belluta

home / Archivio / Fascicolo / Le condanne civili statuite nel processo penale non sono impugnabili per revisione

indietro stampa articolo fascicolo


Le condanne civili statuite nel processo penale non sono impugnabili per revisione

di Rosalba Normando

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione, confermando l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ha ribadito che sono impugnabili per revisione le sole condanne penali e non anche le condanne civili statuite nei processi penali. Secondo i giudici di legittimità la revisione è un mezzo di impugnazione straordinario esclusivamente penalistico ed ogni ipotesi estensiva di tale strumento contrasta con il principio di tassatività delle impugnazioni previsto dall’art. 568 c.p.p.

 
Civil sentences established in criminal procedure do not allow for new trial

With the judgment in question, the Court of Cassation has restated that a new trial only is only possible for criminal sentences and not for civil sentences established in criminal procedure, thus confirming the prevalent court decisions. According to the supreme judicial authority, reviewing is an extraordinary means of appeal of an exclusively criminal-law nature, and any possible extension of this instrument goes against the principle of legal certainty of appeals provided for in art. 568 of the Italian Code of Criminal Procedure.

LA VICENDA PROCESSUALE E LA DECISIONE DEI GIUDICI DI LEGITTIMITÀ

L’intervento della Corte di cassazione è occasionato dal ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria, che ha affermato l’inammissibilità dell’istanza di revisione proposta dal­l’imputato contro la decisione che ha dichiarato l’estinzione del reato di violenza sessuale per intervenuta prescrizione, confermando, però, le statuizioni civili per il risarcimento del danno licenziate dai Giudici del primo grado in favore della persona offesa costituita parte civile.

In particolare, il legale del ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. in relazione all’art. 629 c.p.p. in quanto, a suo parere, la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto l’inam­missibilità della richiesta di revisione. Con il ricorso si lamenta, inoltre, la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. in relazione all’art. 630 c.p.p., poiché si contesta l’erronea esclusione della sussistenza dei presupposti per procedere alla revisione della sentenza. In sintesi, la difesa, valorizzando l’inciso esplicitato nell’art. 629 c.p.p. «anche se la pena è già eseguita o estinta», sostiene l’insussistenza di limiti alla possibilità di revisione in caso di prescrizione.

Il giudice nomofilattico, chiamato a risolvere la questione, ha dichiarato il ricorso inammissibile, rilevando che, nel caso de quo, la declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione del reato, con conferma delle statuizioni civili, rende il ricorso finalizzato ad ottenere la sola caducazione della condanna civilistica a carico dell’imputato, contenuta nella sentenza passata in giudicato. Da tale palese finalità, in forza della ratio dell’istituto, discende l’inammissibilità della revisione, che nel codice di rito penale si configura, per definizione, come di mezzo di impugnazione straordinario, preordinato al proscioglimento della persona già condannata in via definitiva. In altre parole, si fa capo alla necessaria sussistenza di una sentenza penale di condanna passata in giudicato da porre nel nulla, all’esito di una statuizione di proscioglimento.

Sulla scorta di questo canone, i giudici di legittimità, condividendo la declaratoria di inammissibilità adottata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, hanno confermato l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente [1], secondo cui la revisione in quanto mezzo, sia pur straordinario, di impugnazione non può sottrarsi al principio di tassatività di cui all’art. 568, comma 1, c.p.p.; di conseguenza, poiché le ipotesi individuate nell’art. 629 c.p.p. presentano il dato unificante di presupporre una condanna, le sentenze che dichiarano l’estinzione del reato, pur confermando le statuizioni civili della precedente sentenza, non sono suscettibili di revisione.

LE DECISIONI SOTTOPONIBILI A REVISIONE ED I LIMITI OGGETTIVI DELLA DOMANDA

Per inquadrare la problematica nell’alveo delle necessarie premesse metodologiche, è opportuno focalizzare l’attenzione sugli aspetti essenziali della subiecta materia.

