Il saggio prende le mosse dalla presa d’atto del venir meno progressivo delle valvole di chiusura che avevano consentito di tenere in piedi il sistema processuale penale: prima gli atti di clemenza, resi sostanzialmente impossibili dalla riforma costituzionale del 1992; poi la prescrizione, la cui incidenza nelle indagini preliminari è scemata negli ultimi anni; infine, i riti alternativi, che non hanno mantenuto le promesse deflative. Dinnanzi all’insostenibilità del carico giudiziario, si propone di ripensare ab origine la risposta alla criminalità minore con l’introduzione di un istituto che ha funzionato molto bene in altri ordinamenti europei: l’archiviazione condizionata. Ormai i tempi sembrano maturi anche in Italia per introdurre una sorta di “terza via” tra l’archiviazione semplice e l’esercizio dell’azione penale, che potrebbe garantire maggiore effettività al sistema penale assicurando l’applicazione di un trattamento condiviso che sani la ferita aperta dalla commissione del reato.
The essay starts from the acknowledgment of the progressive disappearance of the shut-off valves that had guaranteed to keep safe the criminal trial system: first of all, the acts of clemency, made essentially impossible by the 1992 constitutional reform; then, the statute of limitations, the impact of which in pre-trial phase has decreased in recent years; finally, the special proceedings, which have not kept their deflationary promises. Faced with the unsustainability of the backlog, the Author proposes to rethink the response to less serious offences from the outset with the introduction of a new mechanism that has worked very well in other European systems: the so-called “conditional dismissal”. Nowadays the time seems ripe also in Italy to introduce a sort of “third way” between simple dismissal and prosecution, which guarantees greater effectiveness to the criminal system by ensuring the application of a shared treatment that heals the wounds opened by the commission of the crime.
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1. Le valvole di sfogo del sistema: dall’amnistia alla prescrizione - 2. La necessità di ripensare la risposta alla criminalità minore - 3. I modelli stranieri: il successo dell’archiviazione condizionata - 4. L’evoluzione delle coordinate costituzionali in Italia - 5. Le tracce già presenti - 6. Una forma inedita di “archiviazione meritata” tra deflazione e riparazione - NOTE
Nel novembre del 1989, neanche dieci giorni giorno l’entrata in vigore del codice di procedura penale, il Guardasigilli Giuliano Vassalli presentava alla Camera dei deputati un progetto di legge di revisione costituzionale, destinato a introdurre la maggioranza qualificata di due terzi per la concessione di amnistia e indulto [1]. Dalla lettura della relazione si evince che l’obiettivo precipuo della proposta di modifica dell’art. 79 Cost. – poi effettivamente approvata nel 1992 – era quello di consentire che i riti alternativi, introdotti dal nuovo impianto accusatorio, potessero sviluppare tutte le loro potenzialità deflative: l’adozione di tali riti era infatti «unanimemente ritenuta una condizione necessaria per il successo della riforma» e l’uso frequente dell’amnistia e dell’indulto, inducendo negli utenti della giustizia fondate aspettative di future estinzioni dei reati o delle pene, costituiva un ostacolo rispetto a tale sviluppo [2]. In effetti, se si escludono i provvedimenti clemenziali adottati subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tra il 1953 e il 1990 vi furono ben quindici provvedimenti di amnistia e, quindi, uno ogni due anni e mezzo [3].
Proprio gli atti di clemenza avevano costituito una straordinaria valvola di sfogo per un sistema penale che, già negli anni Sessanta, era in grave sofferenza, tanto che il Presidente Giuseppe Saragat aveva parlato di «crisi della giustizia» [4], la quale «presenta oggi due allarmanti manifestazioni, fra loro strettamente connesse: l’eccessiva durata dei procedimenti e il progressivo aumento dell’arretrato» [5]. Crisi che si era progressivamente aggravata, tanto che, all’inizio degli anni Ottanta, la stessa Corte costituzionale aveva riconosciuto che l’affollamento dei ruoli d’udienza e l’impossibilità di addivenire a tempestive fissazioni del dibattimento rappresentava «uno dei punti dolenti – il massimo, anzi – del nostro processo penale» [6].
Com’è ben noto, il nuovo codice nasceva proprio con l’obiettivo di assicurare «la massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale» (art. 2, n. 2, legge-delega) e, quindi, tempi più ragionevoli. Ai riti premiali veniva affidata la funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un gran numero di procedimenti, «secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio» [7].
La storia è andata in modo diverso.
Nonostante il mancato ricorso ai provvedimenti di amnistia (gli unici provvedimenti clemenziali sono stati il cd. indultino (l. 3 agosto 2003, n. 207) e l’indulto del 2006 (l. 31 luglio 2006, n. 241), dopo la modifica della disciplina costituzionale i riti alternativi non sono affatto decollati. Tanto che, già a metà degli anni Novanta, la Corte costituzionale prendeva atto che quella «funzione di filtro che avrebbe dovuto svolgere l’auspicato massiccio ricorso ai procedimenti alternativi» era «nella pratica spesso vanificat[a]», con il risultato che era entrata «in crisi la coerenza stessa del modello processuale» [8].
Ebbene, venuta meno l’amnistia, l’unica valvola di sfogo a monte dell’esercizio dell’azione penale è stata la prescrizione [9]. Tra gli anni Novanta e Duemila, infatti, questa è cresciuta in termini assoluti (da 66.000 nel 1996 a 222.000 nel 2004), con un’incidenza sempre più significativa soprattutto nelle indagini preliminari: nel 2004, ben 186.967 prescrizioni (ossia l’84 per cento) erano state dichiarate dal giudice per le indagini preliminari [10].
