Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Le Sezioni Unite sulla proponibilità del ricorso per Cassazione avverso la sentenza di concordato in appello, per omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione (di Chiara Rosa Blefari, Dottoranda in Procedura penale – Università di Roma Tor Vergata)


Concordato in appello e ricorso per Cassazione in caso di omessa dichiarazione di estinzione della prescrizione

MASSIMA:

Nei confronti della sentenza resa all’esito di concordato in appello è proponibile il ricorso per Cassazione con cui si deduca l’omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla pronuncia di tale sentenza.

[Omissis]

PROVVEDIMENTO:

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 9 luglio 2018 il Tribunale di Agrigento affermava la penale responsabilità di M. F. in ordine al delitto di cui agli artt. 81 comma 2, 56 e 629 cod. pen. – perché, in qualità di gestore subentrato nella conduzione di un esercizio commerciale, con atteggiamenti intimidatori minacciava di licenziamento i dipendenti qualora non avessero sottoscritto un contratto “a progetto” che, senza alcuna modifica dell’orario di lavoro, prevedeva una decurtazione dello stipendio e l’eliminazione delle mensilità aggiuntive, nel tentativo, non riuscito, di procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno – e, ritenuta la contestata recidiva, lo condannava alla pena di anni due, mesi dieci e giorni venti di reclusione ed euro 1.700,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

La sentenza del Tribunale di Agrigento era impugnata dall’imputato innanzi alla Corte di appello di Palermo con un atto di appello affidato a quattro motivi:

–   con il primo, chiedeva l’assoluzione sul rilievo che i dipendenti erano stati tutti licenziati dal precedente datore di lavoro, e che, pertanto, le nuove proposte di lavoro riguardavano un rapporto che doveva ancora sorgere, sicché non potevano essere considerate come minacce tese a coartare la volontà dei dipendenti;

–   con il secondo, si doleva del diniego delle circostanze attenuanti generiche;

–   con il terzo, censurava l’omessa esclusione della recidiva;

–   con il quarto, infine, lamentava l’eccessività della pena inflitta.

All’udienza del 15 maggio 2020 veniva presentata l’istanza di concordato, mediante la quale l’im­putato rinunciava ai motivi riguardanti la responsabilità e l’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, insisteva sull’accoglimento del motivo in ordine alla insussistenza della recidiva, indicando la pena finale in anni uno e mesi otto di reclusione ed euro 400 di multa con il consenso espresso dal Procuratore generale.

La Corte territoriale emetteva, quindi, sentenza (corredata da contestuale

motivazione) in conformità all’accordo e, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, escludeva l’aumento per la recidiva (frutto di erronea annotazione nel certificato penale del precedente considerato a tal fine) e rideterminava la pena inflitta all’imputato nella misura di anni uno e mesi otto di reclusione ed euro 400,00 di multa.

Avverso la sentenza di appello l’imputato M.F., a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per Cassazione, articolando le censure in due motivi.

Con il primo motivo, proposto per violazione di legge in relazione all’art. 599-bis cod. proc. pen., censura la sentenza per l’omessa declaratoria di esclusione della circostanza aggravante della recidiva, riguardante doglianza non rinunciata nella proposta di concordato.

Con il secondo motivo, proposto per violazione di legge in relazione agli artt. 161 cod. pen. e 129 cod. proc. pen., censura l’omessa declaratoria di prescrizione del reato. Il giudice di appello, avendo sostanzialmente escluso la predetta recidiva reiterata e specifica, ha omesso di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione, il cui maturato termine è il 31 gennaio 2016.

La Seconda Sezione, investita del ricorso, ha emesso l’ordinanza n. 17439 del 14 aprile 2022 (depositata il 3 maggio 2022) con la quale ha sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite registrando un contrasto giurisprudenziale. Un orientamento ammette la ricorribilità della sentenza di appello, emessa ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., per dedurre la prescrizione del reato maturata anteriormente alla detta sentenza e non oggetto di specifica rinunzia, in base ai principi espressi da Sez. U, n. 18953 del 25/2/2016, Piergotti. Un altro indirizzo, affermatosi dopo la riforma introdotta con la legge 23 giugno 2017, n. 103, limita la ricorribilità della predetta sentenza solo «per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto ed alla illegalità della pena o della misura di sicurezza».

Con decreto del 7 settembre 2022 il Presidente aggiunto ha fissato l’udienza del 27 ottobre 2022 per la trattazione del ricorso nelle forme della pubblica udienza.

In data 3 ottobre 2022 è pervenuta memoria del Procuratore generale con la quale si condivide l’orientamento che ammette il ricorso per cassazione per i principi espressi da Sezioni Unite “Piergotti” e si chiede l’annullamento senza rinvio della sentenza per l’estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla decisione di secondo grado.

In data 21 ottobre 2022 è stata depositata memoria difensiva con la quale si insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: «se avverso la sentenza di concordato in appello ex art. 599-bis cod. proc. pen. sia consentito proporre ricorso per cassazione con il quale si deduca l’estinzione per prescrizione del reato, maturata anteriormente alla pronuncia di secondo grado.

Deve essere esaminato il primo motivo di ricorso con il quale si deduce la violazione del concordato da parte del giudice di appello per non aver escluso la recidiva, in ordine alla quale le parti avevano convenuto per l’accoglimento del relativo motivo di appello.

Il motivo è manifestamente infondato, in quanto la sentenza impugnata ha escluso la contestata recidiva. Come si desume dalla motivazione, è stato specifico oggetto di accertamento il presupposto – costituito dalla sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Agrigento il 3 novembre 2011 e annotata come definitiva sul certificato del casellario giudiziale – sulla base del quale la prima decisione aveva giustificato la sussistenza della recidiva, oggetto di motivo di impugnazione al quale l’appellante non aveva rinunciato in sede di concordato e sul quale le parti si erano accordate sull’accoglimento così formulando la concorde pena da applicare. Del resto, è del tutto pacifico – in quanto Io riconosce Io stesso ricorrente – che il mancato incremento di pena per la recidiva da parte della sentenza impugnata ha implicato la sua esclusione (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319; Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247838;).