La revisione [2], tradizionale rimedio all’ingiusta sentenza [3], appartiene alla categoria dei mezzi di impugnazione straordinari. L’istituto si distingue dai rimedi ordinari, che solitamente valgono a sollecitare il controllo in forma critica dei provvedimenti giurisdizionali, per la sua natura di strumento predisposto contro decisioni già divenute esecutive [4] implica un giudicato e mira a risolverlo [5], qualora si debba impedire il perpetuarsi di un’antinomia tra accertamento ed esigenze di giustizia.

Il travolgimento della res iudicata a seguito di revisione è riservato ad ipotesi normativamente predeterminate, limitate, per espresso dettato dell’art. 629 c.p.p., alle sentenze di condanna, comprese quelle emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p. [6], e ai decreti penali di condanna. L’opzione è stata costantemente privilegiata nel nostro ordinamento, ove non trova ingresso la revisione in peius, salvo ipotesi eccezionali [7] dettate da fenomeni di criminalità particolarmente allarmanti.

In ragione della funzione riparatoria morale, oltre che patrimoniale [8], riconosciuta alla revisione, è indifferente che la pena sia stata eseguita, sia estinta o condizionalmente sospesa, che si tratti di un delitto o di una contravvenzione, che siano stati o meno esperiti gli ordinari mezzi di impugnazione. È parimenti irrilevante la morte del condannato.

Inoltre, la presenza nel tessuto codicistico del principio di tassatività, espresso dall’art. 568 c.p.p., che opera come canone generale dell’intero regime delle impugnazioni, depone chiaramente per l’inam­mis­sibilità della revisione proposta avverso un provvedimento non riconducibile a quelli espressamente previsti [9]. Restano, quindi, escluse dalla latitudine dell’istituto le ordinanze, indipendentemente dal giudice che le ha emesse, e le sentenze di proscioglimento, anche quando il proscioglimento sia conseguenza di un’amnistia [10] ovvero dell’applicazione del perdono giudiziale o sia pronunciato per mancanza di imputabilità. Escluse sono pure le sentenze di non luogo a procedere, per le quali è prevista la revoca ai sensi dell’art. 434 c.p.p. Sempre in ragione dell’esistenza di un’espressa disciplina, non possono essere oggetto di revisione i casi di abolitio criminis [11], le sentenze pronunciate dai giudici speciali [12], i provvedimenti applicativi di una misura di prevenzione [13]; del pari, si ritiene che il rimedio straordinario non sia attivabile per le sentenze pronunciate dal giudice civile o amministrativo, per le sentenze penali sulle statuizioni civili e per le sentenze straniere riconosciute in Italia [14].

A questa precisa individuazione dei provvedimenti che possono dar luogo a revisione, fa da corollario la funzione demandata all’istituto: rimuovere il dictum cognitivo laddove emerga la necessità di prosciogliere la persona già condannata in via definitiva [15]. Infatti, l’art. 631 c.p.p., nello stabilire che gli elementi in base ai quali può chiedersi la revisione devono essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto ai sensi degli artt. 529, 530 e 531 c.p.p. [16], richiama tutte le formule di proscioglimento dibattimentale, sottolineando come questo possa pronunciarsi per qualsiasi causa, senza limitazioni connesse alla formula utilizzabile.

La funzione precipua cui è preordinata la revisione traspare anche dalla Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale vigente [17], laddove si afferma che «l’art. 623 c.p.p., intitolato “Limiti della revisione”, esprime in forma sintetica il risultato potenziale cui deve tendere l’istituto della revisione. È stato adottato il termine “prosciolto” in luogo del riferimento all’assoluzione, perché vi è un rinvio unitario alle disposizioni di legge, che si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento: gli artt. 522 (sentenze di non doversi procedere), 523 (sentenza di assoluzione), 524 (dichiarazione di estinzione del reato)». Significativamente, tale indicazione sta a confermare che la finalità della revisione consiste nel verificare se, nel processo cui l’istanza si riferisce, ricorrano o meno i presupposti idonei a fondare una pronuncia di proscioglimento nei confronti del soggetto già condannato.

