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Il difficile raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato

di Giuseppe Tabasco

La Suprema Corte è tornata sul tema del raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato, statuendo, nell’ipotesi specifica di richiesta di giudizio abbreviato con atto di opposizione a decreto penale di condanna, che le risultanze dell’investigazione difensiva non siano acquisibili. La decisione appare condivisibile atteso che, nel caso di specie, la richiesta di acquisizione dei dati dell’indagine privata è intervenuta successivamente alla richiesta di giudizio abbreviato incondizionato. Tuttavia, sembra che permanga il vulnus del diritto di difesa, che indurrebbe ad ipotizzare un dubbio di incostituzionalità.

 
The difficult question of defence investigations and shortened proceedings

The Supreme Court has returned to the issue of reconciliation between defence investigations and shortened proceedings, ruling, in the specific event of request for shortened proceedings with a file of objection to the criminal conviction, that the findings of the defence investigations must not be available. The decision appears acceptable, provided that, in the case in question, the request for the brief from the private investigation takes place successively to the request for unconditional short trial. However, it would seem that violation of the right of defence persists, which would raise the question of possible unconstitutionality.

L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DEL RITO ABBREVIATO

Con la sentenza che si annota la Corte regolatrice è tornata sul tema del raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato, sebbene nell’ipotesi particolare in cui il rito speciale è stato disposto in seguito a richiesta formulata con l’atto di opposizione a decreto penale di condanna. Occorre, quindi, esaminare preliminarmente l’evoluzione normativa che ha subito sia la disciplina del giudizio abbreviato che quella dell’investigazione difensiva.

Il carattere accusatorio di un sistema processuale impone che all’accertamento della responsabilità dell’imputato si pervenga con il massimo delle garanzie, nel rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova [1].

Tuttavia, il rispetto delle garanzie implica una maggiore complessità delle forme, nonché un allungamento dei tempi di svolgimento del processo. In particolare, del dibattimento, laddove occorre assu­mere le prove dichiarative con il metodo dell’esame incrociato [2]. Ne consegue, come dimostrano le lunghe esperienze applicative del rito accusatorio nei paesi di common law, che l’amministrazione della giustizia non potrebbe reggere se la maggior parte dei procedimenti penali non venisse definita attraverso procedure alternative semplificate [3]. In altre parole, il processo accusatorio è un meccanismo complesso e particolarmente garantista, che va adoperato con parsimonia [4], nei soli casi nei quali vi sia un serio contrasto tra accusa e difesa [5] e la vicenda non possa concludersi attraverso itinerari processuali semplificati.

È pur vero che l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge imporrebbe di adottare un unico iter procedurale attraverso cui accertare la responsabilità penale, capace, da un lato, di garantire alla stessa maniera i diritti delle parti; dall’altro, di assicurare sul piano delle stesse forme la correttezza delle decisioni [6]. Ma l’esigenza di prevedere modelli processuali differenziati, attesa la complessità dei procedimenti, era palesata dalla stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, laddove veniva affermato che ai procedimenti speciali «è affidata in gran parte la possibilità del funzionamento del procedimento ordinario, che prevede meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata» [7]. D’altronde, anche nelle codificazioni previgenti era prevista la semplificazione o addirittura l’omissione di taluni adempimenti processuali nell’ipotesi di scarsa gravità del reato da perseguire o evidente fondatezza dell’accusa [8]. L’esigenza, quindi, si traduceva nell’introduzione accanto al modello ordinario di una gamma di moduli processuali alternativi, variamente congegnati in rapporto a specifiche situazioni normativamente prefissate, onde incentivare l’accesso ad itinerari processuali più adeguati alla vicenda concreta, al fine di realizzare una decisione celere, l’economicità delle procedure e la maggiore efficienza del sistema penale misurata sulla tempestività della risposta sanzionatoria [9].

Tra tali procedimenti alcuni si innestavano sul tronco di schemi procedimentali in parte conosciuti. Viceversa il giudizio abbreviato si presentava privo di retroterra culturale [10], con una connotazione fortemente inquisitoria [11]. Infatti, nel testo originario del codice del 1988 l’imputato chiedeva di essere giudicato «allo stato degli atti», i quali, in realtà, coincidevano con quelli raccolti dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. Di tal guisa, rinunciava alla formazione della prova in dibattimento. Tuttavia, affinché potesse essere disposto il rito alternativo, occorrevano anche il consenso del pubblico ministero e la valutazione del giudice circa la possibilità di definire il processo «allo stato degli atti», senza alcuna integrazione probatoria. Veniva, così, tratteggiato un modello processuale, che avrebbe avuto vita difficile nella pratica giudiziaria, attesi i profili di criticità che presentava in ordine alle condizioni di accesso, ai limiti oggettivi di applicabilità e alla assenza di una propria autonoma fase istruttoria. Sotto il primo profilo, mette conto di rilevare che il dissenso del pubblico ministero, in merito all’accesso al rito, precludeva all’imputato il diritto ad ottenere uno sconto di pena in caso di condanna, incidendo così anche sugli effetti sostanziali.

Chiamata a pronunciarsi sul punto, la Corte costituzionale affermava che il dissenso del pubblico ministero dovesse essere motivato [12], sulla base dell’unico paradigma utilizzabile, costituito dalla definibilità del processo «allo stato degli atti» [13]. In linea con tale prospettiva, non essendo possibile riconoscere la riduzione di pena in sede propria, atteso il mancato perfezionamento del negozio, la Corte demandava il sindacato circa la legittimità del dissenso da parte del pubblico ministero al giudice del dibattimento, che avrebbe concesso lo sconto di pena previsto dall’adozione del rito alternativo, qualora fosse stata accertata la illegittimità del dissenso medesimo [14]. Tuttavia, il vincolo della definibilità del giudizio «allo stato degli atti», che precludeva ogni integrazione probatoria, una volta instaurato il rito, costituiva il profilo più problematico del modello processuale in questione. Nella prospettiva del superamento di tale limite si sviluppava la successiva giurisprudenza della Corte costituzionale, che, essendo consapevole di non poter incidere su una materia contraddistinta da profili di discrezionalità legislativa, più volte invitava il legislatore a ricondurre la normativa sul giudizio abbreviato a piena coerenza con i principi costituzionali [15]. In ogni caso, gli interventi della Corte costituzionale, assicurando il diritto dell’imputato allo sconto di pena, a fronte di dinieghi immotivati, avevano ricondotto nei paradigmi della costituzionalità il modello processuale in parola. Ma, l’introduzione di un meccanismo che demandava al giudice del dibattimento di verificare se il dissenso del pubblico ministero fosse da ritenere ingiustificato e qualora la verifica si fosse risolta negativamente, di riconoscere all’imputato la riduzione della pena prevista, ex art. 442, comma 2, c.p.p., spezzava «il nesso sinallagmatico tra semplificazione del rito e beneficio» [16], consentendo all’imputato che aveva chiesto la definizione del giudizio allo stato degli atti, di ottenere, in caso di condanna, al termine del dibattimento, uno sconto di pena cui non corrispondeva alcuna effettiva economia di sistema, in quanto il giudizio si era svolto nelle forme ordinarie [17]. Si imponeva, quindi, una profonda revisione normativa del giudizio abbreviato, «divenuto pressoché inservibile come strumento di deflazione dibattimentale, anche a causa delle considerevoli difficoltà interpretative ed applicative provocate dall’impatto» con la disciplina codicistica delle sentenze della Corte costituzionale, che ne avevano sconvolto l’impianto originario. La legge 16 dicembre 1999, n. 479 ha assolto tale compito e, nell’ottica di ottemperare ai moniti della Corte costituzionale, ha riforgiato interamente il rito, con l’abbandono delle logiche negoziali su cui si fondava il paradigma originario [18]. Anzitutto, viene meno il consenso del pubblico ministero, che, come noto, nella disciplina previgente costituiva requisito essenziale per l’ammissibilità del rito alternativo. Inoltre, viene superato definitivamente il modello di giudizio allo «stato degli atti»: il rito diviene ammissibile sulla base della mera richiesta formulata dall’imputato [19]. Sono previsti, infatti, in seguito alla modifica legislativa, due diversi moduli procedurali di accesso al rito, che non hanno più alcuna connotazione di tipo negoziale, costituendo entrambi manifestazione di volontà che promana dalla libera ed esclusiva scelta dell’im­putato. Il primo modulo non è subordinato ad alcun presupposto e, pertanto, una volta che l’imputato abbia formulato la richiesta, il giudice deve disporre il giudizio abbreviato con ordinanza [20]. Il secondo modulo, invece, prevede la subordinazione della richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. In tal caso, il giudice, «tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili», dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria sia davvero «necessaria» per decidere il merito della causa [21] e se l’assunzione delle prove richieste dall’imputato sia «compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento» [22]. Innovando rispetto alla previgente disciplina, che non forniva alcuna indicazione circa il materiale che il giudice avrebbe potuto legittimamente porre a fondamento della sua decisione, il legislatore del 1999 «ha espressamente indicato gli atti utilizzabili ai fini della decisione destinata a concludere il giudizio abbreviato» [23]. Secondo quanto stabilito dall’art. 442, comma 1 bis, c.p.p., si tratta degli atti depositati dal pubblico ministero unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, degli atti delle indagini suppletive, ossia le attività investigative espletate in vista dell’udienza preliminare e, infine, delle prove assunte nell’udienza, intendendo riferirsi, con tale espressione, sia all’udienza preliminare che all’udienza destinata allo svolgimento del giudizio abbreviato [24]. Tuttavia, l’elencazione non è tassativa e, pertanto, il novero degli atti utilizzabili ai fini della decisione va coordinato con la l. 7 dicembre 2000, n. 397 [25], che ha ampiamente revisionato la normativa avente ad oggetto l’investigazione difensiva. In tal senso, sembra non esservi dubbio che gli atti investigativi formati dalla difesa e messi a disposizione del giudice prima della richiesta di giudizio abbreviato, entrino a far parte del compendio probatorio utilizzabile ai fini della decisione. Sennonché, di tal guisa, la piattaforma conoscitiva del giudice risulta composta sia da atti di indagine del pubblico ministero che da atti formati attraverso l’investigazione difensiva. Sull’uso di tali atti, in caso di accesso al rito abbreviato nella forma incondizionata, è sorta una accesa disputa.

