Confezionato per soddisfare esigenze di prevenzione, il regime differenziato del ‘carcere duro’ viene scalfito, ancora una volta, dal Giudice delle leggi. Si elimina il “visto di censura” per le comunicazioni tra detenuti e internati sottoposti all’archetipo esecutivo e il proprio legale; decifrando problematiche rimaste insolute nel tempo, si ridona, così, dignità ai diritti alla libertà e segretezza della corrispondenza e (soprattutto) di difesa (artt. 15 e 24 Cost.), oltre che, in prospettiva più ampia, al valore del giusto processo (artt. 111 Cost. e 6 Cedu). V’è, nondimeno, da chiedersi se la scelta, aderente ai principi di umanizzazione e finalità rieducativa della sanzione collimi con l’esigenza, egualmente meritevole di protezione, integrante la certezza della pena, la tutela della collettività e l’impedimento del crimine.
Parole chiave: libertà e segretezza delle conversazioni o comunicazioni (tutela della) – diritto di difesa (salvaguardia del) – ordinamento penitenziario – regime differenziato ex art. 41 bis ord. Penit. – corrispondenza dei detenuti e degli internati con il difensore – declaratoria di illegittimità costituzionale del cd. “visto di corrispondenza”.
Tailored to meet the needs of prevention, the differentiated regime of the ‘hard prison’ is once again undermined by the Judge of Laws. The "censorship visa" for communications between prisoners and internees subjected to the executive archetype and their lawyers is eliminated; deciphering issues that had remained unresolved over time, dignity is thus restored to the rights to freedom and secrecy of correspondence and (above all) of defence (Articles 15 and 24 of the Constitution), as well as, in a broader perspective, to the value of due process (Articles 111 of the Constitution and 6 of the European Convention on Human Rights). There is, however, the question to be asked whether the choice, adhering to the principles of humanisation and re-educational purpose of the sanction collides with the need, equally deserving of protection, integrating the certainty of punishment, the protection of the community and the prevention of crime.
1. Storia di una norma in continua evoluzione - 2. La questione - 3. Le incertezze - 4. I precedenti - 5. … E alcuni punti fermi da cui avviare - 6. La pronuncia del giudice delle leggi - 7. I primi segnali di cedimento - 8. La Corte allarga le maglie del “carcere duro” - NOTE
L’ingresso, nel sistema penitenziario, dell’art. 41-bis si trascina polemiche, diatribe e un portato giurisprudenziale [1] e dottrinario di spessore [2]. Negli anni, neanche il Giudice delle leggi si è risparmiato tanto da rimodulare, sotto molteplici profili, il dettato legislativo [3]. Del resto, le pagine giudiziarie e le riflessioni degli interpreti, passate e più recenti, dimostrano che il carcere, non di rado, può diventare luogo di seguito di progetti criminali (già) solidi o di incubazione di nuove idee delittuose di natura organizzativa [4]. Pertanto, sulla base di tale constatazione, a poca distanza dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio e dagli attacchi dei clan della mafia allo Stato, di quell’annus horribilis, si introduce il regime detentivo speciale in parola con intenti strategici che paiono giustificarne, ancora oggi, il mantenimento [5]. Si consente, nel 1986, con la c.d. ‘legge Gozzini’, che abolisce le ‘carceri speciali’, al Ministro della giustizia (per sua iniziativa o su richiesta di quello dell’Interno) di sospendere, in via temporanea, nell’istituto penitenziario interessato, o in parte di esso, l’applicazione delle ordinarie regole di trattamento dei detenuti e/o internati – gli interventi incidono sulla sfera delle prerogative spettanti al recluso considerato “pericoloso” – quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica [6]: lo scopo è impedire che appartenenti ad architetture di stampo illecito continuino ad esercitare, dal carcere, il loro potere, a conservare le redini del comando ovvero governare l’efficienza complessiva dell’associazione di provenienza [7]. Pleonastico sottolinearlo, la persistenza dei vincoli con l’habitat criminale di origine non dovrebbe fondarsi su una mera presunzione legislativa, ma avere, piuttosto, un solido fondamento empirico, vale a dire risponda all’id quod plerumque accidit. Successivamente, viene emanato il d.l. 13 maggio 1991, n. 152 che, mediante l’art. 4-bis ord. penit., definisce le regole circa i benefici per gli appartenenti alla criminalità organizzata e il d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356) che, riscrivendo il comma 2 dell’art. 41-bis, introduce un regime detentivo differenziato in chiave di contrasto alle associazioni di stampo mafioso: si [continua ..]