Nei quindici anni successivi questo trend si è però invertito in modo significativo. Il totale delle declaratorie di estinzione per prescrizione è sceso a 138.834 nel 2010, 129.613 nel 2014 e a 113.158 nel 2019; ma il dato più rilevante è che si è abbassato considerevolmente il numero di quelle pronunciate dal giudice per le indagini preliminari: si è scesi a 104.700 nel 2010, a 78.895 nel 2014, fino a 50.750 nel 2019 [11]. Tale riduzione è solo in parte riconducibile al ridimensionamento delle definizioni da parte delle procure e degli uffici dei g.i.p. [12]. Infatti, le richieste di archiviazione per prescrizione del p.m. sono passate da 185.626 nel 2004 (ossia il 28% del totale delle domande di archiviazione) a 41.668 nel 2019 (ossia soltanto il 9,4%). Analoga discesa si è registrata sul fronte delle prescrizioni dichiarate dal g.i.p.: se nel 2004 rappresentavano il 20,2% del totale delle definizioni, nel 2019 le declaratorie di prescrizione sono state solo il 7% del totale dei provvedimenti del g.i.p.
Negli ultimi lustri, la prescrizione ha operato dunque sempre meno come filtro oscuro rispetto all’esercizio dell’azione penale e sempre di più come declaratoria di estinzione emessa – in modo antieconomico e difficilmente accettabile dalla collettività – in grado di appello (dal 2007 al 2019 il numero delle declaratorie di prescrizione in seconde cure è praticamente triplicato, passando da 9.824 a 29.688).
All’esito di questa rapida ricognizione, si può dire che il codice Vassalli è l’unico della storia italiana ad essere per così dire sopravvissuto senza il ricorso alla valvola della clemenza, in quello che Gaetano Salvemini ha definito il “paese delle amnistie” [13]. Il prezzo da pagare è stato, tuttavia, piuttosto salato: l’Italia, nonostante i molteplici tentativi del legislatore di rendere più efficiente il sistema processuale penale, ha continuato a produrre un backlog impressionante, ancora oggi attestatosi a più di un milione di regiudicande [14].
Com’è ben noto, sulla criminalità minore si concentra la fetta più importante dell’attività processuale: per rendersene conto, basta ricordare che le condanne a una pena pecuniaria o a una pena detentiva inferiore a 2 anni costituiscono il 90% del totale [15]. La scommessa di abbattere questo carico con i riti alternativi fatta nel 1988 è sostanzialmente fallita e la bancarotta di questi dispositivi di semplificazione è emersa in modo palese negli ultimi anni.
Nelle statistiche riportate nella relazione del Primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, si afferma che nel periodo 2018-2019 la somma delle sentenze di rito abbreviato e patteggiamento, emanate degli uffici g.i.p./g.u.p., si attesta soltanto al 7% del totale dei procedimenti penali celebrati davanti a tale giudice, mentre non va meglio per i decreti penali di condanna divenuti esecutivi, che ammontano soltanto al 4% [16]. I dati del tribunale monocratico non sono molto migliori, se si pensa che, nel medesimo periodo, gli abbreviati e i patteggiamenti sono stati scelti «soltanto nel 13% dei casi quando il processo viene avviato […] a seguito del decreto di citazione a giudizio emesso dal [p]ubblico ministero» [17]. Ovviamente le percentuali si alzano significativamente se si rapporta il totale dei riti premiali alle condanne, ma quel che conta è che anche dai dati relativi alle procure della Repubblica emerge una progressiva riduzione del tasso di applicazione dei riti alternativi. Stando alle statistiche pubblicate dal Ministero della giustizia, infatti, dal 2010 a oggi vi è stato un vero e proprio tracollo delle richieste di riti speciali premiali da parte dei pubblici ministeri: alle 333.909 richieste del 2010 corrispondono, infatti, le 176.046 del 2016 [18] e – a quanto riporta il Primo Presidente della Cassazione – le 152.862 del periodo 2019-2020 [19]. In un decennio, la quantità di riti speciali attivati dai pubblici ministeri nel corso delle indagini è, insomma, pressoché dimezzata. Ancora più sensibile la riduzione dei decreti penali di condanna: se nel 2009 era stato emanato un totale di 97.565 decreti penali di condanna esecutivi [20], nel 2019/2020 gli stessi sono scesi a 20.549 (pari soltanto al 3% dei procedimenti definiti dalle sezioni g.i.p./g.u.p.) [21].
Questo trend si deve a una serie concomitante di fattori: certamente hanno inciso in modo significativo le depenalizzazioni del 2016 (d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 e 8), ma ha pesato anche la sovrapposizione dei riti alternativi, che finiscono per farsi una perniciosa concorrenza. Solo per fare un esempio, la contrazione del patteggiamento degli ultimi anni si deve senza dubbio al crescente ricorso alla sospensione del processo con messa alla prova, che ha registrato un incremento da 12.565 casi nel 2015 fino ai 26.411 nel 2018 [22].
