In tema di mandato d’arresto europeo, la Suprema Corte si è soffermata sui parametri di riferimento cui l’autorità giudiziaria dello Stato richiesto deve improntarsi nell’esercitare o meno la facoltà di opporre rifiuto alla consegna, ai sensi del nuovo art. 18-bis, lett. c), l. n. 69/2005. A parere dei giudici di legittimità, la Corte d’Appello è tenuta a verificare – anche in assenza di allegazioni documentali idonee – l’effettivo e stabile radicamento del condannato nel territorio nazionale, a nulla rilevando la pericolosità sociale dello stesso.
<Regarding to the European arrest warrant, the Supreme Court has focused on the reference parameters which the judicial authority of the executing Member State must be inspired to exercise or not the right to oppose refusal to surrender, in accordance with the new art. 18-bis lett. c) l. n. 69/2005. In the opinion of the Supreme Court, the Court of Appeal is required to verify - even in the absence of suitable documentary attachments - the effective and stable rooting of the sentenced person in the national territory, noting anything of the social danger of the same.
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1. La questione - 2. “Filosofia” del mandato d’arresto europeo … - 3. … E “storia” italiana - 4. I motivi di rifiuto della consegna: la travagliata disciplina dell’art. 18 - 5. La specifica causa ostativa inerente alla consegna del cittadino italiano e del cittadino europeo residente o dimorante in italia - 6. La decisione della corte - 7. I nodi ancora irrisolti - NOTE
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha affrontato la questione relativa al rifiuto opponibile alla richiesta di consegna del cittadino europeo residente in Italia avanzata con mandato di arresto europeo. Tematica, questa, quanto mai attuale, posto che la legge di delegazione europea 2018 [1] ha inciso sulla legge n. 69 del 2005, modificando il testo dell’art. 18 ed introducendo un nuovo art. 18-bis, distinguendo così – in linea con la decisione quadro 2002/584/GAI [2] – le ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna (art. 18) da quelle meramente facoltative (art. 18-bis). E proprio tra queste ultime risulta ora annoverata l’eventualità in cui l’eurordine adottato a fini esecutivi sia emesso nei confronti di un cittadino italiano o di un cittadino di altro Stato europeo residente nel territorio nazionale [art. 18-bis, lett. c)], in precedenza, invece, rientrante tra le ipotesi di rifiuto obbligatorie [art. 18, lett. r)]. Attualmente, dunque, la Corte d’Appello può – e non più deve – nell’ipotesi considerata rifiutare la consegna di tali soggetti, sempre che la pena o la misura di sicurezza siano eseguite in Italia, conformemente al diritto interno. In concreto, la vicenda sottesa alla decisione in esame traeva origine dal ricorso presentato da un cittadino rumeno, attinto da euromandato, la cui consegna alle autorità nazionali era stata accordata dalla competente Corte d’appello, che non aveva ritenuto di dover opporre alcun motivo di rifiuto; in particolare, nessuna considerazione era stata svolta sull’eventuale ricorrenza del requisito dello “stabile radicamento” in Italia del soggetto, ritenendosi invece decisiva ai fini dell’accoglimento dell’istanza di cooperazione la considerazione della sua pericolosità sociale. Investiti della questione, i giudici di legittimità coglievano l’occasione per fare il punto – anche alla luce del mutato contesto normativo – sui parametri valutativi cui l’autorità giudiziaria italiana deve attenersi nell’esercitare o meno la facoltà di opporre il rifiuto alla consegna, richiamando l’attenzione sulla ratio fondamentale sottesa alla disciplina in questione: garantire la finalità rieducativa della pena ex art. 27 Cost., [continua ..]