In relazione alla seconda censura la ordinanza di rimessione osserva che, prima della riforma introdotta con la legge n. 103 del 23 gennaio 2017, le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere «se la presentazione della richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato e il consenso a quella proposta dal pubblico ministero possano costituire una dichiarazione legale tipica di rinuncia alla prescrizione non più revocabile». Con la sentenza n. 18953 del 25 febbraio 2016, Piergotti, le Sezioni Unite han­no escluso che, nel rito del “patteggiamento” regolato dagli artt. 444 ss. cod. proc. pen., la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato, o il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero, possano, di per sé, valere come rinuncia, restando all’inverso prioritaria la verifica deII’insussi­stenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen., tra cui l’intervenuta estinzione del reato per prescrìzione; verìfica da compiersi aliunde, ossia indipendentemente dalla piattaforma negoziale e sulla base delle risultanze processuali. In particolare hanno affermato che, ai fini del valido esercizio del diritto di rinuncia alla prescrizione, è sempre necessaria la forma espressa, che non ammette equipollenti e ciò, sia per l’espresso disposto dell’art. 157, comma 7, cod. pen., sia in quanto la rilevanza dell’atto dismissivo e la pregnanza dei suoi effetti sono tali da richiedere una particolare modalità di manifestazione. Hanno, inoltre, negato l’esistenza di regimi differenziati in tema di rinuncia alla prescrizione, correlabili alle eventuali peculiarità del giudizio, considerato che la normativa in materia riveste carattere generale, essendo valida per tutti i casi e moduli procedurali, senza eccezioni o diversificazioni di sorta. Dopo la citata decisione, si è formato un orientamento secondo il quale i principi enunciati da Sezioni Unite “Piergotti” devono valere anche per l’istituto del concordato in appello, introdotto con la novella del 2017 (art. 599-bis cod. proc. pen.), con conseguente superamento dell’indiriz­zo esegetico (formatosi in costanza della previgente normativa) secondo il quale, dopo la definizione concordata della pena in appello, non può essere dedotta l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima della pronuncia del giudice di appello o successivamente ad essa (Sez. 5, n. 3391 del 15/10/2009, Camassa, Rv. 245920). Questo perché la definizione concordata della pena in appello, conseguente al previo accordo delle parti sui relativi motivi, non può implicare la rinuncia alla prescrizione da parte dell’imputato, non essendo equiparabile alla rinuncia espressa, richiesta dall’art. 157, comma 7, cod. pen. – norma di stretta interpretazione in considerazione delle sue ricadute sulla sfera di libertà del soggetto rinunciante –, una manifestazione di volontà orientata a tutt’aItri fini (in tal senso, Sez. 6, n. 12285 del 13/2/2020, Lika, non mass.; Sez. 5, n. 38115 del 16/7/2019, Salvini, non mass.; Sez. 1, n. 51169 del 11/06/2018, Porra’, Rv. 274384). Secondo questo indirizzo, quindi, il concordato in appello ex art. 599-bis cod. proc. pen. non preclude la deduzione per cassazione del vizio di violazione di Iegge per omessa declaratoria di estinzione del reato, qualora i relativi termini siano decorsi prima della pronuncia del giudice di appello e la causa estintiva non sia stata erroneamente dichiarata dal giudice medesimo. A tale indirizzo se ne contrappone un altro che esclude la ricorribilità della sentenza emessa a seguito di concordato in appello in relazione alla omessa rilevazione della prescrizione del reato anteriormente a detta sentenza. Questo indirizzo – in particolare espresso da Sez. 5, n. 4709 del 20/09/2019, dep. 2020, Ferrarini, Rv. 278 142 – ritiene applicabili al concordato in appello introdotto dalla riforma del 2017 l’indicato principio espresso nella vigenza del precedente istituto previsto dall’art. 599, comma 4, cod. proc. pen. dalla citata sentenza Camassa in base all’argomento secondo cui l’adesione dell’impu­tato al concordato costituiva una dichiarazione legale di rinuncia alla prescrizione, non più revocabile. Secondo l’orientamento in esame, inoltre, ‘la riforma del 2017 ha profondamente inciso sulla materia del controllo dell’osservanza delle condizioni di legalità non solo della sentenza di patteggiamento, ma anche di quella di concordato in appello. In tale ottica viene valorizzata, in particolare, la natura negoziale dei due istituti con conseguente interpretazione estensiva dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen., pur se riferito espressamente al solo patteggiamento. In base a questo orientamento, quindi, la mancata declaratoria di prescrizione da parte del giudice di appello non può essere dedotta con il ricorso per cassazione in coerenza con la previsione normativa che, per la sentenza di applicazione della pena, consente di far valere con il ricorso per cassazione solo «motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto ed alla illegalità della pena o della misura di sicurezza».

A sostegno dell’orientamento è stato precisato che le uniche doglianze proponibili contro una sentenza emanata all’esito del concordato ex art. 599-bis cod. proc. pen. sono quelle relative ad eventuali vizi della sentenza rispetto alla volontà della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta, al contenuto difforme della pronuncia e all’applicazione di una pena illegale (Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, Mariniello, Rv. 276102; Sez. 2, ordinanza n. 30990 del 01/06/2018, Gueli, Rv. 272969; sulla scia di questo orientamento è collocata anche Sez. 2, n. 3587 del 6/11/2020, dep. 2021, Coco, non mass.) per tale dovendosi intendere quella non conforme al paradigma normativo (Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886; Sez. U, n. 47182 del 3 1/03/2022, Savini, Rv. 283818; Sez. U, n. 38809 del 31/3/2022, Miraglia, Rv. 283689) e non quella applicata per il reato prescritto. L’applicazione di pena frutto di concordato in appello per un reato prescritto integra, pertanto, un vizio di violazione di Iegge che non investe direttamente la legalità della pena e che, conseguentemente, non può integrare un motivo ammissibile di ricorso per cassazione, perché non riconducibile ai motivi tassativamente previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. sia pure per il solo patteggiamento (così Sez. 5, n. 4709 del 20/09/2019, Ferrarini, Rv. 278142; Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019, Leone, Rv. 277196-01; Sez. 6, n. 5210 del 11/12/2018, Chiumento, Rv. 275027-01).