IL DIVERGENTE ORIENTAMENTO CHE AMMETTE LA REVISIONE NEL CASO DI CONDANNA AL RISARCIMENTO IN SEDE CIVILE

Facendo leva sul postulato che presume la sussistenza di una sentenza penale di condanna passata in autorità di cosa giudicata, da annullare in forza di una decisione di proscioglimento [18], la Corte di cassazione, con il provvedimento in esame, ha condiviso la declaratoria di inammissibilità adottata dal giudice di merito, ribadendo che le sentenze che dichiarano la prescrizione non sono assoggettabili a revisione anche qualora la Corte d’appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione, abbia confermato le statuizioni civili di una precedente sentenza.

A fronte di questa posizione giurisprudenziale, pressoché costante, non si può fare a meno di segnalare la soluzione di opposto tenore, di un isolato, recente, orientamento [19], che ha ritenuto ammissibile la richiesta di revisione della sentenza definitiva di proscioglimento quando non sia pienamente liberatoria, come nel caso in oggetto. Infatti, secondo il decidente, la funzione della revisione non consentirebbe di escludere dal perimetro del rimedio il caso di proscioglimento per estinzione del reato con condanna alle spese civili. Si accorda una decisa preminenza alla ratio essendi dell’istituto: la revisione è volta ad impedire il perpetuarsi, successivamente all’irrevocabilità, della contraddittorietà tra accertamento ed esigenze di giustizia svolgendo un ruolo integrativo di completamento funzionale del sistema, ruolo che non può venire limitato in ragione del tipo di condanna subito dall’imputato.

E così, ferma restando la natura straordinaria della revisione e l’operatività del principio di tassatività delle impugnazioni, la Corte con la sentenza n. 46707 del 2016, in aperto contrasto con l’orientamento consolidato, prospetta una chiave di lettura dell’art. 629 c.p.p. che trae origine da esigenze ordinamentali, commisurate, nella specifica ipotesi, alla necessità di porre rimedio al permanere di conseguenze pregiudizievoli, anche se di natura civilistica, che risulti necessario rimuovere post rem iudicatam.

Mette conto, pertanto, scandire i passaggi fondamentali che hanno ispirato questa scelta decisoria, profondamente divergente dall’univoca interpretazione giurisprudenziale.

Segnatamente, la citata pronuncia prende atto che l’art. 629 c.p.p., nell’indicare i provvedimenti soggetti a revisione, fa riferimento soltanto alle sentenze di condanna, ma rileva come, nel contesto della norma, non venga fatta alcuna ulteriore specificazione finalizzata a circoscrivere l’oggetto delle stesse. Del pari, l’art. 632 c.p.p., che individua i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, non pone distinzioni laddove richiama, in maniera altrettanto generica, la figura del condannato.

Nello sviluppo dell’iter logico-argomentativo si osserva, inoltre, che dalle disposizioni che disciplinano la decisione sull’azione civile esercitata nel processo penale si evince che la soccombenza dell’im­putato nei confronti della parte civile viene «veicolata da una pronunzia di condanna che presuppone l’accer­tamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, come espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p. e che, dunque, lo stesso imputato sia “condannato” alle restituzioni ed al risarcimento del danno» [20].

Pertanto, limitare l’incidenza e l’ambito dell’operatività della revisione sulla ratio distinguendi del tipo di condanna subita dall’imputato significherebbe introdurre un’arbitraria e ingiustificata distinzione tra chi sia stato convenuto in giudizio tanto sulla base dell’azione penale quanto in forza dell’azione civile esercitata nelprocesso penale. Né, d’altro verso, opina la Corte, può ricavarsi una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma atta a non consentire la revisione al condannato solo per gli interessi civili. Si esclude, inoltre, la necessità di «ricorrere all’analogia od evocare la potenziale incoerenza costituzionale del dettato normativo di riferimento per ammettere che la condanna per la responsabilità civile pronunziata nel processo penale sia assoggettabile a revisione secondo le regole del rito penale, atteso che tale eventualità già discende dalla stessa lettera della legge processuale» [21].

