [continua ..]


b) il computo dell’intera cautela sofferta per prima …

È senz’altro corretto affermare che la finalità della retrodatazione sia quella di riallineare vicende cautelari che avrebbero dovuto avviarsi contemporaneamente ma che, invece, si sono sviluppate in tempi successivi [15]. In tal modo si evita che il “ritardo” nell’adottare la seconda ordinanza prolunghi i termini della prima misura, ponendo l’interessato in svantaggio rispetto a chi, trovandosi nella medesima situazione sostanziale, venga raggiunto da provvedimenti restrittivi coevi: altrimenti detto, la giurisprudenza costituzionale [16] – che viene richiamata dalla pronuncia che si annota – sottolinea le essenziali implicazioni tra la disciplina dell’art. 297, comma 3, c.p.p. e i principi di eguaglianza e di inviolabilità della libertà individuale sub specie di fissazione per legge dei limiti massimi di carcerazione preventiva. Per altro verso, garantendosi il rigoroso rispetto dei termini, si favorisce la ragionevole durata del giudizio: salve evenienze patologiche, i provvedimenti conclusivi delle varie fasi rispetteranno le cadenze imposte dall’art. 303, comma 1, c.p.p.; si scongiura, così, il pericolo che, superandole, l’imputato venga reinserito in libertà, con ripercussioni negative su quelle esigenze che si pretendeva di tutelare. Si incrociano di nuovo gli interessi del singolo e quelli del sistema, tutti protetti a livello costituzionale. Proprio per questo, merita ripercorrere gli orientamenti della Consulta in materia, partendo da quelli evocati nella decisione in nota. Un primo arresto di rilievo è la sent. 25 marzo 1996, n. 89 [17] con cui la Corte costituzionale ricorda come «la scelta del legislatore [sia] stata quella di unificare la decorrenza della custodia cautelare quando si sia in presenza di operazioni criminose che, quantunque integrative di diverse fattispecie di reato, si presentano tuttavia nel loro complesso ontologicamente unitarie». In casi come questo, la forza dei legami tra le varie ipotesi criminose obbliga a considerare unitariamente il progetto delittuoso, anche per quel che riguarda i termini cautelari [18]. Nondimeno, un’opzione del genere pone un limite all’agire del pubblico ministero: la fase investigativa è quasi integralmente gestita dalle procure; la scelta degli strumenti d’indagine da impiegare o delle misure da richiedere è nelle [continua ..]


c) scelte intermedie

Esistono orientamenti giurisprudenziali che è possibile definire intermedi tra le due posizioni sin qui esaminate [27]. Essi distinguono, sostanzialmente, tra l’ipotesi in cui la seconda misura sia stata emessa in un procedimento che versa nella stessa fase di quello ove è stata disposta la prima cautela e il caso nel quale i due giudizi si trovino in stadi differenti. Nella prima situazione – e solo in essa – varrebbe la modalità a scomputo: alla misura applicata per ultima si imputa il periodo relativo all’omologa fase della più risalente vicenda custodiale. Nell’altra circostanza, invece, si pone il problema di allineare le tempistiche cautelari per scongiurare indebiti aggiramenti dei termini di codice. Si noterà come, sotto questo specifico profilo, la Suprema Corte compia una riflessione identica a quella che anima l’opinione minoritaria. Anziché scontare l’intera misura sofferta per prima dal secondo provvedimento, però, l’orientamento – diremmo – intermedio percorre un’altra via: il meccanismo dell’art. 297, comma 3, c.p.p. consentirebbe di assimilare la cautela più recedente alla prima; in tal modo è come se le due ordinanze fossero state rese nello stesso momento; di conseguenza, ad entrambe si applicano i termini relativi al procedimento ove è stata disposta la custodia più risalente e che versa in una fase necessariamente successiva rispetto all’altro [28]. Quel che ne deriva è l’allungamento dei termini di fase per la seconda misura: assimilata alla prima, ne segue le sorti; trattandosi di giudizi in fasi diverse, per il calcolo del dies ad quem della custodia si deve considerare il primo procedimento. Va apprezzata un’esegesi dell’art. 297, comma 3, c.p.p. che intenda accomunare le due procedure cautelari sul piano temporale del loro avvio e al fine di evitare disparità tra soggetti che vivano la medesima situazione sostanziale, pur essendo raggiunti da ordinanze disposte in momenti diversi; occorre, però, sempre porsi il problema dei rapporti tra la dilatazione dei termini custodiali e quella, correlata, dei tempi dell’indagine e del processo. L’autorità – sia inquirente, sia giudicante – che gestisce il procedimento ove è stata resa la seconda misura, ormai assorbita nella prima, può, [continua ..]