Per rispondere a questa incapacità dei dispositivi alternativi di filtrare adeguatamente il carico non ci si può illudere di continuare a intervenire con interventi circoscritti e concentrati sul semplice ampliamento dell’ambito di applicazione. Quest’ultima è purtroppo la strada suggerita anche dal disegno di legge n. 2435 in discussione alla Camera dei deputati, che contempla l’estensione fino a otto anni del tetto di pena in concreto per il patteggiamento [23]: ma il nucleo del problema non è evidentemente la criminalità grave. Già l’estensione da due a cinque anni del patteggiamento non ha avuto alcuna conseguenza in termini numerici. Anzi: dopo il 2003, il numero delle sentenze di patteggiamento è progressivamente calato, passando dalle 86.822 del 2005 [24], alle 65.380 del 2015 [25]. Altrettanto accadrebbe con questo ulteriore innalzamento, il quale non farebbe che allargare i guasti prodotti dalla giustizia negoziata sul piano della legalità sostanziale e della capacità cognitiva del processo, senza produrre benefici sensibili in termini di deflazione [26].
A partire dagli anni Settanta del Novecento, un numero crescente di Paesi europei ha affrontato il problema della massa di procedimenti per reati di gravità medio-bassa, in modo parzialmente diverso rispetto a quanto è avvenuto in Italia. Si è infatti puntato sull’introduzione di istituti dispositivi, collocati nella fase della valutazione sull’esercizio dell’azione penale. La mente corre, più precisamente, a quei meccanismi che vengono generalmente chiamati “archiviazioni condizionate” [27].
Si tratta – in estrema sintesi – di istituti che permettono di non esercitare l’azione penale, laddove questa appaia oggettivamente superflua, perché l’indagato ha posto in essere condotte positive nei confronti della collettività e/o della vittima di reato, idonee a compensare l’interesse pubblico e privato leso. Di norma, tali meccanismi sono concepiti come veri e propri “contenitori” di prestazioni che il soggetto sottoposto a procedimento penale può scegliere di compiere per compensare il danno – patrimoniale, ma anche sociale – causato dall’illecito penale: nel novero delle misure ipotizzabili quali oggetto di un’archiviazione condizionata vi è, infatti, una rete alquanto eterogenea di prestazioni, tra cui il pagamento di una somma di denaro allo Stato, oppure in favore di enti di volontariato o non profit, il risarcimento dei danni alla vittima, lo svolgimento di un’attività mediativa o di un lavoro di pubblica utilità, nonché, ancora, la sospensione di patenti o licenze, e così via. Si configurano, pertanto, come strumenti particolarmente duttili, attivabili solitamente dai pubblici ministeri con il consenso degli indagati e – spesso – previa autorizzazione giudiziale, tesi a perseguire due obiettivi primari: da un lato, permettere allo Stato di ridurre il carico giudiziario, con riguardo a forme di illeciti penali di non particolare gravità, a fronte della scelta del prevenuto di compiere un percorso lato sensu di risocializzazione e, da un altro lato, assicurare una qualche forma di tutela alle vittime.
Com’è noto, tra i primi sistemi giuridici continentali ad aver puntato fortemente su istituti di tal tipo vi è la Germania. Il legislatore tedesco ha inserito già nel 1974 nel novero delle eccezioni al generale principio di obbligatorietà dell’azione penale, vigente in tale ordinamento, il § 153a della Strafprozessordnung [28] (d’ora in avanti StPO). Siffatta disposizione prevede un’ipotesi di archiviazione condizionata allo svolgimento, entro un certo lasso di tempo, da parte del prevenuto di una serie di condizioni e prescrizioni, la quale può essere messa in moto (sempre previo consenso del soggetto sottoposto a procedimento penale) per i Vergehen (reati puniti con una pena detentiva inferiore nel minimo a un anno o pena pecuniaria) tanto dai pubblici ministeri nella fase di esercizio dell’azione, quanto dai giudici dopo che l’accusa è stata elevata.
Come si ricava dalle statistiche pubblicate dal Ministero della giustizia federale tedesco, tale meccanismo ha dato discreti risultati nella prassi. A riprova di ciò, basti esaminare il numero di procedimenti archiviati in forza del § 153a StPO negli ultimi anni dai pubblici ministeri (174.956 nel 2015, 169.801 nel 2017 e 167.561 nel 2019) [29], da un lato, e dagli Amtsgericht, ossia giudici lato sensu assimilabili ai tribunali italiani, da un altro lato (52.699 nel 2015, 50.650 nel 2017 e 51.815 nel 2019) [30].
Peraltro, istituti analoghi hanno avuto successo pure in Francia (dove vige però un principio di discrezionalità temperata nell’esercizio dell’azione penale). Anche nell’ordinamento d’Oltralpe, infatti, a partire dagli anni Settanta hanno iniziato a svilupparsi in via pretoria forme di misure alternative all’azione penale, le quali sono state poi recepite negli anni Novanta all’interno del code de procédure pénale [31]. Il legislatore ha dapprima codificato diversi casi di archiviazioni condizionate all’art. 41-1 del code, per poi inserire in un nuovo art. 41-2 un meccanismo simile al § 153a StPO tedesco, denominato composition pénale. In questo modo, il sistema francese ha dato vita (e poi man mano arricchito) a un sistema graduato di misure, più o meno afflittive, che il pubblico ministero può attivare per le fattispecie di reato meno gravi quale “terza via” rispetto al binomio “esercizio dell’azione penale”/“archiviazione secca”. Questi istituti hanno incontrato un grande successo, consentendo di definire in media nel quinquiennio 2015-2019 più di 478 mila casi con misure alternative all’azione penale e più di 65 mila con la composition pénale [32].
In sostanza, dai dati pubblicati dal Ministero della giustizia francese si ricava che l’insieme di questi meccanismi è stato applicato costantemente in una percentuale ben superiore al 40% dell’insieme dei casi “perseguibili”, mentre, per converso, una decisione di archiviazione “secca” è stata presa in poco più del 10% dei casi (ad es. nel 2019 il numero di classements sans suite ammontava a 173.999 procedimenti, a fronte di 467.524 archiviazioni pronunciate in Italia).
