Il diritto al silenzio, pur corrispondendo a un principio ben radicato nel nostro processo penale, sta vivendo attualmente una nuova stagione evolutiva. Il merito è di una recente pronuncia della Corte di giustizia che, su impulso della Corte costituzionale, ne ha esteso la portata all’intero spettro della c.d. materia penale. Ebbene, proprio questa decisione offre l’occasione per condurre una riflessione critica su alcuni istituti del nostro processo penale che, anche alla luce di esperienze di altri ordinamenti, collidono con la protezione del nemo tenetur se detegere.
The right to silence, although being a long-term established principle in our criminal process, is currently going through a new evolutionary stage, as a result of a recent ruling of the European Court of Justice. The new judgment, delivered on instigation of the Constitutional Court, has extended the scope of the right to silence to the whole “criminal law” area. Indeed, this decision offers the opportunity to carry out a critical analysis of certain institutes of our criminal process which, also in the light of other systems’ practices, conflict with the protection of the nemo tenetur se detegere principle.
Keywords: right to silence – digital evidence – cryptography – unlawful detention
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Il diritto al silenzio dell’indagato appartiene senza dubbio al patrimonio genetico del nostro processo penale, anzitutto quale espressione della libertà di autodeterminazione dell’individuo e della dignità umana, nonché come «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa» [1], ex art. 24 Cost., e della presunzione di non colpevolezza, ex art. 27, comma 2, Cost. [2]. Eppure, il suo nucleo centrale, declinato quale condotta di non collaborazione con l’autorità giudiziaria [3] – che si esprime, tra l’altro, nella facoltà di non rispondere alle domande degli inquirenti – continua ad attrarre l’interesse degli interpreti, inclini a salvaguardare al massimo il diritto in questione a livello sistematico. È un percorso non sempre lineare – soprattutto se si muove dall’angolo prospettico della Corte di Strasburgo [4] – che oggi vede tra i suoi protagonisti, da un lato, i giudici di merito chiamati ad applicare la normativa anti-COVID in tema di autocertificazioni [5] e, dall’altro, la Corte di Giustizia e la nostra Corte costituzionale. A questi ultimi due organi, in particolare, va il merito di avere svolto il ruolo di volano per una “fuga in avanti” del diritto al silenzio verso la “materia penale”, stimolando un’analisi incentrata su due interrogativi. È da domandarsi, in primo luogo, se l’osmosi tra procedimento “amministrativo” e processo penale, con il conseguente travaso di atti dall’uno all’altro – fenomeno al quale il sistema sembra ormai essersi assuefatto – non necessiti di un ripensamento da parte del legislatore. In secondo luogo, se il fronte di tutela del nemo tenetur se detegere possa dirsi davvero compiuto o, invece, appaia ancora meritevole di sviluppi [6], soprattutto in ambiti dove l’evoluzione tecnologica, unitamente alla carenza di regolamentazione normativa, rende più elevato il rischio di un aggiramento delle garanzie. Ciò senza trascurare territori di “confine”, come il procedimento di riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p., nel quale l’attività interpretativa della giurisprudenza ha finito per penalizzare l’indagato che abbia scelto di avvalersi del diritto al silenzio, considerando quest’ultimo alla [continua ..]
La “fuga in avanti” alla quale si accennava è merito del dialogo a distanza, avviatosi sotto la spinta propulsiva della Corte costituzionale [7], e sostanziatosi in una sentenza della Corte di Giustizia dello scorso febbraio [8] che non ha mancato di propagare i suoi effetti sul piano interno. La Corte costituzionale [9], infatti, dopo appena due mesi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB o alla Banca d’Italia «risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato». Nella pronuncia europea, ma prima ancora nell’ordinanza di rimessione della Corte costituzionale, possono essere individuate due direttrici fondamentali: una, di rilevanza più processuale, collegata al contenuto del diritto al silenzio dell’imputato; l’altra, di natura sostanziale, ma non priva di risvolti processuali, relativa all’estensione del nemo tenetur se detegere ad ogni procedura che possa concludersi con l’irrogazione di una sanzione amministrativa a carattere punitivo, secondo i noti criteri “Engel” [10], o condurre all’apertura di un procedimento penale in senso stretto sui medesimi fatti. Tema, quello della portata del diritto al silenzio, col quale la Corte costituzionale si è qui confrontata per la prima volta, pur nell’ambito di un già ampio percorso teso ad estendere alcune fondamentali garanzie penali ai procedimenti amministrativi di natura “punitiva” [11]. Entrambe le direttrici finiscono quindi per convergere armonicamente in una prospettiva di massima espansione del valore coinvolto al di là dei confini del procedimento penale stricto sensu: nella specie si trattava dell’audizione dinanzi alla Consob, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, per la condotta di abuso di informazioni privilegiate. Prima di addentrarci sul sistema interno, può essere utile soffermarsi su alcuni passaggi della sentenza della Corte di Giustizia che assumono un particolare rilievo per la messa a fuoco, in una dimensione “multilivello”, del contenuto e del perimetro applicativo del diritto al silenzio: diritto [continua ..]