Secondo tale indirizzo non può essere accolta una diversa e più estensiva interpretazione della nozione di illegalità della pena, perché, diversamente opinando, ogni vizio di Iegge sostanziale e processuale si tradurrebbe sempre in una illegalità della comminatoria finale della pena, quale effetto conclusivo del procedimento penale in senso lato viziato, con la conseguente assimilazione della illegalità della pena al genus del vizio di Iegge come disciplinato dall’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., in evidente contrasto con il carattere tassativo della indicazione normativa dei motivi ammissibili del ricorso per cassazione introdotta dalla novella del 2017.

È stato inoltre osservato che, una volta affermata l’inammissibilità del motivo di ricorso volto a ottenere la declaratoria di prescrizione del reato erroneamente non rilevata nel giudizio di merito, la prescrizione maturata prima della sentenza impugnata non può essere neppure rilevata di ufficio ex art. 129 cod. proc. pen. in sede di legittimità. Possono, infatti, essere rilevati di ufficio solo i casi di pena illegale che non può neppure determinare una revocabilità del giudicato in sede esecutiva, come invece accade nel caso di aboi/tio crim/nis o di pena dichiarata incostituzionale (Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886; Sez. U, n. 47182 del 31/03/2022, Savini, Rv. 283818; Sez. U, n. 38809 del 31/3/2022, Miraglia, Rv. 283689; Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264206; Sez. 5, n. 39764 del 29/05/2017, Rhafor, Rv. 271850).

Con la già citata sentenza Ferrarini della Quinta Sezione, alla presa d’atto che per il concordato in appello «non è stata prevista una disciplina specifica sulle censure proponibili con ricorso per cassazione, essendo stata stabilita espressamente solo la declaratoria di inammissibilità de piano nell’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen.» segue, secondo un diretto quanto inesplicato nesso derivativo, l’afferma­zione secondo la quale «le uniche doglianze proponibili siano quelle relative ad eventuali vizi della sentenza rispetto alla volontà della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta, al contenuto difforme della pronuncia del giudice e all’applicazione di una pena illegale». Quest’ultimo riferimento evoca i limiti introdotti con l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. per il diverso istituto della applicazione della pena su richiesta delle parti, escludendo dalla nozione di pena illegale quella inflitta per reato prescritto. Giustifica l’incensurabilità in sede di legittimità della pena irrogata in base «alla sua conformità alla volontà delle parti ed ai limiti edittali per i reati in relazione ai quali non è decorso il termine prescrizionale alla data della pronunzia impugnata», così facendo valere a sostegno dell’indirizzo, e in consapevole contrasto con quello opposto, la preminente valenza dell’ac­cordo in uno alla conformità edittale della pena inflitta.

Al medesimo indirizzo appena ricordato si ricollegano quelle pronunce che fanno leva, più radicalmente, in particolare, sull’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen. introdotto dall’art. 1, comma 62, della legge 23 giugno 2017, n. 103 per escludere senz’altro il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa a seguito di concordato in appello, ammettendosi per tale sentenza il solo ricorso straordinario (Sez. 2, n. 26984 del 12/06/2019, Vetrano, non mass.; Sez. 2, n. 27566 del 17/05/2019, Festosi, non. mass.; Sez. 6 n. 2450 del 07/01/2019, Daccò, non mass.; Sez. 2, n. 27862 del 03/05/2019, Ballarin, non mass.; Sez. 2, n. 2748 del 15/01/2019, Tornese, non mass.; Sez. 6, n. 197 del 03/12/2018, Greco, non mass.; Sez. 6, n. 53045 del 12/11/2018, Golloshi, non mass.; Sez. 5, n. 54543 del 28/09/2018, Tornabene, non mass.; Sez. 6, n. 45027 del 10/09/2018, Anastasio, non mass.; Sez. 6, 06/7/2018, n. 32617, Dellerba, non mass.; Sez. 5, n. 34513 del 22/06/2018, Capuzzi, non mass.; Sez. 2, n. 26375 del 31/5/2018, Ferlito, non mass.; Sez. 6, n. 20558 del 09/05/2018, Hyra, non mass.; Sez. 6, n. 21558 del 07/05/2018, Sacco, non mass.; Sez. 5, n. 6578 del 24/01/2018, Papappicco, non mass.).

Alla questione di diritto che le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere, deve premettersi un sintetico inquadramento generale dell’istituto del concordato in appello.

Originariamente esso era stato concepito come ambizioso strumento flessibile, caratterizzato da una virtuale assenza di rischi. Se da un lato l’eventuale rigetto, da parte del giudice, dell’accordo raggiunto dalle parti determinava la riespansione del devoluto, riportando il giudizio d’impugnazione ai fini per cui era stato proposto, dall’altro, il suo perfezionamento produceva effetti deflattivi tanto sul processo di secondo grado, quanto sul giudizio di legittimità. Tuttavia, a breve distanza dall’entrata in vigore del nuovo codice di rito, l’istituto era oggetto dell’intervento della Corte costituzionale che, con sentenza n. 435 del 1990, dichiarava l’illegittimità costituzionale dei commi 4 e 5 dell’art. 599 cod. proc. pen. per eccesso di delega nella parte in cui veniva consentita la definizione del procedimento in camera di consiglio anche al di fuori dei casi elencati nel primo comma dello stesso art. 599 del codice di rito. In tal modo si incideva sulla possibilità di definire – negozialmente in grado d’appello e con le forme camerati – il giudizio avente ad oggetto non solo il quantum, ma anche ì’an della responsabilità penale. Il Giudice delle leggi osservava che, se la ratio della norma è quella di accelerare la definizione del processo e se – come desumibile dai lavori parlamentari – esula dal suo ambito di applicazione la possibilità di dedurre questioni attinenti alla ricorrenza di circostanze attenuanti (non generiche) od aggravanti, trattandosi «di questioni di tale importanza e di tale rilievo, da far ritenere opportuno addivenire al rito normale», considerazioni analoghe valgono quando si tratti di decidere «sulla sussistenza o meno del (o dei) reati attribuiti all’imputato ovvero sul riconoscimento di cause di esclusione dell’antigiuridicità o della punibilità».