Ma gli strumenti in parola si sono diffusi trasversalmente in molti altri Paesi europei, tanto ispirati a un generale principio di legalità dell’azione penale (si pensi all’Austria [33]), quanto di discrezionalità temperata della stessa (come il Belgio [34]) anche in ragione dell’atteggiamento di favore che hanno dimostrato nei loro confronti il Consiglio d’Europa e la stessa Unione europea.
Per un verso, già alla fine degli anni Ottanta, il Comitato dei Ministri del Consiglio aveva emanato la raccomandazione R (87) 18, relativa alla semplificazione della giustizia penale, con cui ha esortato gli Stati membri a introdurre molteplici istituti di diversion fondati sul consenso del prevenuto, tra cui proprio le archiviazioni condizionate e le transazioni penali, al fine di ridurre il carico giudiziario in eccesso e assicurare così agli accusati una tutela più incisiva del loro diritto a essere giudicati entro un lasso di tempo ragionevole (art. 6, par. 1, CEDU) [35]. Più di recente, la Grande Europa ha invitato gli Stati membri a intervenire in materia di giustizia riparativa (si pensi, solo per fare un esempio, alla raccomandazione (2018) 8 del Comitato dei Ministri), introducendo misure mediative e riparatorie analoghe a quelle che costituiscono di norma l’oggetto degli istituti in questione.
Per altro verso, un favor verso le archiviazioni condizionate è stato manifestato anche nell’ambito dell’Unione europea. A riprova di ciò, basti pensare che l’art. 40 del regolamento (UE) 2017/1939, istitutivo della figura del pubblico ministero europeo, consente all’EPPO di avvalersi di meccanismi acceleratori quali archiviazioni condizionate e transazioni (nei Paesi che contemplano tali strumenti), allorquando si troveranno a perseguire una serie di reati lesivi degli interessi finanziari eurounitari [36].
Nel nostro paese, a distanza di più di trent’anni da quando è stato ideato, merita ripensare alla radice l’impianto dei riti finalizzati a rendere giustizia nell’ambito della criminalità medio-bassa. Non si può infatti non prendere atto che l’introduzione dei procedimenti premiali basati sulla valorizzazione del consenso e, in particolare, dell’archiviazione per tenuità del fatto e della sospensione con messa alla prova ha innescato un profondo mutamento delle coordinate costituzionali che avevano condizionato l’originario sistema codicistico.
La prima linea evolutiva è quella connessa al progressivo sviluppo – sul piano teorico e della prassi, se non su quello statistico – della «giustizia negoziata, a carattere comunitario» rispetto alla «giustizia egemonica, di apparato» [37]. Anche nell’ordinamento penale nostrano si sono valorizzate le parti e i soggetti processuali e questi si sono progressivamente ritagliati spazi crescenti nella definizione della vicenda processuale. Il consenso dell’imputato, del pubblico ministero e, da ultimo, anche della vittima ha assunto un ruolo determinante nel plasmare una giustizia che si manifesta – come in passato – secondo i due archetipi delle “composizioni con l’autorità” (varie forme di patteggiamento e concordato) e delle “composizioni con la vittima” (mediazioni) [38].
La seconda direttrice è quella relativa al rapporto tra sanzione penale e presunzione di innocenza. Le pagine più recenti della giurisprudenza costituzionale maturata con riguardo all’istituto della messa alla prova hanno tratteggiato una forma inedita di sanzione punitiva, ispirata a fini di risocializzazione del prevenuto, ma priva dei connotati della pena [39]. Com’è noto, al fine di respingere le censure di illegittimità del probation processuale in relazione all’art. 27, comma 2, Cost., pur ammettendo che il trattamento oggetto del rito è caratterizzato da un’«innegabile connotazione sanzionatoria» [40], la Consulta ha negato a più riprese la natura di vera e propria pena allo stesso. A detta del giudice delle leggi, infatti, proprio perché l’esecuzione del programma risocializzante in cui si concretizza la messa alla prova «è rimessa “alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare, con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso […]”» [41], essa darebbe vita a un “tertium genus punitivo” tra le sanzioni amministrative e quelle strettamente penali, per l’irrogazione del quale sarebbe possibile, tanto infrangere «la sequenza cognizione-esecuzione» [42], valida per le pene vere e proprie, quanto accontentarsi di una mera «incidentale e sommaria “considerazione della responsabilità dell’imputato”» [43]. Tralasciando le critiche sollevate da parte di autorevole dottrina a tale ricostruzione [44], in questa sede preme rilevare un dato: se la Corte, attribuendo un valore solo fino a pochi anni fa del tutto impensabile al consenso del prevenuto, ha ritenuto compatibile con il canone dell’art. 27, comma 2, Cost. un istituto come la messa alla prova, lo stesso dovrebbe valere anche per una forma di archiviazione condizionata, operante sulla base di una scelta libera e consapevole dell’indagato. Difatti, pure in tal caso sarebbe quest’ultimo a scegliere se continuare a eseguire le prestazioni da lui pattuite con l’accusa (e vagliate da un giudice), onde controbilanciare l’interesse pubblico alla persecuzione di un fatto di reato e ottenerne l’estinzione, o farle cessare, con la sola conseguenza di far proseguire il suo corso al rito penale secondo le forme ordinarie.