Il 2 dicembre 2021, nel Palazzo della Consulta, si decide rispetto al giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), della l. 26 luglio, 1975, n. 354 («Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà») promosso, dalla Suprema corte, sezione I penale, con ordinanza del 21 maggio 2021 [26]. La norma non collimerebbe con gli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, comma 1, Cost. (quest’ultimo in riferimento all’art. 6 Cedu) nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime di cui al comma 2 e seguenti della medesima, la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori [27]. Scorgendo la vicenda, va segnalato che, dinanzi al giudice a quo, pende il ricorso proposto da un individuo, condannato, in primo grado, alla pena di venticinque anni di reclusione perché ritenuto esponente di vertice di un’associazione di stampo mafioso e detenuto, nel frattempo, in regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. La sezione remittente sottolinea come il Presidente del Trib. ordinario di Locri, con decreto del 12 maggio 2020, dispone il trattenimento di un telegramma indirizzato, dal ristretto, al proprio legale di fiducia al fine di predisporre, in tempo utile, un appello ulteriore rispetto a quello avanzato dal primo avvocato nominato. Con successiva ordinanza del 9 luglio 2020, l’organo giurisdizionale rigetta il reclamo, proposto dall’interessato, avverso tale decreto, ritenendo la sussistenza di un «pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, connesso all’ambiguità del contenuto della missiva, composta da una serie di periodi non legati da un filo logico in grado di rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza» [28]. Avverso tale ultimo provvedimento, costui avanza ricorso in Cassazione per lamentare l’illegittimità della motivazione con cui il tribunale conferma il trattenimento. Nondimeno, il Supremo collegio dubita della compatibilità, con i suesposti parametri costituzionali, dell’art. 41-bis, comma 2-quater: laddove non esclude le lettere dirette all’avvocato dal novero di quelle sottoposte al visto di censura. Detta perplessità, si osserva, impedisce «di procedere al vaglio della legittimità della motivazione del [continua ..]
Si delucida, in primis, sul nodo gordiano mai sciolto dal legislatore: il rapporto intercorrente tra la previsione che impone il visto di censura per corrispondenza dei detenuti e degli internati assoggettati al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. e le regole circa la verifica delle interazioni epistolari applicabile alla generalità dei ristretti contenuta, tutt’ora, nell’art. 18-ter ord. penit. [33]. In assenza di chiarimenti circa tale problematica, per la Corte costituzionale, sarebbe insorta una duplice perplessità su cui è opportuno discorrere preliminarmente. Bisogna stabilire se, in base all’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), ord. penit., la sottoposizione a visto di censura delle missive – misura che, malgrado la differente denominazione, di fatto, coincide con quella menzionata nell’art. 18-ter, comma 1, lett. b), ord. penit., del c.d. «controllo di corrispondenza» – possa e, anzi, debba – a seguito del cambiamento apportato alla norma censurata dalla l. n. 94/2009 – essere disposta direttamente dal Ministro della giustizia nel provvedimento che statuisce sul regime differenziato, oppure continui ad essere previsto in quello dell’autorità giudiziaria ritenuta competente ex art. 18-ter, comma 3, ord. penit. La giurisprudenza di legittimità, si spiega, attingendo alla esegesi in chiave costituzionale caldeggiata dal Giudice delle leggi [34], sembra declinare in quest’ultimo senso: si ritiene che la libertà di corrispondenza dei detenuti in regime speciale può essere limitata, in virtù di quanto stabilito dall’art. 15 Cost., solo mediante un provvedimento di natura giurisdizionale specificamente motivato in ordine alla sussistenza dei requisiti di cui ai commi 1-4 dell’art. 18-ter ord. penit. come innovato dalla l. n. 95/2004 [35]. Dalla prassi si evince, pertanto, che, in linea di principio, l’art. 18-ter, comma 3, ord. penit., si applica nei confronti dei detenuti e degli internati sottoposti al regime penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit. Per la soluzione a proposito della legittimità di tale ultimo disposto, nondimeno, va risolto un duplice quesito: per un verso, se anche rispetto a tutti i reclusi secondo l’archetipo differenziato valga il divieto – congelato nell’art. 18-ter, comma 2, ord. penit. – di disporre [continua ..]