4. Riferimenti europei

La Grande Europa conferma il rilievo primario della libertà individuale: esso si estrinseca nell’art. 5, par. 1, CEDU il cui scopo, di prevenire arbitrarie limitazioni all’agire del singolo [29], ne fa un caposaldo della protezione della sicurezza fisica personale [30]. La Convenzione ammette, infatti, le sole limitazioni occorrenti «nei modi previsti dalla legge»: la riserva è alle normative interne, di talché, tendenzialmente, se l’autorità le rispetta, non ricade in infrazioni dell’art. 5, par. 1, CEDU. Il giudice europeo, però, è chiamato ad un controllo ulteriore, atteso che la nozione di arbitrarietà espressa dalla Convenzione va al di là della mancata conformità al diritto domestico: può, così, accadere che una certa condotta sia regolare per l’ordinamento interno, ma, appunto, arbitraria [31]. Si tratta di casi in cui la norma nazionale è stata elusa, dando vita a comportamenti che la rispettano solo in apparenza ma che, in realtà, segnalano la malafede dell’autorità [32]. Un esempio, piuttosto recente, viene da un caso contro la Moldavia [33]: il pubblico ministero, pur sapendo che all’imputato era attribuibile una pluralità di condotte, iscriveva a suo carico procedimenti separati e chiedeva una misura cautelare solo in uno di essi; dopodiché, alla scadenza del termine custodiale, presentava una seconda richiesta, riunendo tutti i giudizi a carico dell’interessato; in tal modo lo tratteneva in vinculis ben oltre i tempi di codice, pur, però, rispettando, almeno in apparenza, la normativa nazionale. Al di là dell’indagine sull’intentio dell’autorità interna e della prova di un’eventuale sua tendenza all’inganno, i richiami alla giurisprudenza strasburghese offrono un criterio per applicare ed interpretare il diritto statale: non vale solo l’argomento desumibile dalle norme; piuttosto, tra le tante possibili letture dei disposti, va preferita quella capace di onorare i principi dettati dalle fonti superiori che si pongono a presidio dei fondamentali diritti dell’individuo: Costituzione, diritto unionista e Convenzione e.d.u. [34] Portando questi rilievi al tema della retrodatazione, l’art. 297, comma 3, c.p.p. va letto espandendo al massimo la salvaguardia del custodito, che [continua ..]


5. Il principio di diritto …

La lettera dell’art. 297, comma 3, c.p.p. e la corretta interpretazione dei parametri costituzionali (artt. 3 e 13 Cost.) e convenzionali (art. 5, par. 1, CEDU) hanno condotto le Sezioni Unite ad esprimere il seguente principio di diritto [35]: «la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee». Quel che resta escluso dal conteggio è solo il periodo nel quale, tra un provvedimento custodiale e l’altro, l’imputato sia eventualmente tornato in libertà: in quel frangente, infatti, non si è prodotto un sacrificio dei suoi diritti fondamentali, per cui – ed è ovvio – non valgono le considerazioni svolte nelle ultime pagine, considerando le opinioni della Consulta e della Corte di Strasburgo sull’intangibilità del suo status libertatis e sull’esigenza di limitarlo solo laddove necessario [36].