L’USO DEI RISULTATI DELLE INVESTIGAZIONI DIFENSIVE NEL GIUDIZIO ABBREVIATO INCONDIZIONATO

All’entrata in vigore del codice di rito penale del 1988, l’art. 38 norme att. attribuiva alle parti private la «facoltà di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che possano dare informazioni». Tuttavia, la norma non dava indicazioni sulle modalità operative e, perciò, si rivelava particolarmente difficoltoso individuare la tipologia degli atti investigativi che il difensore avrebbe potuto compiere, nonché la loro documentazione ed utilizzabilità nelle varie fasi procedimentali.

Tali lacune non venivano colmate neanche dalla l. 8 agosto 1995 n. 332, sebbene, attraverso l’integra­zione dell’art. 38 in parola, da un lato, riconosceva «che la prova e la sua documentazione, ad opera del difensore delle parti private, è legittima anche per la fase delle indagini preliminari, battendo così in breccia quell’indirizzo giurisprudenziale che la voleva “canalizzata” attraverso l’ufficio del pubblico ministero»; dall’altro, perveniva «al concetto della legittimità (e, quindi, della rilevanza processuale) della documentazione raccolta dal difensore nel corso delle sue investigazioni» [26].

Soltanto con la l. 7 dicembre 2000, n. 397 la materia dell’investigazione difensiva è stata profondamente innovata, «con notevoli ripercussioni anche sugli equilibri interni alla disciplina dei procedimenti alternativi» [27].

Oggi, infatti, il difensore può svolgere investigazioni in ogni stato e grado del procedimento, ex art. 327 bis c.p.p., e, nei limiti soggettivi ed oggettivi dell’indagine, fissati dal legislatore, ha il potere di formare unilateralmente materiale probatorio da utilizzare nell’ambito delle varie fasi procedimentali, ex art. 391 bis e ss. c.p.p. [28]. Pertanto, dopo aver raccolto notizie processualmente rilevanti e selezionato i dati favorevoli all’imputato, la difesa può produrre all’udienza preliminare, ex art. 391 octies c.p.p., il proprio fascicolo delle indagini, allo scopo di ottenere un loro impiego e, contestualmente, o in stretta successione temporale, formulare richiesta di giudizio abbreviato.

La dottrina metteva subito in luce come tale meccanismo contenesse in sé il segno di una alterazione della simmetria delle parti voluta dalla Carta fondamentale, ossia lo squilibrio, sul piano dei principi fondamentali e delle coordinate di sistema, derivante dalla potestà riconosciuta all’imputato di far acquisire valore probatorio a tutti gli atti della fase preliminare, ivi compresi quelli della propria attività investigativa, in virtù del consenso manifestato unilateralmente alla celebrazione del giudizio abbreviato [29], senza che il pubblico ministero potesse manifestare alcuna reciproca volontà in merito all’uso degli atti raccolti dalla parte privata. Di tal guisa, il pubblico ministero, dopo essere stato escluso ex lege dalla scelta del giudizio abbreviato, veniva, anche, privato del diritto di controesaminare la fonte di prova, le cui dichiarazioni siano state allegate dalla difesa quali atti di indagine privata, nonché della facoltà di articolare la prova contraria, con conseguente violazione del principio del contraddittorio e della parità tra le parti [30].

Al fine di fugare i dubbi di costituzionalità prospettati, in dottrina, veniva proposto di equiparare le prerogative del pubblico ministero in relazione ad entrambi i moduli procedurali di accesso al rito, di guisa che qualora la difesa indicasse nuove acquisizioni probatorie a discarico, formate attraverso la propria attività investigativa, ma non presentate, ex art. 391 octies c.p.p., anteriormente alla richiesta di rinvio a giudizio, la richiesta di giudizio abbreviato «sarebbe più che ragionevolmente assimilabile alla forma condizionata» e, pertanto, il pubblico ministero recupererebbe il diritto alla prova contraria, ai sensi dell’art. 438, comma 5, c.p.p. Del pari, qualora gli atti dell’investigazione difensiva venissero depositati nel corso dell’udienza preliminare e, contestualmente, l’imputato optasse per la definizione del giudizio con rito abbreviato, si potrebbe tentare di superare il vuoto normativo con il ricorso all’a­nalogia. Infatti, opinando che la presentazione dei risultati delle investigazioni difensive anteriormente alla richiesta del rito abbreviato, abbia la medesima ratio della domanda di integrazione probatoria formulata ai sensi dell’art. 438, comma 5, c.p.p., ne consegue che al pubblico ministero va riconosciuto il diritto alla prova contraria secondo quanto previsto per il giudizio abbreviato condizionato [31].

Ma l’impostazione della Corte costituzionale si è rivelata diversa, fugando i dubbi di costituzionalità paventati.

In una prima occasione, messa in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 438 comma 5, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che, in caso di deposito di indagini difensive seguito dalla richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, fosse consentito al pubblico ministero l’esercizio della prova contraria, così come previsto nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato [32], il Giudice delle leggi dichiarava la questione manifestamente infondata, affermando che la rettifica della asimmetria non deve passare necessariamente attraverso una dichiarazione di incostituzionalità della norma, ben potendosi pervenire allo stesso risultato, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata del sistema vigente [33].

Di tal guisa, veniva indicato chiaramente il percorso costituzionalmente obbligato da seguire. Tuttavia, costituendo il raccordo tra giudizio abbreviato e investigazioni difensive un intreccio tematico di cospicua rilevanza, il tema veniva nuovamente sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, sebbene sotto una differente prospettiva.