Superate, a livello interpretativo, le criticità, il Giudice delle leggi sintetizza le argomentazioni addotte dal rimettente: l’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. penit., poiché esclude espressamente, dalla sottoposizione a visto di censura, solo le lettere che intercorrono «con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia», si collocherebbe in un rapporto di species a genus sia riguardo al comma 2 dell’art. 18-ter ord. penit., sia all’art. 103, comma 6, c.p.p. In difetto di abbrivi puntuali e consolidati della giurisprudenza di legittimità in senso opposto, idonei ad assurgere a diritto vivente, l’ermeneusi posta a fondamento dell’ordinanza della Cassazione appare, per la Corte, «non solo plausibile, ma anche – a ben guardare – come la più conforme al dato letterale della disposizione censurata». Essa, in ordine ai detenuti e agli internati al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. (e senza discernere tra condannati in via definitiva e imputati in custodia cautelare), prevede come misura ordinaria il “visto di censura” della corrispondenza, elencando, in maniera apparentemente tassativa, le ipotesi di comunicazioni epistolari sottratte allo stesso, in deroga, dunque, alle altre norme che sanciscono divieti di controllo delle missive rivolte ad un più ampio novero di soggetti “qualificati” per la generalità dei detenuti o internati (art. 18-ter ord. penit.), ovvero per quella degli imputati (art. 103, comma 6, c.p.p.). Ecco che ne discende l’ammissibilità delle questioni prospettate dal giudice rimettente il quale – almeno in via implicita – confuta la possibilità di una lettura aderente alla Costituzione della disposizione “aggredita” [40], argomentando in prospettiva del suo dato positivo che rappresenta il naturale limite del dovere dell’organo decidente di interpretare la legge in conformità all’impianto sovraordinato [41]. Elemento, quello testuale, peraltro, sulla cui base – nonostante le contrarie indicazioni contenute nella circolare del DAP poc’anzi rammentata – si provvede all’estensione del visto di censura alla corrispondenza con i difensori nella vicenda oggetto del giudizio a quo [42]. Per conseguenza, ne deriva anche la fondatezza del [continua ..]