La terza fondamentale linea di trasformazione riguarda l’azione penale. La vera e propria «“metamorfosi” del pubblico ministero» [45] operata dal codice Vassalli, con l’attribuzione di poteri discrezionali variamente qualificati e la stessa valorizzazione dell’efficienza come bene di portata costituzionale [46], hanno condotto – sia pur con resistenze pervicaci da parte della magistratura e una dose massiccia di retorica – a una lettura più elastica del canone di obbligatorietà dell’azione penale. In quest’ottica, si dovrebbe ritenere oggi compatibile con l’art. 112 Cost. la previsione di strumenti, fondati su parametri oggettivi e delineati normativamente, di desistenza dall’azione penale, laddove il prevenuto scelga di compensare l’interesse pubblico e privato leso dal fatto di reato. In tal modo, non ci si porrebbe in contrasto con lo “spirito” della norma costituzionale, in quanto non si affiderebbe alla pubblica accusa alcun ambito di “discrezionalità politica”, ma si amplierebbero soltanto gli argini della “discrezionalità tecnica” degli stessi [47].
Va, invero, rilevato che da tempo la dottrina ha invitato il legislatore a codificare anche in Italia meccanismi processuali rientranti in tale categoria, considerandoli pienamente compatibili con una lettura “moderna” e “non estremista” del principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) [48].
Peraltro, già esistono nell’ordinamento italiano meccanismi che presentano qualche assonanza con la categoria delle archiviazioni condizionate. Tra questi possono annoverarsi, senza pretesa di completezza, la sospensione con messa alla prova (artt. 464-bis ss.), l’oblazione (artt. 162 e 162-bis c.p. e art. 141 disp att. c.p.p.), l’estinzione del reato per condotte riparatorie (art. 162-ter c.p.), nonché istituti speciali previsti in materia di sicurezza sul lavoro (art. 24 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758) e in ambito ambientale (art. 318-septies d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) [49].
Nell’ambito del probation processuale per adulti il prevenuto è legittimato a svolgere un programma lato sensu rieducativo idoneo a far terminare in modo anticipato la regiudicanda con un esito liberatorio. Peraltro, in questo caso, vi sono difformità alquanto marcate rispetto al modello dell’archiviazione condizionata, tra cui spicca il fatto che la messa alla prova per adulti, pur potendo essere attivata nel corso delle indagini preliminari, richiede sempre una formulazione dell’imputazione da parte della pubblica accusa. Per di più, il pubblico ministero non è dotato di poteri propulsivi, essendo previsto unicamente che dia un parere sulla richiesta del prevenuto.
Quanto agli altri istituti, laddove operino nel corso delle indagini preliminari, consentono all’indagato di ottenere l’estinzione del reato (e conseguentemente un provvedimento archiviativo) pagando una somma allo Stato, oppure risarcendo i danni alla vittima. Si tratta, peraltro, solo di vaghe somiglianze con l’archiviazione condizionata, come si desume dal fatto che sia l’oblazione che l’estinzione per condotte riparatorie relegano in un ruolo di secondo piano la figura della pubblica accusa. Se, infatti, di norma il pubblico ministero è il soggetto chiamato a valutare se attivare o meno l’archiviazione condizionata, nell’oblazione e nell’estinzione ex art. 162-ter i procuratori possono solo rendere pareri non vincolanti, non avendo, per contro, alcun potere di veto.
Proprio per questo motivo, i citati istituti non rappresentano una terza via tra esercizio dell’azione penale e archiviazione secca di cui possono disporre i pubblici ministeri, laddove ritengano che l’interesse pubblico alla persecuzione del reato possa essere compensato da una prestazione positiva dell’indagato, come, invece, accade nelle forme tipiche di archiviazioni condizionate.
In questa cornice di principi sensibilmente mutata, pare che i tempi siano ormai maturi per introdurre anche nel nostro paese un istituto nuovo, che rappresenti una forma alternativa di risposta dell’ordinamento al reato basata sulla valorizzazione del consenso dell’indagato e sulla dimensione riparativa. Si dovrebbe ragionare su una forma inedita di “archiviazione meritata” [50], da costruire come un contenitore collocato al termine della fase preparatoria e capace di garantire una significativa capacità di filtro e, al tempo stesso, di elevare l’effettività del sistema penale.
L’attivazione dell’istituto dovrebbe essere affidata al pubblico ministero alla fine delle indagini preliminari, in modo tale da garantire lo svolgimento di investigazioni complete, tanto a carico, quanto a discarico. All’esito delle indagini, laddove ritenga sostenibile l’accusa in giudizio, la pubblica accusa dovrebbe compiere una seconda valutazione (tecnica), legata all’opportunità di attivare la misura alternativa alla formulazione dell’imputazione: il criterio fondamentale dovrebbe essere la possibilità per l’indagato, considerata la gravità del reato e la capacità a delinquere, di compensare l’interesse pubblico derivante dal fatto di reato, ponendo in essere una serie di condotte positive nei confronti della collettività (es. pagamento di una somma di denaro allo Stato, svolgimento di lavoro di pubblica utilità, oppure di corsi di formazione lavorativa o d’istruzione) e/o della vittima (risarcimento del danno, attività di mediazione). Superato tale vaglio preliminare, l’accusa dovrebbe presentare una proposta formale all’indagato, il quale, sempre assistito da un difensore e dopo essere stato informato dei propri diritti processuali, sarebbe tenuto a scegliere se accettarla o meno o se richiedere una modifica parziale della stessa. A questo punto, ove sia effettivamente concluso un accordo tra le parti, andrebbe attivata una fase di controllo giudiziale (essenziale per assicurare la compatibilità del meccanismo con l’art. 112 Cost.).