Come è noto, il mandato d’arresto europeo, introdotto con la decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 (2002/584/GAI), si sostanzia in una ‹‹decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro in vista dell’arresto e della consegna da parte di un altro Stato membro di una persona ricercata ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà›› [3]. Per cogliere appieno la portata innovativa – se non addirittura rivoluzionaria – del nuovo istituto, è necessario ripercorrere le ragioni che hanno portato l’Europa dei 27 alla sua elaborazione. In un’Unione in fieri, in cui idealmente e formalmente venivano aboliti i confini degli Stati membri con la c.d. “Area Schengen”, si andava sempre più affermando l’esigenza di adottare schemi di cooperazione giudiziaria più rapidi e semplificati rispetto ai classici meccanismi estradizionali – troppo lunghi, farraginosi, burocratizzati, nonché esposti all’influenza dirimente della volontà dell’organo di vertice politico – e, come tali, inadatti a fronteggiare una criminalità sempre più transnazionale, in seguito all’abbattimento delle frontiere intracomunitarie e alla libera circolazione di persone e merci. Di qui, a partire dalla fine degli anni Novanta, con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam – che ha fissato l’obiettivo della realizzazione di uno “spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia” [4] – l’affermarsi di una sempre più forte esigenza di modifica degli istituti di cooperazione giudiziaria vigenti. La consapevolezza dell’impossibilità di conseguire – almeno in tempi brevi – un obiettivo quanto mai ambizioso e difficile quale la realizzazione di un’omogeneità legislativa europea, induceva gli Stati a preferire la più praticabile via dell’elaborazione di nuovi archetipi di collaborazione, in grado di fronteggiare più efficacemente le nuove forme di criminalità transfrontaliera. L’idea di fondo era quella di introdurre moduli di cooperazione più fluidi e rapidi, fondati sulla confiance mutuelle esistente tra i Paesi membri. Preso atto, insomma, [continua ..]
Di fatto, la portata innovativa del nuovo strumento di cooperazione è dipesa, in larga parte, dal modo in cui le leggi interne hanno dato attuazione alla decisione quadro 2002/584/GAI. Invero, nonostante la chiarezza ed inequivocità della fonte europea, non sono mancati atteggiamenti eterodossi all’atto dell’implementazione della stessa, segno della volontà degli Stati interessati di non voler assumere il ruolo di “meri esecutori” [20] della decisione quadro sovranazionale. In tal senso, un esempio significativo è costituito dalla legge n. 69 del 22 aprile del 2005, con la quale il legislatore italiano ha dato attuazione alla citata decisione quadro, la quale per più versi si discosta dalla ratio ispiratrice della normativa europea, inibendone la carica evolutiva e presentando elementi disarmonici con la stessa, sì da indurre reiteratamente la giurisprudenza ad interventi ermeneutici correttivi, finalizzati a neutralizzare le principali distorsioni della normativa di recepimento [21]. Che la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo non sia stata accolta, nel nostro Paese, con particolare entusiasmo è un dato difficilmente controvertibile. Ne sono dimostrazione, da una parte, il travagliato iter normativo; dall’altra, il ritardo – di oltre due anni rispetto al termine fissato – con cui il legislatore italiano ha approvato la legge di recepimento. La ragione di tanta diffidenza risiedeva nella volontà di scongiurare il rischio di un possibile contrasto della nuova disciplina di consegna con i principi costituzionali [22]. In particolar modo durante l’iter di approvazione della disciplina, la Commissione Affari Costituzionali aveva invitato a valutare attentamente alcuni aspetti della decisione quadro, sottolineando la necessità di tener conto della natura politica del reato ai fini della consegna (come disposto dagli artt. 10 e 26 Cost.) [23]; di evitare che la rinuncia alla doppia incriminazione si concretizzasse nella violazione dei canoni di uguaglianza, legalità e di tutela della difesa (artt. 3, 24, 25 Cost.); di assicurare ai minori un trattamento conforme ai principi di cui agli artt. 27 e 31 Cost. e, infine, di uniformare la disciplina del nuovo istituto alla previsione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, come [continua ..]