Al dichiarato fine di superare gli ostacoli generati dalla sentenza della Corte costituzionale da ultimo citata, il legislatore, con legge 19 gennaio 1999, n. 14, (“Modifica degli articoli 599 e 602 del codice di procedura penale”), interveniva sul comma 4 dell’art. 599 cod. proc. pen., consentendo l’applicazione dell’istituto «anche al di fuori dei casi di cui al comma 1» e, quindi, quali che fossero i motivi di impugnazione, compresi quelli inerenti alla responsabilità dell’imputato, così recuperando, per ragioni di equità e di giustizia, quelle facoltà previste dall’art. 599 cod. proc. pen.

Con la disciplina reintrodotta nel 1999, si riproponeva il doppio modello processuale, camerale o dibattimentale, a seconda che la richiesta fosse formulata prima ovvero dopo l’emanazione del decreto di citazione del giudizio di appello. L’accordo – che, come chiarito dal novellato art. 599, comma 4, cod. proc. pen. aveva ad oggetto l’accoglimento «in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi» – si configurava come un istituto che, attraverso la volontà delle parti, necessariamente copriva tutti i temi devoluti alla cognizione del giudice di appello, tramite un meccanismo che combinava concordato e rinuncia ai motivi e che, in ragione del richiamo alle forme di cui all’art. 589 cod. proc. pen., richiedeva, per la validità dell’atto, che la dichiarazione di parte fosse manifestata personalmente, ovvero a mezzo di procuratore speciale. Dunque, il concordato in appello si prospettava come un istituto orientato dall’interesse alla pronta definizione del processo, senza una strutturale connotazione premiale.

Nella formulazione della norma reintrodotta, in capo al giudice sussistevano ampi poteri cognitivi e decisionali, in quanto egli conservava una piena ed insindacabile autonomia nella valutazione dell’ac­cordo intervenuto tra le parti, che legittimamente poteva non accogliere.

In caso di recepimento dell’accordo, al giudice d’appello non era consentito discostarsi dal contenuto del medesimo né in punto di determinazione della sanzione, né di riconoscimento delle circostanze ovvero di loro bilanciamento, pena l’inefficacia della richiesta e della rinuncia ai motivi. Diversamente, in caso di mancata ratifica, il giudice era tenuto a ordinare la citazione dell’imputato in dibattimento, ai sensi dell’art. 599, comma 5, cod. proc. pen., e, qualora la stessa fosse già stata disposta, a ordinare la prosecuzione del dibattimento (art. 602, comma 2, cod. proc. pen.).

La dottrina – in conformità con le più approfondite riflessioni della giurisprudenza di legittimità – ha individuato nell’accordo sui motivi di appello una versione del modello consensuale di definizione del processo profondamente diversa rispetto al cd. patteggiamento. Ha, inoltre, osservato che la scarna normativa dedicata al concordato in appello rivela la sostanziale continuità tra il modello di cognizione tipico del secondo grado di giudizio e le modalità operative del congegno previsto dal­l’art. 599 cod. proc. pen. la cui regolamentazione postula l’integrazione con la disciplina generale in tema di appello.

A poco meno di dieci anni dalla novella legislativa, il legislatore, in sede di conversione del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), nella Iegge 24 luglio 2008, n. 125 abrogava integralmente il concordato in appello ritenendo che un giudizio di secondo grado aperto a soluzioni negoziali di mitigazione del trattamento sanzionatorio mal si conciliasse con esigenze di prevenzione generale e speciale.

Le ragioni della scelta legislativa, se da un lato rispondevano alla necessità di garantire una maggiore severità del trattamento sanzionatorio, dall’altro perseguivano Io scopo di incentivare l’opzione per il patteggiamento in primo grado, soluzione poco praticata in considerazione dei maggiori ambiti applicativi possibili con il concordato sui motivi di appello.

Tante furono le critiche alla soppressione di un istituto volto alla deflazione del carico giudiziario che si proponeva di potenziare l’efficienza dell’intero processo penale, di compendiare le rationes di economia processuale con quelle securitarie, di trovare una sintesi tra le contrapposte spinte che da sempre alimentavano le controverse sorti del concordato in appello. Di tali critiche si è fatto carico il legislatore che con legge 23 giugno 2017, n. 103, entrata in vigore il 3 agosto 2017, è nuovamente intervenuto sulla disciplina dell’appello reintroducendo nel codice di rito l’art. 599-bis, rubricato “Concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”. Diversamente da quanto previsto nel testo del 1999, con la riforma del 2017 il legislatore ha delimitato il campo d’applicazione dell’istituto, escludendone l’appli­cazione in relazione a un catalogo di reati gravi, in particolare associativi, nonché nei confronti di imputati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

La legge n. 103 del 2017 è intervenuta anche suIl’art. 602 cod. proc. pen., relativo al dibattimento in appello, introducendo il comma 1-bis, dal contenuto analogo a quello dei commi 1 e 3 dell’art. 599-bis del codice di rito, così ripristinando anche per questa fase la previsione del concordato sui motivi in appello.

Da ultimo, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 ha mantenuto le connotazioni strutturali dell’istituto in parola introducendo, con l’art. 34, comma 1, lett. f), nell’art. 599-bis, comma 1, cod. proc. pen. il termine, a pena di decadenza, di quindici giorni prima dell’udienza di appello per la proposizione del concordato. Ha abrogato, con l’art. 98, comma 1, lett. a), sia l’art. 599-bis, comma 2, cod. proc. pen., ovvero le ipotesi di esclusione correlate ai reati più gravi ed ai soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, sia l’art. 602, comma 1-bis, cod. proc. pen., ovvero la facoltà di proporre il concordato nella fase dibattimentale.