Il giudice per le indagini preliminari dovrebbe compiere una triplice valutazione.
Un sindacato preliminare sulla non infondatezza della notizia di reato, sulla mancanza di una condizione di procedibilità, sulla non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p.p., sull’estinzione del reato o sulla non previsione del fatto come reato; un vaglio sulla natura informata e libera del consenso prestato dall’indagato; infine, un esame dell’effettiva idoneità del programma riparativo a compensare l’interesse pubblico incrinato dall’illecito penale. Questo dovrebbe essere definito dal legislatore, almeno nella tipologia delle misure a disposizione – che non dovrebbe contemplare nessuna prestazione come obbligatoria – e nella durata massima.
Ove il decisore si pronunciasse favorevolmente circa l’applicazione della misura di diversion, il pubblico ministero dovrebbe vigilare – tramite la polizia giudiziaria o l’ufficio esecuzione penale esterna – sull’effettivo svolgimento da parte dell’indagato delle misure promesse entro un lasso di tempo normativamente definito. Una volta terminata tale fase “esecutiva”, l’accusatore dovrebbe richiedere la definitiva archiviazione del caso per essere il resto estinto dal comportamento del prevenuto.
La disciplina potrebbe essere collocata, da un canto, nel codice penale, con la previsione generale dell’estinzione del reato e, dall’altro, nel codice di rito, in un apposito titolo VIII-bis inserito nel libro V, subito dopo la disciplina dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e prima dell’udienza preliminare.
Per un verso, andrebbe definito in modo puntuale l’ambito di applicazione del meccanismo e, per altro verso, andrebbero ricondotti al contenitore flessibile dell’archiviazione meritata tutti quegli istituti che rispondono alla medesima logica, dall’oblazione all’estinzione del reato per condotte riparatorie ex art. 162-ter, fino alla messa alla prova per adulti.
S’immagina l’obiezione: perché dovrebbe funzionare un istituto molto simile a quelli già presenti che hanno dimostrato, come si è detto, una certa difficoltà a diffondersi nella prassi?
La risposta risiede anzitutto nella delimitazione dell’ambito di operatività del nuovo istituto: esso ha senso solo se non circoscritto alle ipotesi contravvenzionali o di punibilità a querela o con sanzione pecuniaria, come accade nel caso dell’oblazione e dell’estinzione per condotte riparatorie o, in prospettiva de iure condendo, dell’art. 10 del disegno di legge n. 2435 in discussione alla Camera. L’istituto dovrebbe avere un ambito applicativo quantomeno analogo a quello della sospensione con messa alla prova; ma la sua potenzialità deflativa sarebbe molto più elevata perché non dovrebbe essere prevista come obbligatoria la misura del lavoro di pubblica utilità.
In secondo luogo, la definizione di una cornice procedimentale unica con una responsabilizzazione del pubblico ministero consentirebbe di semplificare il quadro e di garantire una funzionalità migliore al congegno.
Certo, si tratterebbe di una riforma ambiziosa e forse i tempi non sono propizi per una simile manovra. Ma rimandare ancora un ripensamento serio e profondo dei riti alternativi e dello snodo dell’esercizio dell’azione penale potrebbe essere esiziale. La pandemia da Covid-19 ha infatti ulteriormente aggravato una crisi di efficienza che appare non più sostenibile [51].
[1] Cfr. disegno di legge costituzionale C. n. 4317, presentato il 2 novembre 1989.
[2] V. ancora disegno di legge costituzionale C. n. 4317, cit., p. 1.
[3] In proposito, v. Servizio Studi del Senato-XVII Legislatura, I provvedimenti legislativi di amnistia e indulto dal 1948 ad oggi, ottobre 2013, n. 67.
[4] La citazione è tratta da G. Saragat, Sulla crisi della giustizia (23 aprile 1965), Discorsi e messaggi del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, Roma, 2005, p. 98.
[5] Così, testualmente, G. Saragat, Sulla disfunzione giudiziaria (14 luglio 1966), Discorsi e messaggi, cit., p. 105.
[6] C. cost., 1° febbraio 1982, n.15, in www.cortecostituzionale.it.
[7] V. C. cost., 12 aprile 1990, n. 183, in www.cortecostituzionale.it.
[8] Testualmente, C. cost., 20 aprile 1995, n. 137, in www.cortecostituzionale.it.
[9] Non a caso, G. Giostra, Un giusto equilibrio dei tempi, sfida per la nuova prescrizione, in Sist. pen., 13 gennaio 2020, definisce la prescrizione «amnistia random».
[10] Cfr. V. Fanchiotti, La durata del processo tra l’inidoneità degli strumenti interni e la prospettiva europea, in Dir. pen. cont., p. 5.
[11] Si tratta di dati ministeriali, tratti dal portale del Ministero della giustizia, Dgstat (rinvenibili al seguente link https://reportistica.dgstat.giustizia.it/VisualizzatoreReport.Aspx?Report=/Pubblica/Statistiche della DGSTAT/Materia Penale/2. Modalita di definizione/3. definiti per prescrizione/1. dati nazionali/1. tutti gli uffici in serie storica).
[12] Per quel che riguarda l’ufficio dell’accusa, il totale di procedimenti nei confronti di indagati noti è passato da 1.597.955 nel 2001 a 1.239.055 del 2019, con una riduzione del 22,4%; analogo il calo delle definizioni dei procedimenti nei confronti di ignoti, passati da 1.747.476 nel 2001 a 1.369.526 nel 2019, con una riduzione del 21,6%. Con riferimento invece al giudice della fase preliminare, si è passati dai 1.033.877 casi definiti del 2001 ai 731.163 del 2019 con una contrazione del 29,2%.