Tra le novità introdotte con la decisione quadro 2002/584/GAI, l’enumerazione dei motivi di rifiuto della consegna e la predeterminazione dei termini massimi di durata della fase passiva della procedura sono stati aspetti decisivi per la trasformazione del sistema di cooperazione. Ciò in quanto hanno confinato la consegna internazionale ad un ambito esclusivamente tecnico- giudiziario, eliminando i poteri di impulso e di veto tradizionalmente spettanti alle autorità centrali nell’ambito della disciplina estradizionale [29]. L’individuazione di motivi di diniego tassativi si era resa necessaria per diverse ragioni: in primo luogo, per garantire l’omogeneità della procedura passiva nell’ambito del mandato d’arresto europeo; per la natura stessa del nuovo strumento di cooperazione che, in virtù della fiducia reciproca tra Stati membri, ha come presupposto la condivisione di valori comuni e il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo; per circoscrivere il controllo effettuato dalle singole autorità nazionali alla mera verifica dei requisiti formali e all’assenza dei motivi ostativi [30] nonché per evitare discriminazioni nei confronti delle persone attinte dall’euromandato, a seconda dell’ampiezza del controllo operato dalla giurisdizione di ciascuno Stato di esecuzione. Nella decisione quadro, la disciplina del non riconoscimento o della non esecuzione dell’eurordinanza è contenuta, come detto, negli artt. 3, 4 e 4-bis, che distinguono tra motivi di rifiuto obbligatori e facoltativi. Tali previsioni, tuttavia, non sono state attuate dalle legislazioni interne in modo uniforme: da una parte, (numerosi) Stati membri hanno seguito l’impostazione della fonte europea, recependo la distinzione tra motivi di rifiuto obbligatori e facoltativi; dall’altra, altri hanno, invece, elaborato una disciplina – almeno in parte – diversa. Tra questi ultimi, come già anticipato, l’Italia. L’articolo 18 l. n. 69/2005 rappresenta il frutto di quell’atteggiamento cauto e prudente di cui si è detto. Se, infatti, il mandato d’arresto si poggia su tre assi ben definiti quali ‹‹la centralità della funzione delle autorità giudiziarie, il reciproco riconoscimento della qualità “giusta” di ciascun sistema di [continua ..]
Come anticipato, le novità apportate dalla l. n. 117/2019, seppur tanto attese, non hanno sorpreso gli addetti ai lavori. La nuova legge, riallacciandosi a due importanti pronunce – una della Corte costituzionale e l’altra della Corte di Giustizia [38] – è intervenuta a modificare il controverso e dibattuto art. 18, comma 1, lett. r), l. n. 69/2005, relativo al rifiuto della consegna del cittadino italiano e del cittadino europeo residente o dimorante sul territorio nazionale sciogliendo, almeno in parte, alcuni dei nodi più controversi relativi alla medesima disciplina. Per poter comprendere pienamente quest’ultimo intervento normativo è necessario delineare – seppur brevemente – la disciplina sovranazionale e nazionale, rispettivamente prevista dall’art. 4 n. 6 decisione quadro 2002/584/GAI e dall’art. 18 comma 1 lett. r) l. n. 69/2005, e ripercorre le problematiche relative a quest’ultima disposizione che, nella sua formulazione originaria, ha generato un vero e proprio conflitto giurisprudenziale. L’articolo 4, n. 6 della fonte europea prevede l’ipotesi della consegna facoltativa di un soggetto, destinatario di un mandato d’arresto ai fini esecutivi, che dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, a condizione che tale Stato si impegni ad eseguire esso stesso la pena o la misura di sicurezza, in conformità al diritto interno. Al contrario, la scelta operata dal legislatore italiano non prevedeva in alcun modo la possibilità di non dare esecuzione all’eurordine quando la richiesta riguardava un cittadino di un altro Stato membro. La causa ostativa de qua, infatti, non solo era stata recepita, nel nostro ordinamento, come obbligatoria, ma ne era stato ridotto il raggio d’azione al solo cittadino italiano: ‹‹la Corte d’Appello rifiuta la consegna se il mandato d’arresto è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale. Qualora la persona ricercata sia un cittadino italiano, sempre che la Corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno›› [art. 18 comma 1 lett. r)]. Di conseguenza, la clausola interna non si applicava, a differenza di quanto previsto a livello sovraordinato, al [continua ..]