In ordine al quesito rimesso alle Sezioni Unite, la Corte ritiene che, in mancanza di una espressa rinuncia alla prescrizione, avverso la sentenza di concordato in appello sia proponibile il ricorso in cassazione con cui si deduca l’omessa dichiarazione di estinzione del reato maturata anteriormente a detta sentenza. In tale modo intende dare continuità al principio di diritto affermato da Sezioni Unite “Piergotti” in tema di rinuncia alla prescrizione e già espresso da Sez. U, n. 43055 del 30/09/2010, Dalla Serra, Rv. 248379.

La formulazione della richiesta di concordato in appello non costituisce rinuncia alla prescrizione del reato eventualmente già verificatasi. A tal riguardo, è di centrale rilievo l’argomento espresso da Sez. U, “Piergotti” che designa l’irrilevanza della specialità del rito ex art. 444 cod. proc. pen. allorquando saggia la tenuta del principio affermato in tema di rinuncia alla prescrizione rispetto ad esso, osservando che la differenza strutturale rispetto al rito ordinario «non è, però, tale da comportare, per il patteggiamento, un regime differenziato in tema di rinuncia alla prescrizione, posto che la norma di cui all’art. 157, settimo comma, cod. pen., è disposizione di carattere generale, valida per tutti i casi e moduli procedurali, senza eccezioni o diversificazioni di sorta». Sicuri riferimenti ulteriori alla esclusione di forme equipollenti a quella di rinuncia espressa alla prescrizione «sono le disposizioni di cui agli artt. 444, comma 2, e129 cod. proc. pen., oltre alla previsione dell’art. 157, settimo comma, cod. pen.». Le Sez. Un. “Piergotti” hanno attribuito specifico rilievo – nel caso sottoposto al loro esame – all’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. che «detta la sequenza diacronica che caratterizza il modulo procedimentale del “patteggiamento”». Hanno osservato che, secondo Sez. U, n. 3 del 25/11/1998, dep. 1999, Messina, Rv. 212438 e Sez. U, n. 5 del 28/05/1997, Lisuzzo, Rv. 207877, «il paradigma procedimentale assegna priorità alla verifica dell’insussistenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen., da compiersi aliunde, ossia indipendentemente dalla piattaforma negoziale, e precisamente sulla base degli atti del fascicolo del pubblico ministero (sulla scansione nelle due fasi della procedura del patteggiamento, anche Sez. U, n. 18 del 21/06/2000, Franzo, Rv. 216431). Soltanto in caso di negativa delibazione il giudice può, poi, procedere all’esame di legittimità della piattaforma negoziale offertagli dalle parti, al fine di verificare correttezza del nomen iuris attribuito al fatto-reato, legalità e congruità dell’assetto sanzionatorio concordato. Sicché – proseguono Sez. U, “Piergotti” – solo sino ad un certo punto può dirsi esatta l’affermazione che il rito speciale si incentra nel potere dispositivo delle parti, posto che un ruolo centrale è pur sempre attribuito al giudice, chiamato, anche in questa speciale procedura, ad un compito attivo e vigile, che lo rende tutt’altro che spettatore inerme e silente di una vicenda negoziale inter partes, deputato ad una funzione meramente “notarile” – di semplice ratifica di un accordo privatistico – secondo l’efficace espressione della Corte cost., sent. n. 313 del 1990.»

«Sicché anche in presenza di richiesta condivisa di patteggiamento, che, per qualsiasi ragione, non abbia tenuto conto di maturate cause estintive del reato, il giudice – in nessun modo condizionato dal­l’esercizio di un potere di rinuncia alla prescrizione, non espresso nelle forme di legge – non è comunque esentato dal dovere funzionale del pertinente rilievo, ai sensi del menzionato art. 129 cod. proc. pen., che segna, pertanto, il momento di criticità della tesi che ammette equipollenti alla dichiarazione espressa di rinuncia».

L’esposto percorso argomentativo mantiene – a maggior ragione – la sua validità in relazione all’isti­tuto ex art. 599-bis cod. proc. pen. che non costituisce procedimento speciale e non si discosta dal modello ordinario in relazione alla rinuncia ai motivi ed alla valutazione di quelli non rinunciati.

Non osta alla applicazione del principio il contesto in cui Io stesso è stato affermato, definito dalla ritenuta «pacifica acquisizione giurisprudenziale» secondo la quale l’omesso od erroneo esercizio del potere-dovere di verifica della sussistenza di cause estintive ex art. 129 cod. proc. pen. integra vizio di legittimità deducibile in cassazione (vds. pag. 10 della sentenza Piergotti). Tale contesto risulta mutato a seguito della riforma del 2017 che con l’art. 448-bis cod. proc. pen. ha introdotto speciali motivi di ricorribilità della sentenza di cd. patteggiamento, al quale ha fatto seguito l’orientamento di legittimità secondo cui la maturata prescrizione del reato al momento della sentenza che omologa l’accordo raggiunto dalle parti non è deducibile in cassazione, in quanto non determina l’illegalità della pena ai sensi del novellato art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., ma può essere rilevata dal giudice al quale è sottoposto l’accordo che non implica di per sé rinuncia alla prescrizione (Sez. 5, n. 26425 del 30/04/2019, Parigi, Rv. 276517; conforme Sez. 6, n. 5210 del 11/12/2018, dep. 2019, Chiumento, Rv. 275027).

Purtuttavia, il rilevato mutamento non incide sull’istituto del concordato in appello una volta ribadito il principio per il quale la proposizione dell’accordo non implica di per sé rinuncia alla prescrizione, causa estintiva alla quale consegue l’obbligo di immediata declaratoria previsto dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. L’esercizio di tale potere-dovere non si pone – ovviamente – in conflitto con il principio secondo il quale il giudice, qualora ritenga di accedere all’accordo, non può discostarsi dai termini in cui è stato prospettato. Invero, la pronuncia di un provvedimento difforme da quello richiesto dalle parti, si giustifica in quanto l’esercizio del predetto potere-dovere dà luogo a un provvedimento che si pone in rapporto di alternatività e di priorità logica rispetto a quello domandato dalle parti.