Questa volta il giudice remittente riteneva che contrastasse con l’art. 111, commi 2 e 4, nonché con l’art. 3 Cost. il meccanismo che consente la utilizzabilità nel giudizio abbreviato delle risultanze delle investigazioni difensive, a seguito del consenso dell’imputato, ossia della parte stessa che ha formato tali atti. Tale meccanismo, a parere del giudice a quo, permetterebbe l’ingresso, nell’alveo del materiale utilizzabile ai fini della decisione, di atti formati da uno degli antagonisti senza che ciò possa ritenersi giustificato dal consenso dell’imputato, giacché esso «potrebbe avere ad oggetto solo gli elementi potenzialmente sfavorevoli all’imputato stesso, in quanto raccolti dalle altre parti, e non anche quelli scaturenti da una propria iniziativa d’indagine». Nel dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità la Corte costituzionale ha sottolineato anzitutto che «il principio del contraddittorio nel momento genetico della formazione della prova rappresenta precipuamente - nella volontà del legislatore costituente - uno strumento di salvaguardia del rispetto delle prerogative dell’imputato» e perciò la legge può rendere rinunciabile in via unilaterale l’assunzione dialettica della prova [34]. Ovviamente, le deroghe autorizzate al contraddittorio per la prova devono attuarsi in termini compatibili con il principio di parità delle parti. In tal senso l’art. 111, comma 2, Cost. ha l’effetto di «impegnare il legislatore ordinario a evitare che i presupposti e le modalità operative del riconoscimento all’imputato della facoltà di rinunciare alla formazione della prova in contraddittorio determinino uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti o addirittura una alterazione del sistema». Nel giudizio abbreviato, in particolare, la mancata previsione del consenso vicendevole di ciascuna parte, quale condizione necessaria all’uso degli atti formati dall’antagonista, non determina alcuna irragionevole disparità di trattamento se si considera che la fase delle indagini preliminari è «caratterizzata da un marcato squilibrio di partenza fra le posizioni delle parti, correlato alla funzione istituzionale del p.m.», i cui risultati sono oggetto di integrale acquisizione a carico dell’imputato nell’ambito del procedimento speciale, sicché i poteri e i mezzi investigativi di cui dispone il pubblico ministero restano, pur dopo gli interventi della legge 7 dicembre 2000, n. 397, in materia di investigazioni difensive, «largamente superiori a quelli di cui fruisce la difesa».

Pertanto, «se dopo una fase così congegnata, viene offerto all’imputato uno strumento che, nel quadro dell’acquisizione globale dei risultati di tale fase, renda utilizzabili ai fini della decisione anche gli atti di indagine della difesa, non può ravvisarsi alcuna compromissione del principio costituzionale in questione». In altre parole, la facoltà attribuita all’imputato di tramutare in prova i propri atti di indagine viene a costituire uno strumento utile a ridurre il notevole divario con la parte pubblica, creatosi nella fase procedimentale anteriore [35].

In conclusione, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale, è ormai assodato che i risultati dell’investigazione difensiva, al pari di quelli dell’indagine svolta dal pubblico ministero vengano legittimamente acquisiti tra gli atti costituenti il compendio probatorio utilizzabile dal giudice ai fini della decisione conclusiva del giudizio abbreviato [36].

Sul tema si è aperto, in dottrina, un dibattito vivace e di grande profilo, con opinioni diametralmente opposte. Da un lato, è stato affermato che, nell’architettura dell’art. 111 Cost., il principio del contraddittorio nel suo significato di garanzia oggettiva circa il regime di formazione della prova nel processo penale assume un valore prioritario, rispetto a qualunque manifestazione del contraddittorio quale garanzia soggettiva dei diritti processuali dell’imputato e, quindi, «insuscettibile di essere scalfito dall’in­clusione del “consenso dell’imputato” stesso tra le fattispecie derogatorie ammesse dall’art. 111, comma 5, Cost.». Pertanto, atteso il significato che esso assume nella formazione della prova, «“quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti” e, dunque quale “connotato epistemologico del processo penale”», solo una lettura miope del dato letterale, «per di più indotta da un approccio di tipo ideologico (secondo cui il principio del contradditorio in quanto “garanzia soggettiva” dell’imputato, esaurirebbe la sua funzione nella tutela del “precipuo interesse” di quest’ultimo), può ammettere che basti il consenso dell’imputato, in virtù della disposizione contenuta nell’art. 111, comma 5, Cost., «a legittimare la deroga all’attuazione del principio del contraddittorio nella sua prevalente dimensione di “garanzia oggettiva” della giurisdizione penale». In altri termini, la Corte ha ritenuto configurabile il potere dell’impu­tato di chiedere il giudizio abbreviato come una sorta di diritto potestativo, «di fronte al cui esercizio il pubblico ministero viene a trovarsi in una situazione processuale di totale passività, fino a dover soggiacere anche all’utilizzabilità come prova», nell’ambito di tale rito, delle risultanze investigative della difesa formate unilateralmente. Tuttavia, che tale meccanismo possa giustificarsi a livello costituzionale come l’effetto di una rinuncia dell’imputato alla garanzia del contraddittorio riconducibile all’ipotesi del consenso cui allude l’art. 111, comma 5, Cost., sembra conclusione viziata da una premessa di sapore aprioristico, ossia ritenere «- non ostante la chiara enunciazione della doppia valenza del principio del contraddittorio, risultante dall’art. 111 commi 2, 3, 4 e 5 Cost. - che la relativa garanzia sia disponibile dall’imputato, in quanto dettata “precipuamente” a salvaguardia delle sue “prerogative” [37]. Dall’altro, ritenuto che «non esiste sul piano costituzionale un autonomo diritto del­l’accusa a contribuire alla formazione della prova», è stato sostenuto che, sebbene «sia corretto rilevare nel contraddittorio ai fini della formazione della prova un interesse dell’ordinamento a far entrare nel processo solo risultanze probatorie dotate della massima attendibilità qual è quella che scaturisce da un penetrante esame incrociato condotto dalla difesa», non sembra che vi sia «spazio alcuno per ritagliare dall’art. 111 nuovi poteri probatori dell’accusa tali da impedire all’imputato di avvalersi dei risultati delle indagini difensive nel giudizio abbreviato» [38].

Venendo alla dinamica di ingresso nel giudizio abbreviato degli atti formati attraverso l’investiga­zione difensiva mette conto di rilevare che la stessa Corte costituzionale individua la scansione dei passaggi procedurali, mettendo ordine nelle confuse ricostruzioni sorte in seguito alla prassi della difesa di produrre i risultati dell’investigazione contestualmente o subito prima della richiesta di giudizio abbreviato incondizionato.

Qualora la documentazione delle investigazioni difensive venga presentata nel corso delle indagini preliminari, nel caso di esercizio dell’azione penale, essa segue il fascicolo delle indagini che viene depositato presso la cancelleria del giudice dell’udienza preliminare. In questo momento sia il pubblico ministero che il difensore possono ancora svolgere indagini suppletive. Come noto, entrambe le parti vengono invitate a «trasmettere la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio».

Viceversa, nell’ipotesi che la documentazione delle investigazioni difensive avvenga all’inizio dell’u­dienza preliminare va rimarcato che il giudice dovrà adottare due provvedimenti in successione logica e cronologica.

Il primo è costituito dall’ordinanza con la quale il giudice dell’udienza preliminare ammette e dispone l’acquisizione degli atti presentati dal difensore e si colloca ancora nell’alveo dell’iter ordinario di tale fase prima che la stesa si trasformi in sede di celebrazione del rito abbreviato. Il termine entro il quale va effettuato, al più tardi, il deposito è identificato dalla Corte costituzionale nell’attimo che precede l’inizio della discussione a norma dell’art. 421 comma 3, c.p.p. Se, prima che siano formulate le conclusioni nell’u­dienza preliminare, l’imputato formula la richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, il pubblico ministero potrebbe valutare il quadro probatorio non sufficiente per tale rito. In tal caso può chiedere un differimento dell’udienza che sia congruo rispetto all’esigenza di contemperare la celerità processuale con «il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte “a sorpresa” dalla parte antagonista» [39]. Si riapre così uno spazio processuale che può consentire al pubblico ministero di compiere indagini suppletive e di depositare i nuovi atti o documenti onde esercitare il proprio diritto alla controprova [40].

Il secondo provvedimento è costituito dall’ordinanza di ammissione al rito abbreviato, che interviene soltanto una volta che il giudice abbia statuito sulla acquisizione al processo degli atti della difesa. A tal proposito, va rilevato che la giurisprudenza di legittimità, accogliendo l’impostazione della Corte costituzionale, ha statuito che «coincidendo il termine ultimo per la richiesta di giudizio abbreviato con quello per la formulazione delle conclusioni (art. 438 c.p.p., comma 2) il materiale probatorio utilizzabile dal giudice per la decisione (art. 442 c.p.p., comma 1-bis) non può che comprendere anche i risultati delle indagini difensive depositati in sede di udienza preliminare» [41].