Alla luce delle sue esposte argomentazioni, è chiaro, dunque, che la sentenza in commento non rileva tanto per la novità del principio di diritto affermato, quanto per l’individuazione di quei criteri che rappresentano il binario su cui la Corte d’Appello deve muoversi per valutare se eseguire o meno il mandato d’arresto, mettendo ancora una volta in luce la ratio sottesa al motivo di rifiuto della consegna del cittadino italiano e del residente non cittadino. Per un corretto esercizio del potere discrezionale di opporre o meno la causa ostativa, è necessaria una valutazione conforme ai criteri normativi posti a fondamento dell’art. 18-bis lett. c). A nulla rileva, infatti, che lo stesso, a seguito della l. n. 117/2019, abbia acquisito il carattere della facoltatività. D’altro canto, la norma si pone l’obiettivo – come affermato dalla Consulta con la citata sentenza additiva n. 227/2010 – di accrescere e garantire le opportunità di reinserimento sociale, una volta espiata la pena. Ciò in quanto la finalità rieducativa, ex art. 27 Cost., potrebbe essere compromessa laddove la persona fosse costretta a subire una detenzione carceraria in luoghi distanti dal proprio contesto sociale. La previsione de qua, dunque, consente alla Corte di appello di rifiutare la consegna solo al ricorrere di un interesse concreto e meritevole di tutela a che la pena sia scontata nel territorio dello Stato di esecuzione. Valutazione, questa, che prescinde dal grado di pericolosità sociale della persona condannata. Ne consegue che il motivo di rifiuto di cui all’art. 18-bis lett. c), seppur facoltativo, continua ad essere ancorato agli stessi parametri valutativi: resta soggetto ad una verifica sostanziale – e non semplicemente formale – dell’esistenza per il cittadino di un altro Stato membro dell’Unione dei requisiti di collegamento con il territorio italiano. L’accertamento – ribadiscono gli Ermellini – non deve avere ad oggetto il solo requisito della residenza, intesa come stabile e non estemporaneo radicamento nello Stato di esecuzione, ma deve altresì verificare la sussistenza di un legame qualificato, avvalendosi di alcuni indici concorrenti: la legalità nel territorio dello Stato italiano, l’apprezzabile continuità temporale e la [continua ..]
Tuttavia, a ben vedere, il legislatore ha perso – ancora una volta – l’occasione di approfondire l’ulteriore questione relativa alla possibilità di estendere la causa ostativa de qua anche al cittadino extracomunitario. Tematica, questa, complessa e quanto mai attuale. Invero, nel 2018, questa ipotesi era già stata affrontata dalla Corte di Cassazione che, nel non ritenere fondato il motivo, aveva però chiarito la sua posizione al riguardo [56]. In quest’ occasione, i giudici di legittimità avevano, in primo luogo, affermato che ad escludere la possibilità di un’estensione della causa a favore dei cittadini extracomunitari fosse lo stesso dato letterale della norma [art. 18 lett. r)] che si riferiva esclusivamente al “cittadino italiano” e al “cittadino di altro Stato membro”. In secondo luogo, avevano evidenziato che tale esclusione non avrebbe dato luogo ad alcuna violazione del principio di non discriminazione dei cittadini dell’Unione in base alla nazionalità. Al contrario, parte della dottrina [57], pur tenendo conto del dato letterale della norma, ha ritenuto possibile estendere la sua portata anche ai cittadini extra europei in virtù del testo dell’art. 4 n. 6 nonché dell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia. In primis, perché la nozione di dimorante e di residente non è vincolata in alcun modo alla cittadinanza europea (art. 20 TFUE) sicché tale scelta lascia modo di pensare che l’intenzione del legislatore fosse proprio quella di ricomprendere nella fattispecie qualsiasi tipo di legame qualificato con lo Stato ospite. Inoltre, perché l’esclusione dei cittadini extracomunitari potrebbe dar luogo alla violazione di alcuni principi di rango costituzionale, ovvero gli artt. 3 e 27 della Costituzione. D’altro canto, ad essere tutelato dalla norma è il diritto del condannato a scontare la pena nello Stato in cui vive abitualmente, a prescindere dalla nazionalità e, dunque, dai confini europei. Gli stessi argomenti sono stati, recentemente, utilizzati dai giudici della Suprema Corte che, nuovamente investiti della questione, hanno adito in via incidentale la Corte costituzionale [58]. Nel tessuto motivazionale i giudici remittenti hanno valorizzato, in particolar modo, [continua ..]