La conclusione illustrata – è appena il caso di evidenziarlo – non è in contrasto con la tradizionale e tralatizia affermazione della giurisprudenza di legittimità secondo la quale il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta di pena concordata, non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’im­putato per una delle cause previste dall’art. 129 cod. proc. pen. né sull’insussistenza di ipotesi di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove perché si deve rapportare l’obbligo della motivazione all’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione in quanto, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (vds. da ultimo, Sez. 4, n. 52803 del 14/09/20 18, Bouachra, Rv. 274522).

La applicabilità del principio espresso dalla sentenza Piergotti impone l’ulteriore verifica correlata all’individuazione dei limiti di ricorribilità della sentenza emessa a seguito del concordato in appello in relazione al principio espresso da Sezioni Unite “Ricci” circa la generale ammissibilità della deduzione, mediante ricorso per cassazione, della prescrizione maturata antecedentemente alla pronuncia di appello. L’incidenza di questo principio, espresso anteriormente alla riforma del 2017, sulla questione in esame implica invero la risoluzione della preliminare questione riguardante le regole di ammissibilità del ricorso avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. ristretto ad alcuni limitati casi dal­l’orientamento espresso dalla sentenza Ferrarini o escluso dalle altre già citate (vds. paragrafo 4.3.).

Questi orientamenti non possono essere condivisi.

Il percorso ermeneutico individuato dall’indirizzo espresso dalla sentenza Ferrarini si correla ad una ratio desunta dalle speciali regole previste per il diverso rito di applicazione della pena su richiesta delle parti, nonostante sia patrimonio acquisito, in dottrina ed in giurisprudenza, anche costituzionale (v. Corte cost. sent. n. 448 del 1995), la differenza funzionale e strutturale tra i due istituti e l’assenza di simmetria tra sentenza ex art. 444 cod. proc. pen: e pronuncia ex art. 599-bis cod. proc. pen.

Il fondamento di una siffatta osmosi ermeneutica può essere individuato in una perdurante e generalizzante precomprensione del fenomeno processuale interpretato, di volta in volta emergente nelle decisioni di legittimità, che echeggia l’antica regola pacta sunt serranda secondo la specifica declinazione processuale per la quale il concordato processuale non può essere unilateralmente abbandonato attraverso la riproposizione, con il ricorso per cassazione, di questioni che con Io stesso concordato siano state rinunciate.

Ebbene, tale fondamento è certamente condivisibile in relazione alle questioni sulle quali si è verificata preclusione o intervenuto giudicato sostanziale, ma non coinvolge la prescrizione del reato che, come già detto, non può intendersi rinunciata per il solo fatto della proposizione dell’accordo, la cui valutazione è demandata al giudice del gravame.

Non ha, poi, fondamento la pretesa incidenza sul tema in esame della novella del 2017. A tal riguardo, la sentenza Ferrarini non tiene conto che, con la introduzione dell’istituto del concordato in appello – come per il previgente art. 599, comma 4, cod. proc. pen. e diversamente dall’istituto ex art. 444 cod. proc. pen. –, non è stato introdotto un regime speciale di ricorribilità della sentenza, scelta legislativa che fa ritenere immutato il relativo quadro sistematico. L’operazione ermeneutica volta a superare il regime generale di ricorribilità, estendendo i principi dall’uno all’altro istituto non è consentita per il principio di tassatività che governa i mezzi di impugnazione ed in relazione alla specialità del regime previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., che è di stretta interpretazione.

Non merita, infine, alcuna condivisione l’orientamento secondo il quale l’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen. esclude la ricorribilità della sentenza ex art. 599-bis cod. proc. pen.

L’argomentare assai stringato delle decisioni che sostengono tale orientamento si limita alla considerazione secondo «la quale l’art. 610 c.p. p., comma 5-bis cod. proc. pen., come riformulato dall’art. 1, comma 62 della legge 23 giugno 2017, n. 103, entrata in vigore il 3 agosto 2017, ha escluso la ricorribilità per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena concordata ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., limitando l’impugnazione al solo ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis cod. proc. pen.» (così, per tutte, Sez. 5, n. 54543 del 28/09/2018, Tornabene, non mass.).

La dottrina ha interpretato questo orientamento individuando in esso la condivisione di un’opinione minoritaria, espressa subito dopo l’entrata in vigore della riforma del 2017, che si incentra su un significato del tutto peculiare attribuito al terzo periodo dell’art. 610, comma 5-bis, c.p.p. per il quale “contro tale provvedimento è ammesso il ricorso straordinario a norma dell’articolo 625-bis”. Ritiene, quindi, che il legislatore con la locuzione “contro tale provvedimento” si sia riferito non alle pronunce di inam­missibilità rese de piano dalla Corte, elencate nei primi due periodi dell’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., ma alle sentenze di concordato in appello, le quali sono l’ultima categoria di decisioni richiamate nel secondo periodo della medesima disposizione.

Secondo altra prospettiva, la ratio dell’orientamento in parola potrebbe essere colta in base alla locuzione “allo stesso modo la Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso contro la sentenza di applicazione della pena e contro la sentenza pronunciata a norma dell’art. 599-bis”, interpretata quale esclusione tout court di ogni possibilità di ricorso nei confronti di tali tipologie di sentenze, “per definizione” ritenute non impugnabili.

Queste prospettive ermeneutiche che individuano, in base alla richiamata disposizione dell’art. 610, comma S-bis cod. proc. pen., una diretta ed indiscriminata previsione di inammissibilità del ricorso avverso la sentenza emessa a seguito di concordato in appello, non possono in alcun modo essere condivise, in quanto non tengono conto della univoca collocazione della disposizione in parola. Essa, invero, è posta nel contesto delle norme volte a disciplinare gli atti preliminari del procedimento in cassazione, fase per la quale è stabilito – secondo l’art. 610, comma 1, cod. proc. pen. – che il rilievo di una causa di inammissibilità del ricorso determina l’assegnazione di esso ad una apposita sezione per la decisione in camera di consiglio. Cosicché la disposizione dell’art. 610, comma 5-bis cod. proc. pen. individua i presupposti in presenza dei quali è prevista la procedura de piano per la trattazione del ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e quella pronunciata a norma dell’art. 599-bis del codice di rito. Pertanto, essa non riguarda i presupposti di ammissibilità dei rispettivi ricorsi: quelli relativi al cd. patteggiamento sono previsti nell’art. 448-bis cod. proc. pen. nel­l’ambito della disciplina del rito speciale, mentre nessuna novità – come si è detto – è stata introdotta per il concordato in appello. L’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen. accomuna, in rapporto all’indivi­duato contesto e finalità semplificativa, le due tipologie di sentenza in ragione della agevole rilevazione dei più ristretti casi di inammissibilità dei ricorsi conseguenti ai limiti di ricorribilità stabiliti per la sentenza di cd. patteggiamento dall’art. 448, comma 2-dis, cod. proc. pen. e della novazione riduttiva del devoluto per quella di concordato in appello.

