Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Il carcere «duro»: una condanna alla solitudine (di Matteo Rampioni, Dottore di ricerca in procedura penale – Università degli studi di Roma “Tor Vergata”)


Scopo del lavoro è quello di evidenziare, non solo, come il diritto all’affettività sia essenzialmente precluso ai detenuti in regime di massimo rigore ma, in termini più generali, come i provvedimenti adottati dall’amministrazione penitenziaria durante il carcere duro rischiano di non essere proporzionati alle reali esigenze di tutela pubblicistica.

Maximum security detention: a condemnation of loneliness

Aim of the work is to highlight, not only that the right to affectivity and sexuality is essentially foreclosed to prisoners in strict regime; but also, in more general terms, how the measures taken by the prison administration are often not proportionate to the real public protection needs.

Keywords: hard prison – special cell regime – jail conditions – proportionality

SOMMARIO:

1. La questione - 2. Carcere «duro» e la sua evoluzione. Cenni - 3. Rieducazione e riconoscimento dei diritti intramurari. Il ruolo della Corte costituzionale - 4. Diritto all’affettività-sessualità e carcere: un rapporto difficile - 5. La “proporzionalità”: un canone indispensabile - NOTE


1. La questione

Le riflessioni esposte di seguito traggono spunto, per poi svilupparsi in un’area più ampia, da un tema affrontato in un provvedimento giudiziario. Con ordinanza del 2 ottobre 2020 il Tribunale di Sorveglianza di Roma, accogliendo il reclamo presentato da un condannato in regime di 41-bis, concede (contro tale decisone il DAP ha presentato ricorso per Cassazione) la possibilità di abbonarsi a riviste pornografiche in libera vendita. Sono due i passaggi fondamentali della pronuncia. Il primo è quello relativo al principio di “proporzionalità” quale strumento che «–nelle accezioni di idoneità, necessarietà e adeguatezza del mezzo rispetto al fine – delimita il binario dei rapporti tra amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza in tema di tutela della dignità umana e dei valori costituzionali della persona sottoposta al regime detentivo». Il secondo concerne, invece, il corretto inquadramento della richiesta dell’istante. Secondo il Tribunale di Sorveglianza infatti «la pretesa del detenuto non è riconducibile alla tutela del diritto all’informazione, non essendo la stessa correlata alla ricezione di materiale pornografico per corrispondenza», ma, da un lato, rica­drebbe nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost; dall’altro, si iscriverebbe nel complesso tema della tutela dell’affettività in carcere su cui più volte si è pronunciata la CEDU «nel riconoscere ai detenuti, con possibili limitazioni, il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare sancito da l’art. 8 della Convenzione». Si tratta di un episodio giudiziario che, oltre a mettere l’accento su un tema ancora sottovalutato del­l’ordinamento penitenziario (il diritto all’affettività e alla sessualità del detenuto), evidenzia «come spesso sia lungo e tortuoso il percorso procedurale per il riconoscimento dei diritti del carcerato di rigore» [1].