Infine, quanto al valore da attribuire agli atti dell’investigazione difensiva, va rimarcato che, in dottrina, accanto a chi ritiene il materiale prodotto dalla difesa equiordinato ontologicamente a quello degli atti dell’indagine preliminare compiuta dal pubblico ministero v’è chi, partendo dall’inciso della motivazione della sentenza della Corte costituzionale in questione, secondo cui è «significativamente dissimile» la capacità dimostrativa della dichiarazione assunta unilateralmente dal difensore ai fini di indagine» rispetto a quella della «prova formata in contraddittorio», ritiene che, anche nel giudizio abbreviato, «la fruizione delle investigazioni difensive sarebbe limitata a un loro uso indiretto, volto alla sola valutazione di attendibilità di fonti e/o mezzi di prova, senza poter essere impiegate dal giudice (direttamente) per la ricostruzione del fatto e l’accertamento della colpevolezza» [42].

RICHIESTA DI GIUDIZIO ABBREVIATO INCONDIZIONATO CON ATTO DI OPPOSIZIONE A DECRETO PENALE DI CONDANNA E ACQUISIBILITÀ DELLE RISULTANZE DELL’INVESTIGAZIONE DIFENSIVA

La disciplina del giudizio abbreviato è dettata per l’ipotesi ordinaria o tipica, ossia quella che prevede la sua celebrazione nella sede naturale individuata nell’udienza preliminare. Tuttavia, il legislatore ha previsto che l’imputato possa chiedere il giudizio abbreviato anche nei casi in cui vengano disposti quei riti speciali che eliminano l’udienza preliminare, ovvero il giudizio direttissimo, il giudizio immediato e il procedimento per decreto [43].

Come anticipato, il caso oggetto della sentenza che si annota inerisce proprio all’ipotesi di giudizio abbreviato richiesto in sede di opposizione a decreto penale di condanna.

Nel procedimento per decreto, come noto, l’opponente può chiedere il giudizio abbreviato al giudice che ha emesso il decreto in parola, il quale, ricevuta la richiesta, fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, al difensore, all’imputato e alla persona offesa. Nell’udienza viene valutata soltanto la richiesta. Se accolta si procede a giudizio abbreviato, osservando le norme dell’udienza preliminare, in quanto applicabili.

Qualora l’imputato richieda il giudizio abbreviato incondizionato il giudice, una volta verificata la ritualità della richiesta, dovrà necessariamente disporre il rito speciale. La l. 16 dicembre 1999, n. 479, infatti, come già esposto, ha radicalmente trasformato l’istituto, che oggi si configura come un vero e proprio diritto dell’imputato, con la conseguenza che una volta formulata la richiesta al giudice non rimarrà che disporlo, salva, ovviamente, la possibilità, ove ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, di assumere anche d’ufficio, ex art. 441, comma 5, c.p.p., gli ulteriori elementi necessari ai fini della decisione.

Viceversa, in caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria, il giudice verificata la necessarietà delle prove ai fini della decisione e la compatibilità delle stesse con le finalità del rito, pronuncerà l’ordinanza con la quale disporrà l’ammissione delle prove richieste. Anche in tale ipotesi, qualora il giudice non possa decidere allo stato degli atti, può disporre, ex art. 441, comma 5, c.p.p., l’acquisizione di ulteriori elementi probatori necessari ai fini della decisione, con possibilità per il pubblico ministero e per l’imputato di richiedere l’ammissione di prova contraria. Gli atti utilizzabili ai fini della decisione sono quelli contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, cui vanno aggiunti i verbali delle prove assunte in udienza, in particolare di quelle assunte in virtù degli artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, del codice di rito penale.

Appare evidente che, in caso di richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, essendo fissata l’udienza al solo fine di valutare la richiesta e procedere alla celebrazione del giudizio medesimo, non si apre alcuno spazio processuale in cui la difesa possa chiedere l’ammissione della documentazione delle investigazioni difensive.

A tal fine, l’imputato dovrebbe avanzare una richiesta di abbreviato condizionato, indicando fra le prove di cui chiede l’ammissione la documentazione delle investigazioni difensive. Di tal guisa, se il giudice accoglie la richiesta il materiale istruttorio raccolto dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari verrà implementato proprio dalle risultanze dell’investigazione difensiva.

Viceversa, in caso di richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, l’indagine privata potrebbe fare ingresso nel processo soltanto in seguito ad una integrazione probatoria disposta dal giudice, allorché egli, ritenendo di non poter decidere alla stato degli atti, assume su richiesta di parte o d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione. In tal caso, oggetto della richiesta di parte potrebbero essere proprio i dati raccolti attraverso l’investigazione difensiva. Del pari, l’imputato ammesso al giudizio abbreviato potrebbe sollecitare il giudice d’appello ad esercitare il potere di disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai fini dell’acquisizione della documentazione dell’indagine privata.

Però, come noto, l’intervento istruttorio ope iudicis non si configura come un diritto dell’imputato bensì come potere officioso meramente residuale il cui esercizio è limitato all’assunzione di quelle prove che risultino assolutamente necessarie per l’accertamento del fatto di reato.

Appare, pertanto, condivisibile, alla luce delle osservazioni svolte, la decisione della suprema Corte di escludere l’acquisibilità dei dati dell’investigazione difensiva nel caso in cui tale richiesta intervenga dopo che con l’atto di opposizione a decreto penale di condanna l’imputato abbia avanzato la richiesta di ammissione al giudizio abbreviato incondizionato.

Tuttavia, nel caso di specie, sembra che permanga il vulnus del diritto di difesa. Difatti, nell’ipotesi di fissazione dell’udienza preliminare l’imputato può chiedere l’ammissione di atti e documenti, ivi compresa la documentazione dell’investigazione difensiva. Quindi, prima che siano formulate le conclusioni, può avanzare richiesta di giudizio abbreviato non condizionato. In tal caso, gli atti di investigazione difensiva sono equiparati agli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero, in quanto vi è una rinuncia generalizzata al contraddittorio nella formazione della prova [44]. Di tal guisa, l’imputato «si precostituisce le condizioni per essere giudicato allo stato degli atti, garantendosi l’accesso al rito e la tendenziale immutabilità - salvo interventi ex officio del giudice - del quadro probatorio su cui ha fondato la scelta della definizione anticipata del processo» [45].

Ovviamente, si pone il problema delle modalità attuative del contraddittorio, in quanto qualora la produzione documentale e la richiesta di giudizio abbreviato si susseguano rapidamente il pubblico ministero potrebbe non disporre del tempo necessario per presentare prove contrarie. La soluzione, fra l’altro più aderente al dato normativo, è stata individuata dalla Corte costituzionale, che, nell’ipotesi in parola, ha ritenuto che il giudice sia tenuto, sicuramente, a concedere un termine al pubblico ministero, sempre che questi lo richieda, per confutare gli elementi probatori acquisiti su richiesta della controparte [46]. Peraltro, la normativa contenuta nel d.d.l. n. 2067 S, approvato al Senato ed ora di nuovo all’esame della Camera dei deputati, all’art. 41, prevede la sostituzione del comma 4 dell’art. 438 c.p.p. con un nuovo comma, che dispone, nell’ipotesi di richiesta di giudizio abbreviato immediatamente dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, che il giudice provveda solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa.

Viceversa, come già esposto e come emerge chiaramente nel caso di specie, nell’ipotesi di giudizio abbreviato atipico, ossia disposto a seguito dell’emissione del decreto penale di condanna, affinché l’imputato possa chiedere l’acquisizione della documentazione difensiva sarà necessario che egli avanzi la richiesta di giudizio abbreviato condizionato, giacché in caso di richiesta di abbreviato incondizionato non vi sarebbe alcuno spazio per acquisire documentazioni preventive.

Ma, l’integrazione probatoria deve prefigurarsi come «indispensabile ai fini della decisione», cioè oggettivamente idonea ed utile ad assicurare il completo accertamento dei temi rilevanti a norma dell’art. 187 c.p.p. [47] e, pertanto, il giudice può rigettare la richiesta laddove ritenga che non ricorra il requisito in parola.

Ne consegue che all’imputato potrebbe comunque essere preclusa la possibilità di far acquisire la documentazione difensiva.