In conclusione, anche dopo la riforma del 2017, esclusa l’introduzione di speciali limiti di ricorribilità in cassazione per la sentenza emessa a seguito di concordato in appello, può essere riaffermato con le parole di Sezioni Unite “Ricci” che «nessun dato positivo induce a ritenere che non possa censurarsi, con il ricorso per cassazione, l’errore del giudice di appello che ha omesso di dichiarare la già intervenuta prescrizione del reato, pur se non eccepita dalla parte interessata in quel grado. Il ricorso per cassazione, anche se strutturato su questo solo motivo, è certamente ammissibile, perché volto a fare valere l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. L’error in iudicando si concretizza proprio nella detta omissione, che si riverbera sul punto della sentenza concernente la punibilità. L’impugnazione mira ad emendare tale errore. L’ammissibilità del ricorso non è pregiudicata dal fatto che il ricorrente, con le conclusioni rassegnate in appello, non ha eccepito la prescrizione maturata nel corso di quel giudizio; né alcuna rilevanza preclusiva aII’ammissibiIità del­l’impugnazione può attribuirsi, in caso di prescrizione verificatasi addirittura prima della proposizione dell’appello, alla mancata deduzione di parte con i relativi motivi (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.). L’art. 129 cod. proc. pen. impone al giudice, come recita la rubrica, l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e a tale “obbligo” il giudice di merito non può sottrarsi e deve ex officio adottare il provvedimento consequenziale. Se a tanto non adempie, la sentenza di condanna emessa, in quanto viziata da palese violazione di Iegge, può essere fondatamente impugnata con atto certamente idoneo ad attivare il rapporto processuale del grado superiore, il che esclude la formazione del c.d. “giudicato sostanziale”».

Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: “nei confronti della sentenza resa al­l’esito di concordato in appello è proponibile il ricorso per cassazione con cui si deduca l’omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla pronuncia di tale sentenza”.

In applicazione del principio, nel caso sottoposto all’esame del Collegio, alla esclusione della recidiva doveva conseguire la rilevazione della intervenuta prescrizione del reato di tentata estorsione semplice, ai sensi degli artt. 157 e 161, comma 2, cod. pen., alla data del 22 maggio 2016 (compresi 131 gg. Di sospensione del termine in primo grado dal 3/7/2017 al 13/11/2017, non rilevando le ulteriori sospensioni verificatesi in appello a termine ormai spirato) con la declaratoria di estinzione del reato, ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen.

L’omessa rilevazione della prescrizione e la mancata declaratoria della estinzione del reato per tale causa, ritualmente dedotte dal ricorrente, conducono all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.

[Omissis]

Corte di cassazione, sez. un., 8 maggio 2023, n. 19415; Pres. Cassano – Rel. Andreazza

SOMMARIO:

1. Il fatto - 2. Il concordato in appello - 3. La questione controversa e la decisione delle Sezioni Unite - 4. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Il fatto

Con sentenza del 9 luglio 2018 il Tribunale di Agrigento ha affermato la penale responsabilità di M.F. in ordine al delitto di cui agli artt. 81, comma 2, 56 e 629 c.p., perché, in qualità di gestore subentrato nella conduzione di un esercizio commerciale, con atteggiamenti intimidatori minacciava di licenziamento i dipendenti qualora non avessero sottoscritto un contratto “a progetto” che, senza alcuna modifica dell’orario di lavoro, prevedeva una decurtazione dello stipendio e l’eliminazione delle mensilità aggiuntive, nel tentativo, non riuscito, di procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno, e, ritenuta la contestata recidiva, lo ha condannato alla pena di anni due, mesi dieci e giorni venti di reclusione ed euro 1.700,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali. L’imputato ha impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di appello di Palermo e all’udienza del 15 maggio 2020 ha presentato istanza di concordato, mediante la quale ha rinunciato ai motivi riguardanti la responsabilità e l’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, (ma non all’accogli­mento del motivo in ordine alla insussistenza della recidiva), indicando la pena finale in anni uno e mesi otto di reclusione ed euro 400 di multa con il consenso espresso dal Procuratore generale. La Corte territoriale ha emesso, quindi, sentenza in conformità all’accordo e, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha escluso l’aumento per la recidiva e rideterminato la pena inflitta all’imputato nella misura concordata. Avverso la sentenza di appello l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo, tra gli altri motivi, la violazione di legge in relazione agli artt. 161 c.p. e 129 c.p.p., con riferimento all’omessa declaratoria di prescrizione del reato, sulla base della circostanza che giudice di appello, avendo sostanzialmente escluso la recidiva reiterata e specifica, avesse omesso di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione. La Seconda Sezione della Corte di cassazione ravvisando un contrasto giurisprudenziale ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, con ordinanza n. 17439 del 14 aprile 2022, con la quale ha chiesto di chiarire se avverso la sentenza di concordato in appello ex art. 599-bis c.p.p. sia consentito proporre ricorso per Cassazione con il quale si deduca [continua ..]