Prendendo spunto dall’ultima riflessione della Corte, per affrontare il tema delle “interferenze” tra procedimenti il punto di osservazione non può che essere rappresentato dall’art. 220 disp. att. c.p.p., norma che ammette il travaso in ambito penale della prova derivante da attività “ispettiva e di vigilanza”, purché, laddove siano emersi indizi di reato, siano state rispettate le garanzie previste dal codice di rito [28]. A segnare la linea di confine rispetto al diritto al silenzio è pertanto il momento dell’emersione di “indizi di reato”, locuzione di non agevole decodificazione che, secondo la giurisprudenza [29], deve intendersi non quale insorgenza di una prova indiretta ex art. 192 c.p.p., ma come mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui ciò avvenga. È innegabile che si tratti di un accertamento in fatto non sempre agevole, soprattutto in ambiti, come quello del diritto tributario, costellati da obblighi di collaborazione gravanti sul contribuente [30], le cui dichiarazioni «possono in concreto fornire all’autorità stessa (e poi al pubblico ministero) informazioni essenziali in vista dell’acquisizione di ulteriori elementi di prova della condotta illecita, destinati poi a essere utilizzati nel successivo processo penale contro l’autore della condotta, e possono pertanto contribuire, almeno indirettamente, a determinare la sua futura responsabilità penale» [31]. In particolare, potrebbe accadere che nell’ambito di una verifica fiscale disposta dall’amministrazione non emergano nell’immediato elementi indicativi del superamento di una certa soglia di evasione, tali da configurare gli estremi di un reato. In alcune situazioni, infatti, solo dopo l’avvenuta acquisizione di documenti o di informazioni, in virtù della collaborazione “quasi necessitata” del contribuente – pena la successiva impossibilità di far valere il documento a proprio favore – potrà configurarsi una condotta di evasione [32]. Quanto detto trova un riscontro nell’elaborazione giurisprudenziale, laddove [33] si è affermata l’utilizzabilità nel processo penale di elementi acquisiti in sede di verifica fiscale, pur [continua ..]
Sul versante del processo penale, un terreno sul quale non di rado possono verificarsi tensioni con il principio del nemo tenetur se detegere è quello delle nuove tecnologie, che ormai hanno assunto un peso preponderante soprattutto nella fase delle indagini preliminari [51]. Basti pensare ai dubbi legati all’applicazione di concetti nuovi, quale quello di “identità digitale”, ad istituti tradizionali, come l’identità “fisica o anagrafica”. Se dovessimo ritenere di iscrivere il nickname o l’avatar di chi svolge attività in rete alla categoria delle informazioni relative alle “generalità” dell’indagato e a quant’altro possa “valere a identificarlo”, ai sensi dell’art. 66, comma 1, c.p.p., il soggetto coinvolto non potrebbe opporre il diritto al silenzio [52]. Opzione difficilmente percorribile se si pensa alle conseguenze di queste rivelazioni nel caso in cui si stia procedendo per reati commessi mediante mezzi informatici: la risposta sul punto pertanto dev’essere negativa. Ma le problematiche non si esauriscono qui e molte di queste sono connesse allo sviluppo della crittografia, tecnica connotata da una duplice valenza: da un lato, strumento per tutelare la sicurezza digitale; dall’altro, potenziale ostacolo, insieme alla steganografia, allo svolgimento dell’attività investigativa [53]. Dalla prospettiva degli inquirenti, pertanto, la collaborazione dell’indagato [54] mediante la rivelazione delle proprie credenziali di accesso al sistema informatico può diventare un elemento di centrale importanza. In questo contesto, diventa rilevante [55] definire quale sia il contenuto degli avvisi che gli ufficiali di polizia giudiziaria dovrebbero rendere all’indagato nelle ipotesi di perquisizione e successivo sequestro dei dispositivi elettronici protetti da chiavi di crittografia o da password [56]. L’incertezza deriva da una certa nebulosità della normativa, la quale prevede per l’indagato sottoposto a perquisizione, ex art. 352 c.p.p., soltanto l’avviso della facoltà di nominare un difensore di fiducia (artt. 356 c.p.p., 114 disp. att. c.p.p.). Ferma restando la possibilità per gli operatori di superare eventuali ostacoli di natura informatica ex art. 352, comma 1 bis, c.p.p. [57] – operazione resa tuttavia sempre [continua ..]