2. Carcere «duro» e la sua evoluzione. Cenni

Il regime detentivo speciale si colloca nell’ambito di una normativa varata allo scopo di opporre un’azione di contrasto alla criminalità organizzata mediante la drastica riduzione di contatto tra i detenuti e l’esterno, e tra gli stessi internati [2]. L’istituto viene introdotto nell’ordinamento italiano con la Legge n. 354 del 1975 dove all’art. 90 o.p. si stabilisce: «Il ministero ha facoltà di sospendere le regole di trattamento e gli istituti previsti dalla legge nell’ordinamento penitenziario, in uno o più stabilimenti e per un periodo determinato, strettamente necessario, quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza». Sebbene la riforma del 1975 evochi il reinserimento del reo quale principale strumento di difesa sociale [3], l’art. 90 o.p. evidenzia come, in realtà, l’esigenza di tutela della collettività prevalga sul trattamento rieducativo del detenuto [4]. Non a caso, la norma non differenzia le diverse posizioni soggettive, consentendo all’amministra­zione penitenziaria di utilizzare il carcere duro anche quando non ve n’è l’esigenza [5]. «Da strumento repressivo di un’insorgenza eccezionale, l’art. 90 o.p. diviene mezzo preventivo per isolare dal circuito carcerario normale i soggetti più pericolosi [6]». Con la Legge n. 663 del 1986 (la c.d. «Legge Gozzini») l’art. 90 o.p. viene abrogato e sostituito da l’art. 41-bis o.p. [7]. Ispirandosi maggiormente ai principi stabiliti dall’art. 1, comma 3, o.p. [8], la novella pretende una maggiore individualizzazione delle scelte penitenziarie, tanto di quelle che presuppongono l’ap­plicazione di regimi particolari o speciali, quanto di quelle volte a definire scelte alternative alla detenzione [9]. All’indomani delle stragi mafiose dei primi anni novanta (su tutte, quelle di Capaci e di via D’Ame­lio in cui perdono la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) viene emanato il Decreto Legge n. 306 del 1992 che, da un lato, introduce l’art. 41-bis, comma 2, o.p. [10] (norma che concede la facoltà per il Ministero di Grazia Giustizia di sospendere le normali regole di trattamento, sia per i detenuti in esecuzione che per quelli in custodia cautelare, nei casi di contrasto con le esigenze di [continua ..]


3. Rieducazione e riconoscimento dei diritti intramurari. Il ruolo della Corte costituzionale

Come è noto, l’art. 27, comma 3, Cost., stabilendo che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», esprime chiaramente l’idea di umanizzazione della pena [23]. Sebbene la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, nel fissarne i principi direttivi, immediatamente si riferisce ai concetti di rieducazione e risocializzazione [24], l’attività legislativa del tempo, nonostante anche le prime pronunce della Corte edu sul tema [25], si concentra esclusivamente sul profilo delle misure alternative alla detenzione, tralasciando completamente i temi inerenti la titolarità e l’esercizio dei diritti riconosciuti al recluso [26]. Le ragioni sono essenzialmente due. Innanzitutto, rileva il contesto generale di riferimento. Si ricorda, infatti, che a partire dal 1975 prende avvio la produzione normativa denominata “legislazione di emergenza”; per cui, di fronte al dilagare della criminalità politica e comune, e al conseguente allarme sociale che va diffondendosi nella popolazione, lo Stato cerca di porre un argine mettendo in atto la tradizionale risposta in chiave repressiva [27]. Poi, come sostiene autorevole dottrina [28], permangono i dubbi circa la reale funzione rieducativa della pena sia a causa sia dell’arretratezza delle strutture carcerarie, sia, dell’immobilismo dell’ammini­strazione giudiziaria; la qual cosa rende il nostro sistema penitenziario «pressocché impermeabile a quell’euforia per il trattamento che si andava diffondendo altrove» [29]. L’esigenza di garantire una tutela effettiva ai diritti individuali dei detenuti si manifesta solo a seguito del consolidamento del cd. “doppio binario penitenziario”, per effetto del quale ricevono legittimazione moduli trattamentali diversificati in relazione al tipo di reato commesso dal detenuto medesimo [30]. Da questo momento in poi, attraverso i costanti interventi della Corte costituzionale, si cerca di individuare uno “zoccolo duro” di diritti, che neppure il carcere di massimo rigore [31] può comprimere [32]. La svolta arriva nel 1990. Con una sorta di sentenza “pilota” (sentenza 26 giugno 1990, n. 313), la Consulta assume una posizione del tutto nuova, stabilendo che: innanzitutto, [continua ..]