2. Il concordato in appello

Prima di procedere con l’analisi della decisione delle Sezioni Unite, pare opportuno un breve excursus sulla disciplina del concordato sui motivi di appello. L’istituto in questione è stato oggetto di alterne vicende [1], prima di essere reintrodotto nel Codice di rito a distanza di quasi dieci anni dall’abrogazione [2], dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. Riforma Orlando). Si tratta di un negozio processuale sottoposto all’imprescindibile vaglio del giudice, che consente alle parti di accordarsi sull’accoglimento, totale o parziale, dei motivi di appello, con rinuncia agli eventuali altri motivi e con indicazione al giudice stesso della pena concordata, ove i motivi su cui verte l’accordo comportino una sua nuova determinazione [3]. La logica cui risponde il concordato sui motivi è rintracciabile nei principi di flessibilità e adeguatezza oltre che della semplificazione, nella misura in cui il consenso si traduce in adesione integrale o parziale alla ricostruzione del fatto attestata nella sentenza di primo grado, con individuazione dei punti non contestati o non controversi [4]. Il giudice non è, tuttavia, esonerato dal dovere di vagliare la fondatezza dei motivi rispetto ai quali vi è richiesta congiunta di accoglimento, poiché conserva, comunque, la titolarità in punto di commisurazione della pena, ben potendo decidere di non accogliere “l’accordo delle parti” [5]. L’art. 599-bis c.p.p. ripropone, in linea di massima, l’istituto con la medesima struttura di quello abrogato del 1988, aggiungendo, tuttavia, alcune preclusioni oggettive e soggettive; il comma 2 dell’art. 599-bis c.p.p. prevede, infatti, che l’istituto non possa essere applicato in presenza di reati particolarmente gravi, (tra i quali quelli di cui agli artt. art. 51, commi 3-bis e 3-quater, 600-bis, 600-ter, commi 1, 2, 3 e 5, 600-quater, comma 2, c.p.), o alle ipotesi di delinquenza abituale, professionale o per tendenza [6]. Una ulteriore novità rispetto alla formulazione previgente è costituita dalla previsione di linee guida; il comma 4 dell’art. 599-bis c.p.p., prevede, infatti, che il Procuratore generale presso la Corte di Appello detti i criteri per orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità [continua ..]


3. La questione controversa e la decisione delle Sezioni Unite

Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto giurisprudenziale sorto in merito possibilità di proporre ricorso per Cassazione avverso la sentenza di concordato in appello pronunciata a norma dell’art. 599-bis c.p.p., per dedurre l’intervenuta prescrizione in data anteriore a quella della decisione del giudice dell’impugnazione. Il Giudice delle leggi ha ripercorso le decisioni fondamentali che hanno caratterizzato la formazione del contrasto giurisprudenziale, alcune delle quali poste alla base del mancato riconoscimento della possibilità di far valere l’intervenuta prescrizione, maturata nelle more del giudizio in appello. Il primo degli orientamenti [9] riportati dalla pronuncia fa leva sulla nota sentenza “Piergotti [10], estendendo, così, quanto da questa previsto per il patteggiamento al concordato sui motivi in appello. Siffatta pronuncia ha escluso che, nel rito del “patteggiamento” regolato dagli artt. 444 e ss. c.p.p., la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato, o il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero possano, di per sé, valere come rinuncia, restando all’inverso prioritaria la verifica dell’insussi­stenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p., tra cui l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione. Tale verifica deve compiersi, infatti, indipendentemente dalla piattaforma negoziale e sulla base delle risultanze processuali. Ai fini del valido esercizio del diritto di rinuncia alla prescrizione, è sempre necessaria, quindi, la forma espressa, che non ammette equipollenti; né possono ammettersi regimi differenziati correlabili alle forme con le quali viene celebrato il giudizio, rivestendo la normativa sulla prescrizione carattere generale [11]. Secondo diverso orientamento [12], invece, a seguito della definizione concordata della pena in appello, non può essere dedotta l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima della pronuncia del giudice di appello o successivamente ad essa, poiché l’adesione dell’imputato al concordato costituisce una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, non più revocabile. Tale orientamento, inoltre, ritiene applicabile anche al concordato preventivo la previsione di cui all’art. 448 comma 2-bis, c.p.p. che prevede il ricorso [continua ..]


4. Considerazioni conclusive

Il concordato in appello è un istituto che ha subito vicende alterne nel corso del tempo, diventando uno degli argomenti di maggiore attenzione per la giurisprudenza e la dottrina. Nel caso sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, la questione ha coinvolto l’annoso tema della prescrizione del reato, ormai da tempo al centro di numerosi dibattiti. Disciplinata dall’art. 157 c.p., tale causa estintiva, nel valorizzare il decorrere del tempo dalla commissione del fatto criminoso [21], trova il suo tradizionale fondamento nel venir meno dell’interesse dello Stato alla punizione del reo dopo un determinato lasso di tempo, commisurato alla gravità del reato, e, di conseguenza, nella funzione di orientamento culturale del diritto penale oltre che nel finalismo rieducativo della pena [22] e mira a garantire la ragionevole durata [23] del processo. La celerità della giurisdizione [24] corrisponde, infatti, all’interesse pubblico all’efficienza e all’efficacia dello strumento processuale, come pure alle aspettative dei consociati [25]. Il trascorrere del tempo affievolisce, per talune tipologie di reati [26], l’allarme sociale che ne deriva; di conseguenza se per lo Stato non è più prioritario punire il reo, sarebbe contrario al precetto di cui all’art. 27, comma 3, Cost. proseguire l’accertamento giudiziario. Il colpevole, infatti, percepirebbe la punizione come un inutile accanirsi nei suoi confronti, posto che questa non troverebbe fondamento alcuno né nelle pretese dello Stato, né nell’allarme sociale, ormai venuti meno. A ciò deve aggiungersi che la pena, per effetto del passare del tempo dal giorno del fatto di reato, non sarebbe in grado di assolvere alla propria funzione, in quanto il destinatario non sarebbe nelle condizioni di comprenderne la ratio [27]. La sanzione, in quanto irragionevolmente tardiva, finirebbe per incidere su un soggetto sostanzialmente diverso dall’autore del fatto di reato, un individuo che potrebbe anche essere nuovamente e pienamente integrato nella società, producendo in tal modo un effetto de-socializzante esattamente antitetico rispetto alle finalità cui la sanzione penale dovrebbe tendere per imperativo costituzionale [28]. In questa prospettiva, il decorrere del tempo dovrebbe rimarginare, dunque, la “ferita” causata dal reato, attenuando [continua ..]


NOTE