Appare, quindi, evidente la disparità di trattamento delle due fattispecie processuali, che indurrebbe ad ipotizzare un dubbio di incostituzionalità, che non pare risulti superato neanche dalla normativa, innanzi richiamata, contenuta nel d.d.l. n. 2067 S, atteso che essa si limita ad introdurre la disciplina dell’ipotesi inerente alla richiesta di giudizio abbreviato avanzata immediatamente dopo il deposito della documentazione dell’attività investigativa.

 

[1] P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2016, p. 790. A. Gaito-G. Spangher-F. Giunchedi-C. Santoriello, Scopi della giustizia penale e politica processuale differenziata, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale differenziata. I procedimenti speciali, I, Torino, Giappichelli, 2010, p. XXXIII, rilevano che il principio del contraddittorio è completamente assente nel rito abbreviato, in quanto «l’attività epistemologica del giudice - necessaria ai fini della condanna secondo quanto dispongono gli artt. 442 e 529 c.p.p. - si esplica prevalentemente su dati conoscitivi formati in maniera unilaterale ed in segreto da una sola delle parti, la cui scarsa affidabilità derivante dall’assenza di ogni controllo al momento della loro acquisizione è superata dal consenso dell’imputato». A parere di P. Ferrua, Contraddittorio e verità nel processo penale, in L. Gianformaggio (a cura di), Le ragioni del garantismo, Torino, Giappichelli, 1993, p. 245, poiché nel rito abbreviato la decisione è assunta in assenza di un contributo delle parti alla formazione della prova, tale rito speciale risulta ancora più deprecabile dello stesso patteggiamento.

[2] Osserva A. Bargi, Caratteristiche dei procedimenti speciali nel processo penale, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale differenziata. I procedimenti speciali, cit., p. 37, che «la maggiore incidenza dei poteri probatori dei soggetti processuali nella sequenza ordinaria del mutato procedimento probatorio sino alla decisione dibattimentale» implica «inevitabili conseguenze sui tempi propri del rito ordinario, in quanto modellato secondo le cadenze del pieno contraddittorio tra le parti nella formazione della prova per la decisione».

[3] E. Zappalà, I procedimenti speciali, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, Giuffrè, Milano, 2006, p. 237, il quale ritiene che proprio in virtù di tali esperienze il legislatore del 1988 ha previsto accanto al modello generale di tipo accusatorio varie forme di procedure alternative. Per A. Gaito, Il giudizio direttissimo, Giuffrè, Milano, 1980, p. 8, l’ispirazione ad un’aliqua utilitas, intesa come esigenza di conseguire un quid plurisrispetto al più generale concetto di attuazione della legge, che caratterizza le deroghe al rito ordinario, «ripaga nell’interna logica del sistema, la deviazione dai principi regolatori della giurisdizione».

[4] E. Zappalà, I procedimenti speciali, cit., p. 237.

[5] P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 790, il quale rileva che in base alla prima legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale ed al relativo Progetto preliminare del 1978, quasi tutti i processi sarebbero dovuti pervenire alla fase del dibattimento. Ciò avrebbe comportato costi non sostenibili ed il sistema non sarebbe risultato gestibile. A parere dell’Autore questo fu il principale tra i motivi per i quali il Progetto del 1978 non ebbe successo ed il modello di riforma venne abbandonato.

[6] R. Orlandi, Procedimenti speciali, in AA.VV. (a cura di), Compendio di procedura penale, Cedam, Padova, 2016, p. 593, che sottolinea la recente tendenza ad attuare semplificazioni dello svolgimento ordinario del processo, «promuovendo con incentivi premiali la rinuncia dell’imputato alla fase dibattimentale e all’esercizio di quei diritti di difesa e di prova, che in essa potrebbero trovare spazio».

[7] Fonda la differenziazione tra procedimento ordinario e speciali sulla deviazione dal modello “tipo” Gius. Sabatini, Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, Utet, Torino, 1956; invece, G. Bellavista, Sulla teoria generale dei procedimenti anomali, in Id., Studi sul processo penale, II, Giuffrè, Milano, 1960, la riconduce ad aspetti oggettivi (ratione materiae) o soggettivi (intuitu personae) o anomali che si pongono come eccezionali.

[8] Rileva A. Bargi, Caratteristiche dei procedimenti speciali nel processo penale, cit., p. 38, che i nuovi modelli di giustizia differenziata si discostano da quelli previsti nel codice di procedura penale abrogato, «anche se per larghi tratti ne condividono la natura della specialità del rito, quale espressione della loro contrapposizione derogatoria alle forme del rito ordinario».

[9] E. Zappalà, I procedimenti speciali, cit., p. 238. Sulla necessità di deflazionare il dibattimento cfr. anche P. Tonini, La scelta del rito istruttorio nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1974, p. 301 ss.

[10] F. Cordero, Struttura d’un codice, in Indice pen., 1989, p. 22, parla di «novità choquante» del codice di procedura penale del 1988.

[11] In tali termini A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, in G. Garuti (a cura di), Procedimenti speciali, III (Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb), Utet, Torino, 2015, p. 4, il quale sottolinea che solo apparentemente il giudizio abbreviato è tributario di suggestioni con il modello anglosassone del Summary trial.

[12] In tali termini, con decisioni dal contenuto pressoché identico, si esprimeva la Corte costituzionale in tre differenti occasioni, dichiarando illegittima la disciplina relativa a tre diverse specie di giudizio abbreviato: quello relativo alla fase transitoria previsto dall’art. 247 norme att. c.p.p. (C. cost., sent. 8 febbraio 1990, n. 66, in Giur. cost., 1990, p. 274); quello conseguente alla conversione del giudizio direttissimo e, pertanto, richiesto al giudice del dibattimento (C. cost., sent. 12 aprile 1990, n. 183, in Giur. cost., 1990, p. 1084); quello instaurato in seguito alla richiesta al giudice dell’udienza preliminare (C. cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 81, in Giur. cost., 1991, p. 599). In realtà, il Giudice delle leggi riteneva contraria ai canoni di coerenza e ragionevolezza e, pertanto, costituzionalmente illegittima, ex art. 3 Cost., l’originaria disciplina del rito speciale in parola, atteso che il pubblico ministero con «un semplice atto di volontà immotivato e, perciò, incontrollabile», poteva privare l’imputato di un «rilevante vantaggio sostanziale», causando inoltre «la possibilità di un ulteriore squilibrio nel trattamento fra due imputati destinatari di un’identica imputazione e portatori di un’analoga capacità a delinquere, qualora il pubblico ministero adotti un atteggiamento consenziente nei confronti dell’uno e dissenziente nei confronti dell’altro, senza nemmeno dovere esternare le ragioni e vederle sottoposte ad un qualsiasi controllo giurisdizionale».

[13] Anche tale criterio, tuttavia, non sfuggì alla censura della Corte costituzionale, che sottolineò come esso, a dispetto della sua apparente oggettività, esponeva gli imputati ad irragionevoli disparità di trattamento, in quanto l’esito della richiesta di ammissione al rito speciale finiva per dipendere dall’impegno profuso nello svolgimento delle indagini preliminari dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero o dalla strategia investigativa di quest’ultimo. In altre parole, osserva R. Orlandi, Procedimenti speciali, cit., p. 619, «l’incompletezza dell’indagine fu percepita come l’esito di casuali o volute deficienze investigative: conseguenza di un’indagine mal condotta, di un lavoro forzosamente lasciato a metà per l’incalzare dei termini di scadenza (art. 407), o, addirittura, di una mossa calcolata del titolare dell’accusa, magari incline ad astenersi dall’assumere certi atti di indagine (ad esempio, dichiarazioni di persone informate sui fatti), allo scopo di esibire direttamente e per le prima volta in dibattimento il corrispondente mezzo di prova, ritenuto decisivo per il successo della tesi accusatoria».

[14] C. cost., sent. 31gennaio 1992, n. 23, in Foro it., 1992, I, c. 1058, con nota di G. Di Chiara, Decidibilità allo stato degli atti e sindacato sulla decisione negativa in tema di «abbreviazione» del rito: note a margine della sentenza 23/92 della Corte costituzionale, che dichiarava l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442, nel testo all’epoca vigente, «nella parte in cui non prevede[va] che il giudice all’esito del dibattimento, ritenendo che il processo poteva - su richiesta dell’imputato e con il consenso del pubblico ministero - essere definito allo stato degli atti dal giudice per le indagini preliminari, possa applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442, secondo comma».