4. Diritto all’affettività-sessualità e carcere: un rapporto difficile

Alla luce del quadro sopra delineato, emerge che l’esecuzione della pena deve essere tale da non produrre, nelle sue modalità, un peggior castigo di quello già subito dal detenuto per effetto della reclusione, ma deve consentire tutti quei trattamenti che appaiono più idonei al recupero sociale del reo [39]. Infatti, se è vero che il concetto di privazione è connaturato a quello di pena, è anche vero che la perdita di libertà, conseguente allo status detentionis non deve (o dovrebbe) pregiudicare alcuna esigenza fondamentale dell’uomo, come ad esempio quelle concernenti lo sviluppo della propria sfera affettivo-sessuale. Nonostante a livello di principio l’ordinamento tuteli il diritto all’affettività-sessualità, numerosi sono gli ostacoli alla sua completa fruizione. Le difficoltà aumentano peraltro nella misura in cui si va restringendo il campo dell’affettività fino a concentrarsi sulla dimensione della sessualità [40]. Con l’espressione diritto all’affettività-sessualità ci si riferisce alla necessità di garantire al detenuto, da un lato, la possibilità di coltivare relazioni affettive [41] significative con il proprio nucleo familiare (ritenute essenziali per poter perseguire l’obiettivo del reinserimento sociale del detenuto [42]); dall’altro, la necessità di individuare meccanismi adeguati per la vita più propriamente erotico e sessuale. Il diritto in questione trova riconoscimento sia a livello costituzionale, che sovranazionale. In Costituzione trova affermazione, in primo luogo, nell’art. 2 Cost., essendo l’affettività e la sessualità elementi costitutivi di ciascun individuo; poi, nell’art. 13, comma 1, Cost., che, come è noto, da un lato, esprime l’idea della libera disponibilità del proprio corpo (dunque, anche, ai fini affettivi e sessuali) e, dall’altro, è norma funzionale ad arginare gli eventuali abusi dell’Autorità; poi, può ricondursi agli artt. 29 e 31 Cost. posti a tutela dei rapporti familiari; infine, nell’art. 32, commi 1 e 2, Cost., posto a garanzia del diritto alla salute individuale. Sul piano sovranazionale rilevano, sotto il profilo del divieto dei trattamenti inumani e degradanti: l’art. 3 C.e.d.u; l’art. 5 della [continua ..]


5. La “proporzionalità”: un canone indispensabile

Come anticipato in apertura, l’importanza del provvedimento emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Roma non risiede solo nell’aver posto l’accento su un tema ancora poco esplorato; esso rileva, soprattutto, poiché individua uno dei grandi problemi della realtà carceraria: l’assenza di proporzionalità e di ragionevolezza delle misure imposte dall’amministrazione penitenziaria nei confronti dei detenuti sottoposti al regime di massima sicurezza. Nel caso di specie la direzione della Casa circondariale vieta l’acquisto (a spese del detenuto) di riviste per adulti in libera vendita, addirittura ritenendole «non essenziali per l’equilibrio psico-fisico della sfera sessuale della persona», e capaci di «veicolare messaggi ed annunci criptici provenienti dall’esterno» (pur essendo obbligatorio il visto di controllo di qualunque pubblicazione acquistata all’esterno funzionale ad evitare la veicolazione di testi diversi dalle immagini e/o idonei a trasmettere messaggi al detenuto) [57]. Tale atteggiamento denota, non solo, una generale tendenza delle amministrazioni ad anteporre le finalità di tutela (dell’ordine interno e della sicurezza esterna) rispetto ai diritti soggettivi degli internati, spesso anche in assenza di un nesso che giustifichi l’adozione della misura; ma fa riflettere pure sui limiti discendenti dalla rigida elencazione delle misure sospensive di cui all’art. 41-bis o.p. La norma rende l’Amministrazione penitenziaria di uno scarso potere di variare l’ambito restrittivo dei limiti, impedendole di poter modulare il grado delle misure imposte dal legislatore. Ciò comporta «che, anche qualora, in un caso concreto, taluna delle predette misure restrittive si rilevasse inadeguata, imponendo al detenuto un sacrificio sovrabbondante, l’Amministrazione dovrebbe comunque adottarla, poiché il fine pubblico perseguito con l’adozione del regime differenziato non può essere obliterato» [58]. Così facendosi rischia di fare enormi passi indietro sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali, segnando un ritorno ad un sistema carcerario rivolto alla segregazione e alla mortificazione fisica [59]. È per tali ragioni che la stessa Corte costituzionale [60] evidenzia l’opportunità per il legislatore di percorrere una strada [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2021