La Corte costituzionale incalza rispetto ad alcuni principi cristallizzati nel tempo. Il visto di censura per le missive verso il (e dal) proprio difensore, discendente dall’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. penit., rappresenta un vistoso confine del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.): la procedura di controllo implica l’apertura delle epistole, da parte dell’autorità giudiziaria o dell’amministrazione penitenziaria delegata, la loro lettura integrale e l’eventuale trattenimento, vale a dire la non consegna al destinatario (a seconda dei casi, il difensore o recluso). L’iter determina, ad ogni buon conto, oltre ad un rallentamento nella consegna della corrispondenza, il venir meno della sua segretezza e, a seconda delle situazioni concrete, l’impedimento radicale della comunicazione sulla base del giudizio discrezionale dell’autorità che esercita la verifica. La giurisprudenza costituzionale, peraltro, ritiene che la libertà e segretezza di colloquiare con il legale non sia assoluto, ma destinato a possibili bilanciamenti con altri interessi di pari rango, entro i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità: sempre che non risulti compromessa l’effettività del diritto alla difesa [54]. Gli sbarramenti ai diritti fondamentali dei detenuti o internati incasellati nell’art. 41-bis ord. penit., assai più onerosi di quelli imposti, di solito, ai detenuti e internati “comuni”, per il Giudice delle leggi, poi, sono legittimi solo in quanto appaiano funzionali rispetto alla peculiare finalità del regime differenziato in parola. Non mirano ad assicurare un eccesso di punizione per gli autori di reati di peculiare gravità, bensì a contenere, in linea generale, la persistente pericolosità di singoli detenuti «(…) impedendo i collegamenti dei [reclusi] appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà» [55]. A cascata, 1) non devono risultare asimmetrici in quanto eccessivi rispetto a tale scopo legittimo; 2) non possono essere irragionevolmente gravose rispetto ai valori dei quali restano titolari anche le persone sottoposte al “carcere duro”; 3) non devono vanificare, del tutto, la funzione rieducativa della pena; 4) ancora, è fatto divieto si risolvano in [continua ..]
La Corte perviene alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. penit. sulla scorta di una serie di argomentazioni che meritano di essere approfondite, innanzitutto perché consacrano la centralità del diritto di difesa nell’attuale modello processuale; «infine, perché evidenziano il ritardo con il quale si pone rimedio ad un deficit di costituzionalità da tempo annunciato» [58]. I Giudici della Consulta, nel decidere, tornano (proprio) sugli epiloghi già proferiti quanto al numero risicato di colloqui settimanali imposto con il legale dei detenuti e internati in regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit. [59]. Anche nell’evenienza, si tratta di trovare un difficile compromesso tra “carcere duro” e diritti fondamentali dei detenuti. Ora, come accade per la totalità delle misure enucleate dall’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. penit., pure il visto di censura della corrispondenza inserito nella lett. e) tende, di fondo, a schivare il pericolo che i reclusi al “carcere duro” possano continuare ad intrattenere relazioni con l’organizzazione criminale di provenienza, nonché a svolgere ancora un ruolo attivo all’interno della stessa, soprattutto «impartendo o ricevendo ordini o istruzioni rivolti, o provenienti da altri membri del solidalizio». Allo stesso modo, da questo punto di osservazione, non è possibile escludere, con certezza, che tali direttive possano essere veicolate con l’intermediazione dell’avvocato; sicché, l’estensione ai colloqui con i legali del “visto di censura” potrebbe, in astratto, ritenersi misura funzionale a ridurre il rischio di un siffatto evento. Ma, secondo i Giudici della Consulta, il comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. penit., se letto in combinato con le altre misure contemplate da quest’ultima norma, si mostra del tutto inidoneo quanto a tale obiettivo dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e ristretti potrebbe, comunque, avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il legale in quantità illimitata e sul contenuto dei quali non può essere operato alcun controllo. A questo va aggiunto che la misura in disamina – che grava sul diritto di difesa del detenuto o internato in maniera ancora più gravosa se [continua ..]