6. E la sua applicazione al caso in esame

Le Sezioni Unite rilevavano come, nel caso di specie, il ricorrente fosse stato raggiunto da due ordinanze custodiali, rese da altrettante autorità – il G.i.p. monzese e quello di Milano – per fatti diversi: da un lato, la detenzione di alcuni chili di cocaina in un box a Senago (Milano), per cui fu disposto l’arresto in flagranza nell’ottobre 2016; dall’altro, l’acquisto continuativo di partite settimanali di droga, a Bollate (Milano), per un quantitativo totale di oltre centodieci chili, tra il 2012 e il 2017. La premessa è necessaria a seguire le riflessioni che, nella parte terminale della sentenza in commento, il Supremo Consesso ha compiuto circa i presupposti della retrodatazione. Sono stati invocati due precedenti delle sezioni unite [37] che, ricostruendo il regime applicativo dell’art. 297, comma 3, c.p.p., ne hanno negato l’operatività qualora si tratti di fatti diversi [38] e i relativi procedimenti siano stati aperti dinanzi ad autorità differenti. Secondo questi arresti – e, vediamo, in rima con le linee interpretative della Consulta e della giurisprudenza europea – in assenza di connessione e sempre nei limiti dei fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nella procedura ove fu emesso il primo titolo cautelare, la retrodatazione agisce solo per le procedure pendenti di fronte alla medesima autorità giudiziaria. In queste ipotesi, infatti, l’istituto serve a responsabilizzare il pubblico ministero, che eviterà di separare i procedimenti, di chiedere la custodia in momenti diversi e di lucrare sull’allungamento dei tempi di carcerazione dell’indagato. Ferma la conclamata difformità di giudicanti, la Corte si è concentrata sulla connessione tra procedimenti: a ben vedere – come pure è affermato nella sentenza in nota – si tratta di quaestio facti, rimettibile in via esclusiva al giudice del merito; quello di legittimità può solo valutare il tipo di motivazione stesa per affermare o negare il legame tra giudizi. Ebbene, nel caso di specie, l’ordinanza impugnata parlava, in modo impreciso, di una «connessione soggettiva» tra il caso monzese e quello meneghino: tanto già bastava alle Sezioni Unite per evincere l’assenza dei presupposti descritti dall’art. 297, comma 3, c.p.p., oltre al carattere fittizio e, quindi, [continua ..]


7. Conclusioni

Sono due le considerazioni che muovono dalla lettura della pronuncia annotata: una riguarda il criterio per la retrodatazione individuato dalla Corte e l’altra, i presupposti applicativi dell’art. 297, comma 3, c.p.p. per l’ipotesi di più titoli cautelari emessi da autorità diverse. Sotto il primo profilo, le Sezioni Unite rimediano ad una lettura delle regole in materia foriera di cattive prassi e capace di favorire misure cautelari applicate sine die e, perciò, sicuramente in contrasto con i referenti costituzionali ed europei a tutela della libertà individuale. L’excursus sui tre orientamenti per la retrodatazione mostra quanto fosse incerto il cammino della giurisprudenza nell’individuare il punto di equilibrio tra le esigenze dell’accertamento e quelle del singolo; nondimeno, il fatto che l’opzione maggioritaria computasse solo i periodi di carcerazione riferibili a fasi omogenee, ignorando gli altri, indica come, spesso, le necessità dell’indagine abbiano prevalso sulla salvaguardia delle prerogative dell’accusato: di qui, giustappunto, il rischio di carcerazioni senza fine e, quindi, sicuramente ingiuste. Per come è strutturata, la sentenza in commento identifica una questione pregiudiziale che va necessariamente affrontata ogni volta che si parli di retrodatazione. È pure abbastanza ovvio: prima di avviarsi al calcolo della carcerazione presofferta, bisogna attestare l’esistenza dei presupposti indicati dal­l’art. 297, comma 3, c.p.p. per le contestazioni a catena. Esattamente in questo sta il rimprovero mosso dal Consesso riunito al riesame milanese: i giudici lombardi hanno liquidato velocemente il nodo della connessione tra i fatti di Milano e quelli di Monza, passando nell’immediato a riflettere su quanto della prima cautela fosse imputabile alla seconda misura. Questo rilievo impone qualche battuta ulteriore sul caso: si viene, così, alla seconda delle due considerazioni annunciate. La Suprema Corte si sofferma sul dato che le due ordinanze siano state rese da autorità diverse e per condotte differenti, pur evidenziando che l’inquirente monzese avesse trasmesso, all’inizio del 2017, alcuni atti di indagine alla procura di Milano. Con ogni probabilità – ma, viste le criticità motivazionali dell’ordinanza del riesame meneghino, il condizionale è [continua ..]


NOTE