Un ulteriore ambito nel quale si profila il rischio di un aggiramento del nemo tenetur, è quello relativo all’uso di algoritmi o di tecnologie di intelligenza artificiale per formulare “profilazioni” personologiche in materia penale [80]: una realtà, quella della “giustizia predittiva”, con la quale non possiamo non confrontarci, se solo si guarda alle esperienze maturate in alcuni paesi di common law [81]. Sorvegliato speciale è il software COMPAS [82], sviluppato da un’azienda privata e utilizzato in America per valutare il rischio di recidiva degli imputati attraverso l’elaborazione dei dati emersi dal fascicolo processuale e dall’esito di un test a 137 domande. Come è stato notato [83], i quesiti contemplano una serie di voci [84] riferibili ad abitudini di vita, “instabilità residenziale”, tendenze sessuali, gusti commerciali, “modo di utilizzo del tempo libero”, ovvero a fatti pregressi privi di rilievo penale, tutti utilizzabili dal giudice per la valutazione prognostica sulla pericolosità, o a fini analoghi. Da qui il rischio di una “profilazione personologica” condotta a scapito del diritto al silenzio del soggetto. Questi strumenti di risk assessment, al di là dei limiti prefigurati dall’art. 220, comma 2, c.p.p., potrebbero risultare “appetibili” anche nel nostro processo [85], purché l’interprete, di fronte ai rischi di derive incontrollabili, non dimentichi i raccordi con i valori irrinunciabili di tutela della persona, «ponendo in guardia se stesso e i naviganti dalle seduzioni del canto delle sirene» [86]. Ad oggi, un freno all’ingresso di uno standard “forte” di intelligenza artificiale [87] in Europa è arrivato – seppure si tratti di una fonte di soft law – dalla Carta etica sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e nel loro ambiente, adottata il 3 dicembre 2018 dalla Commissione europea per l’efficienza dei sistemi di giustizia (CEPEJ) [88], dove, accanto al richiamo ai diritti fondamentali della persona, non si manca di sottolineare il ruolo di primo piano del giudice in questo contesto. Nella stessa direzione sembra orientata l’ambiziosa Proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale [89], presentata dalla [continua ..]
Va adesso accennata un’altra tematica, non troppo distante dalla precedente, perché collegata all’impiego di mezzi sofisticati, stavolta di ascolto delle conversazioni. Sorvolando sulle questioni legate ai profili di collaborazione dell’indagato rispetto alle intercettazioni a mezzo trojan [91], il rischio di uno svuotamento del diritto al silenzio si profila rispetto alla macro-categoria della prova documentale [92] e, più nello specifico, della figura, priva di coordinate normative, del c.d. agente attrezzato per il suono. Questa evenienza si può realizzare soprattutto nell’ipotesi in cui l’operazione sia guidata dalla polizia giudiziaria che, oltre a fornire le attrezzature tecniche, potrebbe addirittura arrivare a suggerire le eventuali domande da formulare [93]. In questo caso, la registrazione delle dichiarazioni a contenuto confessorio sollecitate dal colloquiante sotto la direzione degli organi inquirenti rischia di risolversi in un vero e proprio interrogatorio contra legem, con la negazione del diritto a non collaborare. Né potrebbe obiettarsi che ci troviamo al cospetto di dichiarazioni “spontanee”. Piuttosto, occorrerebbe operare un distinguo tra ciò che può essere utilizzato ai fini delle indagini e ciò che invece andrebbe escluso. Ebbene, mentre può essere utilizzabile la registrazione su iniziativa delle autorità investigative, previamente autorizzata dal giudice [94], di un tentativo di estorsione – purché la persona offesa non rivesta il ruolo di agente “provocatore” [95] – in altri casi, la difficoltà di procedere ad una verifica della “spontaneità” di un’ammissione auto incriminatrice in assenza delle garanzie e degli avvertimenti previsti a tutela dell’indagato, «impone di negare rilievo probatorio ad eventuali dichiarazioni confessorie sollecitate “ad arte” e registrate dall’agente segreto attrezzato per il suono» [96]. Si è accennato alla necessità di escludere che la persona offesa agisca in veste di “provocatore”. Su questo tema, allargando la prospettiva, profili di tensione con il nemo tenetur se detegere manifesta la figura dell’agente sotto-copertura [97] – disciplinata dall’art. 9 della l. 16 marzo 2006, n.146 – oggetto di una discutibile [continua ..]