Il regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit., indeformabile nell’assetto primigenio, viene, in gran parte, scalfito nel tempo. Tuttavia, il percorso si presenta accidentato: si registrano altalenanze che denotano, talvolta, una certa elasticità, talaltra, chiusure per il detenuto o l’internato. Ciò, soprattutto lungo il crinale della giurisprudenza che, a più livelli e nel suo tratto evolutivo, si mostra, in numerose ipotesi, parecchio restrittiva, lasciando un ridotto margine di apprezzamento quanto all’ermeneusi della previsione in oggetto; altre volte, sembra ammettere una maggiore ampiezza esegetica, dettando regole flessibili [62]. Atteso il nebuloso quadro appena descritto, tuttora rimane da domandarsi, in ordine alla forte compressione dei diritti dei soggetti obbligati a tale regime, se l’attuale articolato normativo sia conforme ai principi di umanizzazione e finalità rieducativa. Tentando qualche esempio – la sede non permette troppe divagazioni – va detto che l’approccio del Giudice delle leggi è proiettato, in linea di massima, ad allargare le maglie, strette, del meccanismo differenziato di carcerazione [63]: si riscontrano diverse pronunce tese a ripristinare una proporzione tra le esigenze di prevenzione che si pongono alla base della tipologia restrittiva [64] e la salvaguardia di diritti fondamentali del singolo da onorare a prescindere dallo stato di recluso di questi, pure nella modalità più gravosa di cui si parla. Si comincia nel 2013 quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ultimo periodo, ord. penit. (come mutato dall’art. 2, comma 25, lett. f), n. 2, l. n. 94/2009), limitatamente alle parole «con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari» [65]. Si ricompone il palese attrito della previsione con gli assetti sovraordinati schiacciati, in maniera automatica ed indefettibile, dall’essere ristretti al 41-bis ord. penit.: i detenuti e gli internati al ‘carcere duro’ sono pregiudicati nella possibilità di allestire, con efficacia, la propria linea difensiva dal momento che costoro hanno, di regola, esigenze maggiori rispetto ai reclusi ‘comuni’ in ragione del [continua ..]
Il format detentivo previsto dall’art. 41-bis ord. penit., dopo innumerevoli anni di vigenza e (quasi) altrettanti di stabilizzazione, rappresenta un istituto ampiamente ‘collaudato’ e ‘metabolizzato’ dal sistema, ma continua a destare perplessità tra gli interpreti, gli operatori interni e gli osservatori sovranazionali che assumono, tutti, spesso, posizioni distoniche. D’altra parte, una buona porzione della disciplina di settore si pone in radicale contrasto con le regole di rango superiore e la giurisprudenza, solo in alcuni casi, riesce a raggiungere indicatori di tutela maggiori di quelli imposti. È ben vero che ‘nemo ad factum precise cogi potest’, ma, lo è altrettanto il fatto che non ci si può muovere più ad libitum: si rendono indispensabili, seguendo puntuali obblighi di facere, un ripensamento dell’istituto ab imis e nuovi equilibri, idonei ad abortire la capacità del criminale di mantenere in piedi, dentro gli istituti penitenziari, il trait-d’union con le consorterie malavitose, di mettere al centro della riflessione le metastasi ordinamentali che non decantano i diritti inviolabili del recluso, scansare il puntiglioso furore della punizione che acceca il legislatore soprattutto nelle situazioni emergenziali. Lo scenario odierno, tuttavia, con il suo decalogo di (buone) intenzioni, soft law, che serve a divaricare la forbice tra apparenza e sostanza, non sembra incline a questo epilogo: nemmeno se la mission fosse affidata ad un gruppo di lavoro impegnato nello specifico compito (e simile asserzione non sembra temere smentita). Non ci si deve meravigliare che la pronuncia in rassegna funga da cerniera rispetto ad una delle principali questioni, rimaste ancora insolute, in materia [100]: il perimetro entro il quale il detenuto (o l’internato) al 41-bis, ord. penit. possa interloquire, per iscritto, con il proprio legale di fiducia [101]. Crolla, dunque, con la sentenza, un’altra zolla del ‘carcere duro’ per i mafiosi considerato il suo intuibile attrito con le fonti sovraordinate e internazionali [102]. Sulle note di essa, si attestano anche le ultime considerazioni della dottrina sull’istituto e le sentenze della giurisprudenza di recente emissione [103]. Senza tradire le aspettative e appoggiandosi su solide direttrici [104], il Giudice delle leggi, con un ragionamento privo di [continua ..]