La Corte di cassazione torna a soffermarsi sulla possibilità di dichiarare ex officio l’assenza di una condizione di procedibilità in presenza di un ricorso inammissibile. La soluzione affermativa prescelta dai giudici di legittimità, sia pure all’esito di un percorso argomentativo poco convincente, è in grado di dischiudere nuovi orizzonti per una maggiore tutela del favor innocentiae.
The Court of Cassation once again dwells on the possibility of declaring ex officio that a requirement for prosecution is not met when an inadmissible appeal is submitted by the defendant. The affirmative solution chosen by the Court, albeit at the outcome of an unconvincing argumentative path, may open up new horizons leading to a greater protection of the favor innocentiae.
1. Premessa: il caso di specie - 2. La vexata quaestio dei rapporti tra inammissibilità dell’impugnazione e obbligo d’immediata declaratoria di cause di non punibilità dinanzi alla Suprema Corte - 3. Inammissibilità dell’impugnazione e modifiche del trattamento sanzionatorio - 4. Riforma Cartabia, “pena illegale” e favor innocentiae - NOTE
Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione è stata chiamata ad affrontare nuovamente [1] il tema dei rapporti tra inammissibilità dell’impugnazione e declaratoria delle cause di non punibilità. Questo il caso di specie. Il ricorrente impugnava in Cassazione la sentenza della corte d’appello che lo aveva ritenuto responsabile del reato di lesioni personali, formulando un unico motivo non consentito dalla legge (la rivalutazione del materiale probatorio), cui sarebbe dovuta conseguire, ai sensi degli artt. 591, comma 2, e 606, comma 3, c.p.p., la declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione. Nelle more della fissazione dell’udienza dinanzi alla Suprema Corte, il d.lgs. n. 150/2022 [2] modificava, tuttavia, il regime di procedibilità del reato contestato. Segnatamente, quest’ultimo diveniva procedibile a querela della persona offesa e, per l’effetto, attribuito alla competenza del giudice di pace, secondo la prevalente interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità [3]. Poiché la querela non veniva tempestivamente presentata dalla persona offesa [4], alla Corte di cassazione si prospettava una rigida alternativa decisoria: dichiarare l’inammissibilità del ricorso, ai sensi degli artt. 591, commi 2 e 4, e 606, comma 3, c.p.p., oppure – valorizzando lo ius superveniens – adottare ex officio una pronuncia ai sensi dell’art. 129, comma 1, c.p.p., il quale obbliga il giudice «in ogni stato e grado del processo» a dichiarare con sentenza la mancanza di una condizione di procedibilità. All’esito del procedimento, la Suprema Corte ha ritenuto di annullare senza rinvio la sentenza impugnata perché l’azione non poteva essere proseguita per difetto di querela. In sede di motivazione, l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. è stata giustificata con la necessità di dover porre rimedio a un’ipotesi di “pena illegale” [5]. Difatti, nel caso di specie, in virtù del mutato regime di competenza per materia, la pena della reclusione comminata all’imputato non era più conforme a legge, giacché non contemplata tra le sanzioni irrogabili dal giudice di pace (art. 52, d.lgs. n. 274/2000). Secondo la lettura patrocinata dalla pronuncia in commento, proprio il rilievo officioso [continua ..]
L’interrogativo circa l’esistenza o meno di un obbligo in capo alla Corte di cassazione di applicare l’art. 129 c.p.p. qualora investita di un ricorso inammissibile, pur impegnando da tempo dottrina e giurisprudenza [1], è ancora privo di soluzione condivisa in maniera unanime. Nella vigenza del c.p.p. 1930, la natura complessa dell’atto d’impugnazione – in ragione, per un verso, della scissione cronologica tra la dichiarazione d’impugnazione e la presentazione dei motivi e, per altro verso, del riparto di competenze tra giudice a quo e ad quem quanto alla delibazione di alcune cause di inammissibilità [2] – aveva indotto la dottrina [3], prima, e la giurisprudenza [4], poi, a individuare una soluzione di compromesso, fondata sulla distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell’impugnazione. Ovverosia, soltanto la sussistenza di una causa d’inammissibilità originaria dell’impugnazione avrebbe impedito l’applicazione dell’art. 152 c.p.p. 1930, corrispondente all’attuale art. 129 c.p.p. Tale distinguo all’interno della categoria delle cause d’inammissibilità dell’atto d’impugnazione era, però, sprovvisto di riconoscimento espresso a livello normativo [5]. Il che lasciava spazio, in sede scientifica, per ricostruzioni del tutto diverse, collocate sui poli estremi di una prevalenza “assoluta” delle cause d’inammissibilità [6] oppure, all’opposto, delle cause di non punibilità [7]. Sullo sfondo del dibattito, una «distanza di vedute nel modo di concepire i principi generali cui il processo penale è improntato» [8], vale a dire uno “scontro” ideologico tra un approccio attento a valorizzare l’inammissibilità soprattutto per esigenze di tipo pratico – evitare la proliferazione di ricorsi pretestuosi – e una lettura fondata su una visione liberale del processo penale [9], nel cui ambito il favor per l’imputato deve trovare la massima esplicazione possibile [10]. Il conflitto era destinato a protrarsi nel nuovo sistema processuale, in ragione della sovrapposizione tra gli obblighi per il giudice di dichiarare «in ogni stato e grado», da un lato, la sussistenza di cause di non punibilità (art. 129 c.p.p.) [11] [continua ..]