[15] A tal proposito C. cost., sent. 9 marzo 1992, n. 92, in Giur. cost., 1992, p. 904, con nota di D. Bianchi, Il giudizio abbreviato nella giurisprudenza della Corte costituzionale, statuiva che «Una volta affermato che un mero atto di volontà del p.m. non può condizionare l’interesse dell’ordinamento alla semplificazione del rito e quello dell’imputato alla riduzione della pena, deve trarsi il corollario che tale condizionamento non può farsi derivare neanche da un atto di volontà (implicita) concretatasi nello svolgimento di indagini insufficienti alla decidibilità con giudizio abbreviato». Infatti, sebbene sia rinvenibile nel sistema un principio di completezza delle indagini e, sussista, in tal senso un correlativo dovere funzionale del pubblico ministero, scopo della completezza non è quello di fornire un supporto di conoscenze che consentano una decisione allo stato degli atti, bensì quello di permettere al pubblico ministero di determinarsi in ordine all’esercizio dell’azione penale. In tale contesto, pur in presenza di indagini complete, poteva accadere che esse non fossero idonee a consentire una decisione nel merito “allo stato degli atti”. A parere del Giudice delle leggi, quindi, era necessario introdurre un congegno che in tali ipotesi consentisse di superare il vincolo dello «stato degli atti» attraverso appositi meccanismi di integrazione probatoria. Successivamente, pur con pronunce che investivano dubbi relativi al rito speciale instaurato a seguito di conversione del giudizio direttissimo, la Corte costituzionale tornava sulle logiche di fondo della definibilità del giudizio allo stato degli atti e invitava il legislatore, «nel quadro di una organica e generale riforma del giudizio abbreviato», a correggere «la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali». In tali termini cfr. C. cost., sent. 23 dicembre 1994, n. 442, in Foro it., 1995, I, c. 2783; nonché, C. cost., sent. 16 febbraio 1993, n. 56, in Giur. cost., 1993, p. 405, con nota di A. Nappi, Giudizio abbreviato e integrazione probatoria.

[16] A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, cit., p. 6, il quale sottolinea che «il riconoscimento dell’imputato al suo diritto sostanziale era avvenuto a scapito della funzione deflattiva del rito».

[17] In tal senso cfr. G. Canzio, Giudizio abbreviato, in Enc. dir., Aggiornamenti IV, Giuffrè, Milano, 2000, p. 621, il quale osserva che in seguito agli interventi della Corte costituzionale era venuto meno «il nesso finalistico inscindibile nella logica negoziale fra trattamento premiale e funzione deflattiva del giudizio speciale, a favore invece di una nozione del “diritto” dell’imputato allo sconto della pena senza la contropartita dell’effettiva semplificazione della procedura, collocandosi il beneficio premiale non più necessariamente nell’alveo di una procedura alternativa alle garanzie dibattimentali, ma anche eventualmente alla conclusione del giudizio ordinario, resosi necessario in conseguenza del dissenso manifestato dal pubblico ministero della decisione negativa del giudice dell’udienza preliminare circa le definibilità del processo allo stato degli atti, ovvero dell’astratta punibilità con l’ergastolo del delitto contestato nell’imputazione originaria»; nonché, G. Di Chiara, Processo penale e giurisprudenza costituzionale. Itinerari, in Il Foro it., 1996, c. 56.

[18] La riforma legislativa ha modificato tanto sia le linee di struttura che ogni altro aspetto morfologico del rito speciale, che, in dottrina, ci si è chiesti se il nuovo giudizio abbreviato abbia mantenuto una identità essenziale con il vecchio oppure si tratti di una mera identità nominale. Cfr. R. Orlandi, Sub art. 27 l. 16 dicembre 1999 n. 479, in Legislazione pen., 2000, p. 438. Nello stesso senso G. Di Chiara, I “nuovi” riti differenziati. L’impatto della “legge Carotti” sul libro VI del codice, Punto grafica, Palermo, 2000, p. 13; D. Negri, Il “nuovo” giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in F. Peroni (a cura di), Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Cedam, Padova, 2000, p. 448, i quali ritengono che la vecchia e la nuova impalcatura del rito abbiano in comune soltanto il nome con cui i due diversi modelli continuano ad essere appellati.

[19] Sul punto mette conto di richiamare la prima importante pronuncia della Corte costituzionale sulla nuova disciplina del rito abbreviato, che ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 101, 102 Cost., nella parte in cui non prevede un autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato. Il Giudice delle leggi, nel disattendere la fondatezza delle censure in riferimento a tutti i parametri evocati, ha sottolineato che la scelta del legislatore di eliminare la valutazione del giudice sull’ammissibilità del giudizio abbreviato, tranne che nell’ipotesi in cui l’imputato abbia esercitato la facoltà di chiedere l’integrazione probatoria, «si innesta nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia». Infatti, «raccogliendo i reiterati inviti ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali (C. cost. n. 442/1994), tra il ventaglio delle soluzioni possibili la l. n. 479/1999 ha operato scelte che si propongono di porre rimedio agli aspetti contraddittori della precedente disciplina, in particolare eliminando sia la valutazione di ammissibilità da parte del giudice (salvo che nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5), sia la necessità del consenso del p.m.». In merito ad entrambe le soluzioni, «il legislatore ha evidentemente tenuto presenti le considerazioni svolte da questa Corte circa i profili di incostituzionalità derivanti dall’essere la definibilità allo stato degli atti subordinata alla scelta discrezionale del p.m. di svolgere indagini più o meno approfondite» (C. cost., sent. 9 maggio 2001, n. 115, in Giur. cost., 2001, p. 917, con nota di G. Garuti, La Corte costituzionale e la struttura del «nuovo» rito abbreviato).

[20] A tal proposito la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’acceso al giudizio abbreviato «quando la richiesta non sia subordinata ad un’integrazione probatoria, costituisce un vero e proprio diritto dell’imputato». Cfr. Cass., sez. I, 18 novembre 2008, n. 399, in Cass. pen., 2010, p. 1893; Cass., sez. I, 11 dicembre 2000, n. 958/01, in Cass. pen., 2001, p. 2744; Cass., sez. IV, 28 giugno 2000, n. 10738, in Cass. pen., 2001, p. 551.

[21] La regola della necessità dell’integrazione probatoria, ai fini della decisione, contenuta nell’art. 438, comma 5, c.p.p., sembra avere una lunghezza d’onda diversa rispetto al parametro posto, per il dibattimento, dall’art. 190 del codice di rito penale. Al fine di stabilire un contenuto minimo di tale regola mette conto di prendere in considerazione quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui non ci si può avvalere dell’art. 507 c.p.p. «per verificare solo una propria ipotesi ricostruttiva sulla base di mezzi di prova non dotati di sicura concludenza» in quanto «è proprio un’attività di questo genere che potrebbe apparire disarmonica in un processo di parti, non l’assunzione di una prova il cui valore dimostrativo in base agli atti si imponga con evidenza» (Cass., sez. un., 6 novembre 1992, n. 11227, in Foro it., 1993, II, c. 65). La valutazione circa la necessità di integrazione probatoria, ex art. 441, comma 5, c.p.p., non sembra discostarsi da tale lunghezza d’onda. A tale impostazione aderisce anche la dottrina, ritenendo che il giudizio circa la necessità dell’integrazione probatoria si riferisca non alla prova incerta, per la quale si farà ricorso alle regole decisorie stabilite dall’art. 530, comma 2, c.p.p., bensì alla prova suscettibile di completamento. Cfr. G. Di Chiara, I “nuovi” riti differenziati. L’impatto della “legge Carotti” sul libro VI del codice, cit., p. 35; A. Mangiaracina, I limiti al potere di integrazione probatoria in sede di giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2005, pp. 706 e 712; D. Negri, Il “nuovo” giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, cit., p. 479. Tuttavia, le Sezioni Unite, tornate sul tema, hanno precisato che un’attenta lettura del quadro normativo segna il «limite naturale delle ulteriori acquisizioni probatorie nel senso che esse debbano essere soltanto integrative, non sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come base cognitiva». Di tal guisa «il valore probatorio dell’elemento da acquisire, cui fa riferimento l’art. 438 c. 5, va sussunto piuttosto nell’oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’art. 187». Pertanto, «la doverosità dell’ammissione della richiesta integrazione probatoria ne riflette il connotato di indispensabilità ai fini della decisione e trova il suo limite nella circostanza che un qualsiasi aspetto di rilievo della regiudicanda non rimanga privo di solido e decisivo supporto logico-valutativo» (Cass., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 44711, in Guida dir., 2004, 49, p. 78).