[13] G. Salvemini, Anno santo e amnistia, in Scritti vari (1900-1957), Milano, Feltrinelli, 1978, p. 889.
[14] Cfr., ancora, i dati pubblicati su Dgstat (rinvenibili al seguente link https://reportistica.dgstat.giustizia.it/VisualizzatoreReport.Aspx?Report=/Pubblica/Statistiche della DGSTAT/Materia Penale/1. Movimento dei procedimenti/1. dati nazionali/1. tutti gli uffici in serie storica).
[15] Si tratta di un’elaborazione sui dati desunti da Annuario Istat 2019, p. 217; Annuario Istat 2018, p. 211; Annuario Istat 2017, p. 207.
[16] Cfr. G. Mammone, Relazione del Primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, Roma, 31 gennaio 2020, p. 27.
[17] Si veda ancora G. Mammone, Relazione, cit., p. 28.
[18] Si tratta di dati ministeriali, desunti dal seguente link https://reportistica.dgstat.giustizia.it/VisualizzatoreReport.Aspx?Report=/Pubblica/Statistiche della DGSTAT/Materia Penale/2. Modalita di definizione/1. dati distrettuali/9. procura ordinaria.
[19] Cfr. P. Curzio, Relazione del Primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, Roma, 29 gennaio 2021, p. 29.
[20] I dati sono anche in questo caso rinvenibili all’indirizzo https://reportistica.dgstat.giustizia.it/VisualizzatoreReport.Aspx?Report=/Pubblica/Statistiche della DGSTAT/Materia Penale/2. Modalita di definizione/1. dati distrettuali/7. tribunale ordinario gip gup.
[21] Cfr. P. Curzio, Relazione, cit., p. 30.
[22] Annuario Statistico italiano 2019, p. 218.
[23] Si consenta il rinvio in proposito a M. Gialuz-J. Della Torre, Il progetto governativo di riforma della giustizia penale approda alla Camra: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in Sist. pen., 2020/4, p. 169 ss.
[24] I dati del numero complessivo delle sentenze di applicazione della pena dall’anno 2001 al 2006 si possono trovare pubblicati in M. Gialuz, voce Applicazione della pena su richiesta delle parti, in Enc. dir., Annali II, vol. I, Milano, Giuffrè, 2008, p. 17, nota 17.
[25] I dati complessivi per gli anni 2013-2014 e 2014-2015 sono tratti da G. Canzio, Relazione del Primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2015, Roma, 28 gennaio 2016, p. 53.
[26] Cfr. ancora M. Gialuz-J. Della Torre, Il progetto governativo, cit., p. 171 s.
[27] Sulla diffusione in Europa del genus delle archiviazioni condizionate, cfr., tra i tanti, M.G. Aimonetto, L’archiviazione “semplice” e la “nuova” archiviazione “condizionata” nell’ordinamento francese: riflessioni e spunti per ipotesi di “deprocessualizzazione”, in Leg. pen., 2000, p. 99 ss.; G. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2020, p. 11 ss.; M. Chiavario, L’espansione dell’istituto della “tenuità del fatto”: frammenti di riflessione su alcuni aspetti chiaroscurali, in I nuovi epiloghi del procedimento penale per particolare tenuità del fatto, a cura di S. Quattrocolo, Torino, Giappichelli, 2015, p. 259 ss.; I. Gasparini, La giustizia riparativa in Francia e Belgio tra istituti consolidati e recenti evoluzioni normative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1982 ss.; L. Lupária, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale nel quadro comparativo europeo, in Giur. it., 2002, p. 1751 ss.; E.M. Mancuso, La giustizia riparativa in Francia e Germania: tra “Legalitätsprinzip” e via di fuga del processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1958 ss.; G. Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, Giuffrè, 2003, p. 197 ss.; K. Summerer, Diversion e giustizia riparativa. Definizioni alternative del procedimento penale in Austria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 143 ss.
[28] Per una recente analisi di tale disposizione in lingua italiana cfr. K. Javers, Uno sguardo critico attraverso la lente dei §§ 153, 153a StPO, in I nuovi epiloghi, cit., p. 175 ss., nonché L. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit., p. 11 ss.
[29] I dati sono tratti dalle statistiche ufficiali pubblicate nella serie Statistiches Bundesamt, Rechtspflege. Staatsanwaltschaften, Fachserie 10, Reihe 2.6, anni 2016-2020.
[30] I dati sono tratti dalle statistiche ufficiali pubblicate nella serie Statistiches Bundesamt, Rechtspflege, Strafgerichte, Fachserie 10, Reihe 2.3, anni 2016-2020.
[31] In proposito, v. in lingua italiana C. Mauro, Dell’utilità del criterio della non punibilità per particolare tenuità del fatto in un sistema di opportunità dell’azione penale. Esperienze francesi, in I nuovi epiloghi, cit., p. 155 ss., nonché L. Bartoli, La sospensione, cit., p. 29 ss.
[32] I dati sono tratti dalla serie statistica ufficiale Ministère de la Justice, Les chiffres-clés de la Justice, anni 2016-2020.
[33] In proposito, v. E. Mancuso, La giustizia riparativa, cit., p. 1958 ss., nonché M. Löschnig-Gspandl, Diversion in Austria: Legal Aspects, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2001, p. 281.
[34] Cfr. M. Artielle, La transaction pénale belge: évolution d’une procédure controversée, in www.dial.uclouvain.be.