A sostegno della soluzione, viene richiamato il principio elaborato dalle Sezioni Unite secondo cui «è legittimato alla proposizione del ricorso straordinario, a norma dell’art. 625 bis c.p.p., anche l’imputato condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile, che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni civili, per l’ontologica identità di diritti processuali tra l’azione penale e l’azione civile» [22], ritenendosi significativo che la citata disposizione, così come l’art. 629 c.p.p., evochi la figura del condannato senza offrire alcun criterio distintivo.

Alla luce degli indicati passaggi giustificativi, la sentenza n. 46707 del 2016, nel discostarsi dalla consolidata giurisprudenza sulla quaestio iurisdell’assoggettabilità o meno a revisione delle sentenze che dichiarano la prescrizione, ha affermato l’ammissibilità della richiesta proposta, ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p., avverso la sentenza del giudice d’appello che abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato e confermato contestualmente la condanna dello stesso al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

 

RILIEVI CONCLUSIVI

L’interpretazione prospettata dalla sentenza in commento non ignora, nella sequenza argomentativa, il precedente che ammette la revisione in caso di condanna ai soli effetti civili con prescrizione del reato, secondo il quale rientrerebbero nel perimetro della revisione tutti i verdetti di condanna [23], senza distinzione. Quindi anche quelli di condanna al risarcimento in sede civile. Ma si tratta di una lettura alla quale si ritiene di non poter dare seguito, in ragione della prevalenza della combinazione fra norme rispetto allo stretto argomento letterale [24].

I criteri-guida adottati, con riferimento al disposto dell’art. 629 c.p.p., che limita la revisione ai casi in cui il condannato deve essere prosciolto ai sensi degli artt. 529, 530 e 531 c.p.p., e al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, ex art. 568, comma 1, c.p.p., rimangono ancorati all’interpretazione restrittiva che riconduce l’impugnativa ad un perimetro propriamente penalistico [25], escludendosi soluzioni di differente tenore.

Resta, però, insoluta, avvolta nelle pieghe del sistema, la problematica inerente all’interesse sostanziale del soggetto prosciolto in capo al quale permangano conseguenze pregiudizievoli, sia pure in sede civile.

E proprio intorno a questo fulcro ruota la decisione n. 46707 del 2016, laddove afferma una correlazione univoca tra condanna, anche alle spese civili, ed esigenze di giustizia e ammette la revisione nel caso de quo, risolvendo con un radicale capovolgimento di indirizzo il thema decidendum.

Le coordinate seguite al riguardo dall’opinione dissenziente della Suprema Corte, che configura un fatto processuale idoneo ad ammettere il rimedio straordinario anche nel caso di condanna riguardante le spese civili, si inseriscono nella prospettiva della mutata concezione della res iudicata, non più baluardo predisposto per attuare il dictum cognitivo, ma dato terminale flessibile, proteso ad assicurare la giusta soluzione della controversia. Il conseguente epilogo decisorio è imperniato su una lettura delle norme che muove dalla visione di un processo penale inteso come “attuazione giusta di giustizia” [26], ove la revisione risponde allo scopo, genetico e finalistico, di assicurare, anche successivamente all’irre­vocabilità, la tutela dei diritti e delle garanzie individuali.

Peraltro, in dottrina, da tempo si era osservato che l’esclusione di tutte le sentenze di proscioglimento dall’ambito di operatività delle revisione poteva concretizzare un’irragionevole disparità di trattamento per coloro che, nel ricorrere dei presupposti, avessero interesse a chiedere la revisione di una sentenza di proscioglimento a fronte del residuare di pregiudizi, come nel caso di sentenze con le quali viene applicata una misura di sicurezza o viene concesso il perdono giudiziale [27].

La sentenza n. 2656 del 2016 si innesta nel solco dell’orientamento, oggetto di ampia convergenza, che ritiene suscettibile di revisione la sola decisione penale di condanna, in forza del principio di tassatività di cui all’art. 568, comma 1, c.p.p., valevole anche per le impugnazioni straordinarie, e della lettera dell’art. 629 c.p.p. che richiama solo le sentenze di condanna e quelle di patteggiamento, oltre ai decreti penali. Tuttavia, è difficile disconoscere che la norma da ultimo citata, nell’evocare la figura del condannato, non prevede espressamente alcuna distinzione, sì che l’esclusione del soggetto condannato solo per gli interessi civili resta affidata esclusivamente a scelte ermeneutiche.