[22] Sul punto cfr. C. cost., sent. 9 maggio 2001, n. 115, cit., che sembra aver neutralizzato la portata del requisito allorché ha affermato, al riguardo, che «ove si debbano compiere valutazioni in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale e non con il rito esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina». A parere della Corte, «si deve tener presente, da un lato, che sarebbe incostituzionale […] fare discendere l’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato da lacune probatorie non addebitabili all’imputato; dall’altro, che nelle situazioni in cui è oggettivamente necessario procedere ad una anche consistente integrazione probatoria, non importa se chiesta dall’imputato o disposta d’ufficio dal giudice, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in dibattimento: chiedendo il giudizio abbreviato e rinunciando, conseguentemente, all’istruzione dibattimentale, l’imputato accetta che gli atti assunti nel corso delle indagini preliminari vengano utilizzati come prova e che gli atti oggetto dell’eventuale integrazione probatoria siano acquisiti mediante le forme previste dall’art. 422 c. 2, 3 e 4, espressamente richiamate dall’art. 441 c. 6, così da evitare la più onerosa formazione della prova in dibattimento; infine, presta il consenso ad essere giudicato dal giudice monocratico dell’udienza preliminare». In conclusione, «anche se viene richiesta o disposta una integrazione probatoria, il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario continua […] ad essere un carattere essenziale del giudizio abbreviato». In dottrina, A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, cit., p. 20, osserva che «All’intervento del giudice delle leggi non può, tuttavia, essere attribuito un significato di neutralizzazione del parametro, per averlo reso del tutto marginale nel procedimento decisorio volto all’ammissione».

[23] G. Di Chiara, sub art. 442 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Ipsoa, Milano, 2010, p. 5537.

[24] A parere di V. Maffeo, Il giudizio abbreviato, Esi, Napoli, 2004, p. 351 ss., anche l’attività integrativa di indagine può rientrare nell’ambito del materiale probatorio valutabile dal giudice.

[25] Così, ancora, G. Di Chiara, sub art. 442, cit., p. 5537.

[26] A. Cristiani, Misure cautelari e diritto di difesa, Giappichelli, Torino, 1995, p. 112.

[27] Sull’attività di investigazione difensiva, senza pretesa di esaustività, cfr. E. Amodio, Le indagini difensive tra nuovi poteri del g.i.p. e obblighi di lealtà del p.m., in Cass. pen., 1997, p. 2284; O. Dominioni, Le investigazioni dei difensori, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Giuffrè, Milano, 1997, p. 91; P. Ferrua, Processo penale, contraddittorio e indagini difensive, in Id., Studi sul processo penale, III, Giappichelli, Torino, 1997, p. 87; L. Filippi (a cura di), Processo penale: il nuovo ruolo del difensore, Cedam, Padova, 2001; P. Gualtieri, Le investigazioni del difensore, Padova, Cedam, 2003; O. Mazza, Fascicolo del difensore e utilizzabilità delle indagini difensive, in Giur. it., 2002, p. 1759; M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 12; L. Suraci, Investigazioni difensive, giudizio abbreviato e motivazione della sentenza penale, in Arch. n. proc. pen., 2005, p. 123; N. Triggiani, Le investigazioni difensive, Giuffrè, Milano, 2002.

[28] In tali termini F. Zacché, Il giudizio abbreviato, in G. Ubertis-G.P. Voena (a cura di), Trattato di procedura penale, XXXV.2, Giuffrè, Milano, 2004, p. 87.

[29] G. Giostra, Prova e contraddittorio. Nota in merito ad una garbata polemica, in Cass. pen., 2002, p. 3290, ritiene costituzionalmente illegittima la deroga al rapporto paritetico tra le parti sul piano della formazione della prova, che verrebbe a determinarsi per effetto di una “autopromozione probatoria” degli atti di investigazione difensiva introdotti unilateralmente nel processo, da parte dell’imputato, ai fini della decisione.

[30] Secondo G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I, II ed., Utet, Torino, 2007, p. 171, «l’accento posto sul solo imputato dalla disposizione costituzionale non potrebbe giustificare una interpretazione che non reputasse doverosa per il legislatore ordinario la scelta di contemplare reciprocamente per il pubblico ministero (nonché per le altre parti) la necessità del consenso, quando la questione concernesse l’inserimento nel patrimonio conoscitivo del giudice di quanto eventualmente procurato dall’attività investigativa della controparte. Accogliere un’esegesi volta a tutelare esclusivamente la posizione del soggetto richiamato dalla lettera normativa significherebbe sia ledere il principio di parità tra le parti sancito dall’art. 111 comma 2 Cost. che negare lo stesso valore epistemologico del contraddittorio, che verrebbe appunto smentito qualora non fosse sempre richiesto il consenso della parte controinteressata per rendere utilizzabile a fini decisori l’atto acquisito dal suo avversario al di fuori del pur instaurabile confronto dialettico».

[31] In tali termini F. Zacché, Il giudizio abbreviato, cit., p. 91, il quale osserva che «Verrebbe così compensata l’impossibilità per l’organo dell’accusa di contrastare le nuove acquisizioni probatorie dedotte dalla difesa prima della richiesta del rito speciale».

[32] A parere del giudice remittente in tale situazione sarebbe compromessa «la simmetria imposta dal principio del contraddittorio come metodo dialettico di accertamento dei fatti»” e sarebbe “«quindi violato il principio enunciato dall’art. 111, comma secondo, Cost. secondo cui il processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in posizione di parità» In particolare, nel­l’ipotesi in esame ad essere in discussione era soprattutto la formazione unilaterale della prova, la sua introduzione in giudizio e il contestuale “consenso” ad essere giudicato sulla base di tale prova prestato dalla stessa parte che ne ha curato l’assunzione, senza che vi sia stata alcuna verifica critica della parte pubblica (g.u.p. Trib. Modena, ord. 22 maggio 2003, iscritta al n. 586 del registro ordinanze 2003, pubblicata in G.U. n. 34, prima serie speciale, 2003).

[33] C. cost., ord. 24 giugno 2005, n. 245, in Cass. pen., 2006, p. 435, che, a tal proposito, obiettava che il remittente avesse trascurato «di considerare che nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria è configurato quale strumento di tutela dei valori costituzionali che devono presiedere l’esercizio della funzione giurisdizionale, sicché proprio a tale potere il giudice dovrebbe fare ricorso per assicurare il rispetto di quei valori». Viceversa, sotto altro, ma convergente profilo, richiamando propri precedenti in tema di continuità investigativa, con riferimento alla possibilità per la parte privata di produrre gli atti delle indagini difensive anche nel corso dell’udienza preliminare, osservava come il remittente avesse omesso di motivare circa l’opportunità «di dare attuazione al principio secondo il quale a ciascuna delle parti va comunque assicurato il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte “a sorpresa” dalla controparte in modo da “contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio”, anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto “alle singole, concrete fattispecie”».

[34] C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, in Cass. pen., 2009, p. 3691.

[35] C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, cit., secondo cui «l’attribuzione all’imputato della facoltà di subordinare la richiesta di giudizio abbreviato ad un’integrazione probatoria è coerente con la posizione di tale soggetto processuale, che si trova ad affrontare il rischio di un giudizio (e di una possibile conseguente condanna) basato sugli atti raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari ed a cui va pertanto riconosciuta la facoltà di chiedere l’acquisizione di nuovi e ulteriori elementi di prova. Diversa è, invece, la posizione del pubblico ministero: tenuto conto del ruolo svolto nelle indagini preliminari, e fermo restando il suo diritto all’ammissione di prova contraria a norma dell’art. 438, comma 5, c.p.p., non è irragionevole la scelta legislativa di non riconoscergli il diritto di chiedere l’ammissione di prove a carico dell’imputato solo perché questi ha presentato richiesta di giudizio abbreviato».