[35] Al riguardo, v., da ultimo, J. Della Torre, La giustizia penale negoziata in Europa. Miti, realtà, prospettive, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2019, p. 448 s.
[36] Per i dovuti riferimenti dottrinali sul punto, cfr., ancora, J. Della Torre, La giustizia penale negoziata in Europa, cit., p. 581 ss.
[37] Il riferimento è a M. Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessioni su una nuova fase degli studi di giustizia criminale, in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), tomo II, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 1236, 1240.
[38] Per un’accurata ricostruzione, si legga, per tutti, J. Della Torre, La giustizia penale negoziata in Europa, cit., p. 52 ss.
[39] Il rinvio va in particolare a C. cost., 24 aprile 2020, n. 75, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., 20 febbraio 2019, n. 68, ivi; C. cost., 7 dicembre 2018, n. 231, ivi; C. cost., 27 aprile 2018, n. 91, ivi. In dottrina, cfr., senza pretesa di completezza, C. Cesari, La Consulta supera le perplessità e la messa alla prova si radica nel sistema penale, in Giur. cost., 2018, p. 794; C. Conti, La messa alla prova tra le due Corti: aporie o nuovi paradigmi?, in Dir. pen. proc., 2018, p. 677; J. Della Torre, Riti consensuali ed errore giudiziario: un binomio ricco di criticità, in L’errore giudiziario, a cura di L. Lupária, Milano, Giuffrè, 2021, p. 436; L. Parlato, La messa alla prova dopo il dictum della Consulta: indenne ma rivisitata in attesa di nuove censure, in Dir. pen. cont., 2019, f. 1, p. 103; A. Sanna, Procedimenti contratti e attività riparative dell’imputato, in questa Rivista, 2020, p. 564.
[40] Così, testualmente, C. cost., 20 febbraio 2019, n. 68, cit.
[41] La citazione è tratta da C. cost., 27 aprile 2018, n. 91, cit.
[42] Cfr. Cass., sez. un., 31 marzo 2016 n. 36272, in Dir. & giust., 2 settembre 2016.
[43] Così, testualmente, C. cost., 20 febbraio 2019, n. 68, cit.
[44] Cfr., tra gli altri, O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in Dir. pen. cont., 9 aprile 2019, p. 8 e F. Peroni, La messa alla prova per adulti nuovamente al vaglio della Corte costituzionale, in Dir. pen. proc., 2019, pp. 959-960.
[45] Per riprendere l’efficace espressione di L. Marafioti, La “metamorfosi” del pubblico ministero nel nuovo processo penale, in Giur. it., 1990, c. 116 ss.
[46] Tra le tante, C. cost., 20 maggio 2019, n. 132, in Giur. cost., 2019, p. 1543, con nota di M. Daniele, Le “ragionevoli deroghe” all’oralità in caso di mutamento del collegio giudicante: l’arduo compito assegnato dalla Corte costituzionale al legislatore; C. cost., 22 luglio 2011, n. 236; C. cost., 9 marzo 2007, n.67; C. cost., 23 gennaio 1997, n. 10.
[47] Per una lettura dell’obbligatorietà come canone che deve essere bilanciato con l’efficienza, O. Dominioni, Azione obbligatoria penale e efficienza giudiziaria, in Dir. pen. proc., 2020, p. 873 ss., secondo il quale «le norme costituzionali che danno pari copertura agli interessi di persecuzione penale e di efficienza giudiziaria prescrivono alla legge ordinaria il dovere di stabilire meccanismi procedurali di risoluzione di conflitti pratici tra i due interessi mediante criteri di bilanciamento determinati, e cioè idonei ad escludere le prassi dell’opportunità».
[48] Si vedano, in proposito, per tutti, M.G. Aimonetto, L’archiviazione “semplice” e la “nuova” archiviazione “condizionata”, cit., p. 116 ss.; F. Caprioli, L’archiviazione, Napoli, Jovene, 1994, p. 601; M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in Il pubblico ministero oggi, Milano, Giuffrè, 1994, p. 91 ss.; V. Grevi, Alla ricerca di un processo penale «giusto». Itinerari e prospettive, Milano, Giuffrè, 2000, p. 188; Id., Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per legge ordinaria?, in Dir. pen. proc., 1997, p. 495; R.E. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Riv. dir. proc., 2007, p. 875 ss.; L. Lupária, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale nel quadro comparativo europeo, cit., p. 1757 s.; E. Marzaduri, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, in Criminalia, 2010, p. 343; M. Miraglia, La messa alla prova dell’imputato adulto. Analisi e prospettive di un modello processuale diverso, Torino, Giappichelli, p. 316; R. Orlandi, L’insostenibile lunghezza del processo penale e le sorti progressive dei riti speciali, cit., p. 28 ss.; S. Quattrocolo, Esiguità del fatto e regole per l’esercizio dell’azione penale, Napoli, Jovene, 2004, p. 371 ss.
[49] Su questi istituti, v. da ultimo, G. Mannozzi, La diversion: gli istituti funzionali all’estinzione del reato tra processo e mediazione, in Alternative al processo penale? Tra deflazione, depenalizzazione, diversion e prevenzione, a cura di F. Consulich, M. Miraglia, A. Peccioli, Torino, 2020, p. 35 ss.
[50] L’espressione è presa in prestito da J. Pradel, La rapidité de l’instance pénale. Aspects de droit comparé, in Revue pénitentiaire et de droit pénal, 1995, p. 216.
[51] Cfr. P. Curzio, Relazione, cit., p. 24 s.