Per tal ragione, atteso il doveroso e riconosciuto presupposto della necessità di una condanna, emerge la percezione che l’isolato, divergente, orientamento potrebbe essere il preludio per una più estesa interpretazione dell’operatività della revisione, in relazione all’ampiezza della locuzione sentenza di condanna, “sul riflesso di un sempre più accentuato favor per la tutela degli interessi materiali e morali di chi sia stato a torto condannato” [28].

 

[1] Cfr. Cass., sez. II, 23 febbraio 2016, n. 8864, in www.cortedicassazione.it; Cass., sez. III, 3 marzo 2011, n. 24155, in CED Cass., n. 2506331; Cass., sez. V, 2 dicembre 2010, n. 2393, in CED Cass., n. 249781; Cass., sez. V, 24 febbraio 2004, n. 15973, in CED Cass., n. 22876301; Cass., sez. VI, 30 novembre 1992, n. 4231, in CED Cass., n. 19345701; Cass., sez. I, 15 maggio 1992, n. 1682, in CED Cass., n. 19000201.

[2] Per approfondimenti sull’istituto si rinvia, tra gli altri, a G. Galli, Sentenza penale (revisione della), in Ns. Dig. it., XVI, Torino, 1969, p. 1204; R. Vanni, Revisione del giudicato, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 179; A. Presutti, Revisione del processo penale, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, p. 1; R. Normando, Prime riflessioni sulla “nuova” revisione del giudicato penale, in Annali dell’Istituto di Diritto e procedura penale, Università degli Studi di Salerno, 1993, p. 239; A. Scalfati, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova, 1995; G. Spangher, Revisione, in Dig. pen., XII, Torino, 1997, p. 137; G. Dean, Revisione, Padova, 1999.

[3] V. R. Normando, Il sistema dei rimedi revocatori del giudicato penale, Torino, 1996, p. 103.

[4] In questi termini A.A. Dalia-M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 2016, p. 863.

[5] Così F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, p. 1217.

[6] Infatti, l’art. 3, l. 12 giugno 2003, n. 134, ha affiancato alle sentenze di condanna e ai decreti penali, le sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p. Tale scelta è stata valutata positivamente da quella parte della dottrina che sottolinea come il nostro sistema lasci ampio spazio ai riti negoziali e, di conseguenza, aumenti il pericolo di errori giudiziari (I. Calamandrei, Sentenza di patteggiamento e revisione, Giur. it., 2005, p. 214; E. Amodio, I due volti della giustizia negoziata nella riforma del patteg­giamento, Cass. pen., 2004, p. 705). Altra parte della dottrina, invece, ha ritenuto che tale scelta sia criticabile data l’incompatibilità strutturale tra la revisione e la sentenza di patteggiamento, la quale a causa di un incompleto accertamento, non è realmente equiparabile ad una decisione di condanna (L. Cremonesi, Patteggiamento “tradizionale” e “allargato”, ecco le differenze, Dir. e giu­stizia, 2003, p. 15). Una posizione intermedia, infine, è stata assunta da chi ha criticato l’omessa previsione di una disciplina differenziata per la revisione della sentenza di patteggiamento (A. Scalfati, Patteggiamento e revisione: tra recupero del giudizio e attriti di sistema, in F. Peroni (a cura di), Patteggiamento “allargato” e giustizia penale, Torino, 2004, p. 51). Un’ulteriore critica alla modifica normativa de qua è data dal riferimento alle sole sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p.: infatti, si è sottolineato come il richiamo al comma 2, stante il principio di tassatività, escluda quelle emesse ai sensi dell’art. 448 c.p.p. (F. Peroni, Le nuove norme in tema di patteggiamento “allargato” e di sanzioni sostitutive, Dir. pen. proc., 2003, p. 1074).

[7] Trattasi dei casi previsti dall’art. 8, commi 3, 4 e 5, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso, e dall’art. 16-septies nel testo del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito dalla l. 15 marzo 1991, n. 82.