Passando, infine, a un territorio di “confine” – quello del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione – questo rivela, dalla nostra prospettiva, la tendenza a valorizzare in senso negativo il diritto al silenzio del quale si sia avvalso l’indagato in sede di interrogatorio: nella sostanza, il comportamento collaborativo del soggetto gravato da provvedimento cautelare [108] costituisce una sorta di condizione per accedere all’indennizzo. Ciò in evidente attrito sia con la disciplina di cui all’art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p., sia con la clausola di “protezione” contenuta nell’art. 274, comma 1, lett. a), c.p.p. Sfogliando i massimari, ci si avvede come la Corte di legittimità ritenga, secondo un orientamento diffuso, che il giudice, per valutare la sussistenza della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, possa prendere in esame il comportamento silenzioso o anche mendace – situazioni che andrebbero differenziate – poiché il diritto all’equa riparazione presuppone una condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a lui note, che contrastino l’accusa o vincano ragioni di cautela [109]. Toni ancora più forti si rinvengono in una pronuncia nella quale si afferma che l’avvalersi della facoltà di non rispondere, in sede di interrogatorio, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave poiché è onere dell’interessato apportare immediati contributi o riferire del provvedimento cautelare [110]. Persino il silenzio da solo, senza necessità di dovere andare alla ricerca di altri elementi di colpa, può costituire [111] motivo sufficiente per escludere l’indennizzo richiesto, laddove il soggetto sottoposto alla privazione della liberà avrebbe potuto rivelare agli inquirenti circostanze a lui solo note o chiarire, con le sue dichiarazioni veritiere, elementi indizianti gravi. Un’esegesi che finisce per codificare due moduli procedimentali, ciascuno con regole proprie, con la conseguenza però che il legittimo esercizio di un diritto in sede penale può essere considerato come condizione ostativa alla [continua ..]
Il “dialogo tra Corti” è diventato una importante occasione per tornare a rimeditare su un istituto classico del processo penale, quale, appunto, il diritto al silenzio dell’accusato, riflesso del modo in cui è concepito il rapporto autorità-individuo. La circostanza che il codice di rito abbia circondato di una fitta rete di cautele il contributo dichiarativo dell’indagato (anche in ambito cautelare), sia sul fatto proprio, sia su quello altrui, richiedendo altresì specifici avvertimenti a protezione del diritto al silenzio, non appare più sufficiente. Emblematica è la giurisprudenza in materia di riparazione per ingiusta detenzione, caratterizzata da un’aggressione «alla sfera di autodeterminazione dell’individuo protetta dalla clausola di inesigibilità implicita nella previsione costituzionale in materia di difesa ed (auto)difesa» [120]. Nuovi orizzonti problematici sul versante del nemo tenetur se detegere si stagliano poi non appena ci si confronti con temi di recente elaborazione, connotati da un’intrinseca fluidità: la “materia penale” da un lato, con le sue molteplici sfaccettature, la digital evidence dall’altro, in balia delle sfide della modernità e della criminalità. Entrambi i temi, affidati per lo più all’onda crescente dell’esegesi giurisprudenziale, rischiano di costituire occasione per aggirare i diritti fondamentali della persona. È tempo che nella riflessione si tenga conto non soltanto dei profili relativi alla tutela della riservatezza, ma anche del diritto al silenzio [121], quale valore irrinunciabile nello scacchiere dei principi costituzionali che governano uno tra gli snodi più delicati del procedimento penale: la fase delle indagini preliminari.