[36] In tali termini G. Varraso, Indagini difensive, giudizio abbreviato e diritto alla “prova contraria”, in Cass. pen., 2006, p. 131.

[37] In tali termini V. Grevi, Basta il solo «consenso dell’imputato» per utilizzare come prova le investigazioni difensive nel giudizio abbreviato?, in Cass. pen., 2009, pp. 3675, 3681, 3682 e 3683. L’Autore, tornato sul punto, ribadisce che «se si riconosce nel principio del contraddittorio “per” la formazione della prova - così come enunciato nel quarto comma dell’art. 111 Cost. - il connotato epistemologico della giurisdizione penale, non si riesce a capire perché mai il medesimo principio non dovrebbe trovare attuazione quanto meno per via implicita, con riferimento ai risultati delle indagini difensive, quando tale giurisdizione si eserciti se­condo il rito del giudizio abbreviato». Pertanto, anche in tale sede occorre acquisire dal pubblico ministero, sotto forma di adesione alla richiesta dell’imputato, una manifestazione di rinuncia al controesame della fonte le cui dichiarazioni siano contenute nell’atto dell’investigazione difensiva (cfr. V. Grevi, Ancora su contraddittorio e investigazioni difensive nel giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2010, p. 1303). Nello stesso senso G. Lozzi, Il contraddittorio in senso oggettivo e il giudizio abbreviato, in Giur. cost., 2009, p. 61, il quale osserva che la diversa natura della parte pubblica rispetto alla parte privata ed il fatto che il pubblico ministero debba sempre agire avendo come finalità l’osservanza della legge e la pronta e regolare amministrazione della giustizia, implica inevitabilmente che alla parte pubblica siano attribuiti poteri non riconosciuti alla parte privata. Tuttavia, a meno che non siano giustificate dall’interesse pubblico deroghe anche vistose, la parità tra le parti va garantita. Pertanto, non appare ragionevole che l’imputato, che è a conoscenza delle indagini effettuate dal pubblico ministero, «possa contemporaneamente presentare le indagini difensive e chiedere il giudizio abbreviato, senza che il pubblico ministero abbia alcuna possibilità né di opporsi alla richiesta di giudizio abbreviato né di effettuare altre indagini né di rendere possibile l’attuazione del contraddittorio in senso oggettivo sulle indagini dell’imputato». In altre parole, i maggiori poteri conferiti al pubblico ministero «non possono minimamente giustificare una manovra difensiva furbesca non certo ispirata alla lealtà processuale, in virtù della quale si presentano indagini difensive in un momento in cui il pubblico ministero non può più né indagare né contraddire».

[38] E. Amodio, Garanzie oggettive per la pubblica accusa? A proposito di indagini difensive e giudizio abbreviato nel quadro costituzionale, in Cass. pen., 2010, pp. 20-21. Sul punto cfr. anche G. Spangher, Indagini difensive e giudizio abbreviato, in Giur. cost., 2009, p. 2064, il quale osserva che il riconoscimento al pubblico ministero della necessità «del consenso sul materiale oggetto di investigazione difensiva, (sia per quello depositato nel corso delle indagini sia per quello prodotto in limine al rito), nel giudizio abbreviato, di fatto, rimetterebbe nelle mani del p.m. l’accesso al rito alternativo ovvero lo trasformerebbe in un preliminare patteggiamento sulle prove».

[39] C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, cit. Tuttavia, mette conto di rilevare che il differimento dell’udienza non può formare oggetto di un diritto del pubblico ministero e, pertanto, la sua mancata concessione non risulta presidiata da alcuna sanzione. Sul punto cfr. G. Lozzi, Il contraddittorio in senso oggettivo e il giudizio abbreviato, cit., p. 2062; e A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, cit., p. 64. A parere di V. Maffeo, Indagini difensive e rito abbreviato innanzi alla Corte costituzionale. Un’occasione mancata, in Giur. cost., 2007, p. 605 e ss., l’ipotesi del rinvio risulta contraria allo spirito della norma, in quanto non può sussistere soluzione di continuità fra richiesta probatoria e accesso al rito abbreviato.

[40] A parere di G. Ubertis, Eterogenesi dei fini e dialettica probatoria nel rito abbreviato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 2080, «dovrebbe potersi disporre un congruo differimento dell’udienza allo scopo di permettere al pubblico ministero di rispondere con atti effettuabili attraverso le indagini suppletive, attribuendogli una specie di diritto alla prova contraria per così dire “affievolita”, analogo a quello previsto per il giudizio abbreviato condizionato dall’art. 438, comma 5, c.p.p.: senza che si ponga il problema del mancato consenso dell’imputato al loro impiego, assegnando a tali atti unilaterali dell’accusa (come a quelli difensivi “ a sorpresa”) un’efficacia simile a quella regolata dall’art. 500, comma 2, c.p.p.».

[41] Cass., sez. V, 13 gennaio 2015, n. 13505, inedita.

[42] Così G. Ubertis, Eterogenesi dei fini e dialettica probatoria nel rito abbreviato, cit., p. 2079.

[43] R. Orlandi, Procedimenti speciali, cit., p. 623, osserva che, essendo tipica espressione del diritto di difesa, la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato va ragionevolmente garantita anche nei giudizi privi di udienza preliminare. A tal proposito, l’Autore richiama due pronunce della Corte costituzionale, che ritiene esprimano chiaramente l’intento di assicurare all’im­putato la chance di chiedere il giudizio abbreviato di fronte a un nuovo giudice: chance nella quale si ravvisa indubbiamente una particolare modalità di esercizio del diritto di difesa. Il riferimento è a C. cost., sent. 11 marzo 1993, n. 76, in Giur. cost., 1993, p. 696, che ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost., l’art. 23, comma 1, c.p.p., nella parte in cui dispone che, quando il giudice del dibattimento dichiara con sentenza la propria incompetenza per materia, ordina la trasmissione degli atti al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo; e a C. cost., 5 maggio 1993, n. 214, in Giur. cost., 1993, p. 603, che, sulla base di analoga motivazione, ha dichiarato l’illegittimità, sempre per contrasto con l’art. 24 Cost., dell’art. 24, comma 1, c.p.p. «nella parte in cui dispone che a seguito di annullamento della sentenza di primo grado per incompetenza per materia gli atti siano trasmessi al giudice ritenuto competente anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo».

[44] Cfr. C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, cit., secondo cui l’utilizzabilità nel giudizio abbreviato degli atti di investigazione difensiva, compresi quelli a contenuto dichiarativo, non deve ritenersi lesiva del principio di parità delle parti, in quanto espressione della più generale valenza probatoria riconosciuta all’intera indagine preliminare. In tema di utilizzabilità dei risultati delle indagini difensive nel giudizio abbreviato v. pure Cass., sez. V, 13 gennaio 2015, n. 13505, cit., che ha, altresì, affermato che non «può ritenersi che la produzione e quindi l’utilizzabilità del contenuto delle investigazioni difensive operi solo in caso di ri­chiesta di rito abbreviato condizionato ad integrazione probatoria. Tale interpretazione sarebbe, invero, in contrasto con il chiaro disposto dell’art. 327-bis c.p.p. e art. 438 c.p.p., comma 2. La conferma del resto si ricava dallo stesso art. 438 c.p.p., comma 5, che prevede la possibilità di subordinare la richiesta di rito abbreviato ad integrazione probatoria, ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti indicati nell’art. 442, comma 1-bis (e quindi anche delle investigazioni difensive prodotte)»; nonché, più risalente, Cass., sez. III, 9 aprile 2009, n. 15236, in Arch. n. proc. pen., 2009, p. 625, secondo cui, in tema di giudizio abbreviato, sono utilizzabili ai fini della decisione i risultati delle indagini difensive prodotti nel corso dell’udienza preliminare, salvo restando il diritto delle controparti di esercitare il contraddittorio sulle prove non oggetto di preventiva discovery.

[45] Così G. Della Monica, Opzioni di strategia processuale e scelta del rito, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale differenziata. I procedimenti speciali, cit., p. 171.

[46] C. cost., ord. 24 giugno 2005, n. 245, cit., p. 435.

[47] Cass., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 44711, cit., p. 78.