[8] Sul punto cfr. A. Presutti, sub art. 629 c.p.p., in G. Conso-G. Illuminati (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2015, p. 2801.

[9] In questi termini, P. Spagnolo, sub art. 629 c.p.p., in G. Spangher (diretto da), Atti processuali penali. Patologie, sanzioni, rimedi, Milano, Ipsoa Gruppo Wolters Kluwer, 2013, p. 3418.

[10] Cfr. Cass., sez. V, 24 febbraio 2004, n. 15973, in Riv. pen., 2005, p. 642; Cass., sez. I, 15 aprile 1992, n. 1672, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 625; Cass., sez. VI, 30 novembre 1992, n. 4231, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 817.

[11] Ipotesi in cui si applica l’art. 673 c.p.p. che riguarda anche le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità. In tal senso F. Callari, La revisione. La giustizia penale tra forma e sostanza, Torino, Giappichelli, 2010, p. 337; contra C. Fiorio, La prova nuova nel processo penale, Padova, Cedam, 2008, p. 230.

[12] Delle quali si occupano gli artt. 29 e 33, l. 25 gennaio 1992, n. 20 (decisioni della Corte costituzionale) e 401 c.p.m.p. (tribunali militari).

[13] La cui impugnabilità mediante revoca, prevista dall’art. 7, comma 2, l. 27 dicembre 1956, n. 1423, consente di valutare sia le situazioni sopravvenute che l’insussistenza originaria delle condizioni per l’applicazione della misura.

[14] Tale ultima ipotesi deriva dagli effetti limitati del riconoscimento che «non assorbono mai…il contenuto precettivo san­zionatorio del provvedimento giudiziario straniero». Così E. Jannelli, sub art. 629 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Com­mento al nuovo codice di procedura penale commentato, Torino, Utet, 1991, p. 328.

[15] Testualmente M. R. Marchetti, La revisione, in G. Spangher - A. Marandola - G. Garuti - L. Kalb (diretto da), Procedura penale. Teoria e pratica del processo, vol. IV, L. Kalb (a cura di), Milano, Wolters Kluwer, 2015, p. 431.

[16] Così M. Gialuz, sub art. 631 c.p.p., in A. Giarda - G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, Ipsoa Gruppo Wolters Kluwer, 2010, p. 7621.

[17] Cfr, Relazione al Progetto preliminare, in G.U., Suppl. ord. n. 2, 24 ottobre 1988, n. 250, p. 136.

[18] In questi termini C. Santoriello, Niente revisione per le sentenze che abbiano dichiarato la prescrizione del reato, Quotidiano giuridico, n. 2, 2017.

[19] Cass., sez. V, 3 ottobre 2016, n. 46707, in www.cortedicassazione.it.

[20] Così Cass., sez. V, 3 ottobre 2016, n. 46707, cit.

[21] In questi termini ancora Cass., sez. V, 3 ottobre 2016, n. 46707, cit.

[22] Il principio è espresso da Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 28719, in www.cortedicassazione.it.

[23] In questi termini G. Negri, No alla revisione della prescrizione, in www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com, 20 gennaio 2017.

[24] Così F.G. Capitani, Impugnabili per revisione le sole condanne penali, Dir. e giustizia, 14, 2017, p. 6.

[25] Sul punto cfr. M.R. Marchetti, La revisione, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, vol. V, Milano, Ipsoa Gruppo Wolters Kluwer, 2009, p. 929.

[26] G. Capograssi, Intorno al processo (ricordando Giuseppe Chiovenda), Milano, 1959, IV, p.153.

[27] In tal senso, S. Lonati, Applicazione dell’art. 587 c.p.p. nel giudizio di revisione e riassunzione della qualità di imputato (un aspetto particolare del “caso Sofri”)Cass. pen., 2001, p. 3144; R. Normando, Il sistema dei rimedi revocatori, cit., p. 105; G. Spangher, Revi­sione, cit., p. 137.

[28] C. cost., sent. 5 marzo 1969, n. 28, in Giur. cost., 1969, p. 391.