A testimoniare la complessità della materia e l’assenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sta il numero di volte in cui le Sezioni Unite sono state chiamate a riprendere posizione sulla tematica[1]. A chiara conferma di un dibattito non ancora sopito, in numerose occasioni le singole Sezioni, talvolta senza rimettere in discussione l’impalcatura teorica relativa alla separazione tra giudicato “sostanziale” e “formale”, hanno ritenuto di poter ritagliare spazi operativi per l’art. 129 c.p.p. pur in presenza di cause d’inammissibilità dell’impugnazione. Si allude alla prevalenza assegnata a quest’ultima disposizione, rispetto alla declaratoria di cause d’inammissibilità, in una variegata pletora di ipotesi, tra le quali la morte del reo [2], l’abolitio criminis [3], la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice [4] e l’inapplicabilità delle norme nazionali incompatibili con la normativa comunitaria [5]. Ciò sul presupposto del venire meno, nei casi appena menzionati, dell’«oggetto sostanziale del processo penale» [6], il che precluderebbe la declaratoria d’inammissibilità, la quale richiede pur sempre «la formale permanenza di una res iudicanda» [7]. Anche le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno adottato, in alcune occasioni, un approccio analogo [8], sia pure giustificandolo in ragione delle particolari contingenze dei casi di specie. Ad esempio, i giudici di legittimità hanno affermato che, in caso di remissione di querela, la declaratoria ai sensi dell’art. 129 c.p.p. deve prevalere sulla rilevata inammissibilità dell’impugnazione, in virtù dell’asserita necessità di attribuire alla volontà del querelante la massima efficacia possibile sul piano degli effetti giuridici [9]. Parimenti, la Suprema Corte ha affermato che pure nel caso di ricorso inammissibile può essere rilevata ex officio la circostanza che la sentenza impugnata sia stata pronunciata prima di un mutamento normativo che ha modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato. E ciò, persino qualora la pena inflitta rientri nella nuova cornice edittale, dunque in assenza di una vera e propria ipotesi di “pena [continua ..]
La questione è di recente tornata in auge in ragione delle modifiche normative in materia di procedibilità operate dal d.lgs. n. 150/2022. Nelle prime pronunce sul tema, la Corte di cassazione ha affermato la prevalenza del giudicato “sostanziale” rispetto alla declaratoria d’improcedibilità per difetto di querela, con correlativa irrilevanza dello ius superveniens per la soluzione del caso concreto [1]. Al contrario, la pronuncia in commento ritiene doverosa la declaratoria ex art. 129 c.p.p., giustificata dalla necessità di rimediare a un’ipotesi di “pena illegale”. Al di là delle affermazioni di principio contenute nell’incipit della parte motiva, che ribadisce la natura “prioritaria” della declaratoria delle cause d’inammissibilità rispetto a quella delle cause di non punibilità, dall’analisi della motivazione offerta dalla Suprema Corte emerge chiaramente la volontà dei giudici di legittimità di aderire all’esegesi meno rigorista, senza, però, spingersi sino a rinnegare le fondamenta teoriche della ricostruzione che distingue tra giudicato “sostanziale” e “formale”. L’escamotage per giungere a tale approdo è un’acrobazia lessicale ed esegetica così sintetizzabile: il ricorso è inammissibile; la Corte si avvede, però, ex officio dell’illegalità della pena; proprio tale rilievo officioso rende il ricorso «non […] del tutto inammissibile o manifestamente infondato» [2]; il rapporto processuale è, quindi, validamente instaurato, con conseguente obbligo di applicare l’art. 129 c.p.p. La conclusione è senza dubbio corretta. Quel che suscita perplessità è, invece, l’iter logico seguito dalla Corte. L’impressione è che alla medesima conclusione si potesse arrivare attraverso un percorso argomentativo ben più lineare, ovverosia ammettendo che, in caso di coesistenza tra una causa di non punibilità e una causa d’inammissibilità, la prima debba trovare applicazione in via prioritaria, fatte salve le sole ipotesi di impugnazione tardiva ovvero proposta avverso provvedimenti non impugnabili. Del resto, ogni ipotesi di applicazione dell’art. 129 c.p.p. a fronte di un atto d’impugnazione inammissibile, come avvenuto nella [continua ..]