La suprema Corte ritraccia il perimetro di operatività della riparazione per ingiusta detenzione derivante da erroneo ordine di esecuzione e ammette l'illegittimità sopravvenuta del provvedimento di esecuzione.
The High Court retracts the perimeter of applicability of reparation for wrongful imprisonment resulting from a wrongful execution order and admits the supervening illegitimacy of the executive measure.
1. La questione giuridica - 2. Dal solo errore giudiziario alla riparazione per ingiusta detenzione per erroneo ordine di esecuzione: vuoti normativi e interventi giurisprudenziali - 3. Verso il definitivo ampliamento della definizione di erroneo ordine di esecuzione - 4. Quando sussiste la causa ostativa? - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
Con la decisione in epigrafe i Giudici della Cassazione sono intervenuti sul regime di applicabilità della riparazione per ingiusta detenzione [1], disciplinata dagli artt. 314 e 315 c.p.p., i cui confini sono stati spesso incerti a cagione della estrema laconicità normativa. Attualmente non residuano dubbi sul riconoscimento del diritto di cui all’art. 314 c.p.p. anche nei casi di erroneo ordine di esecuzione. Tuttavia, si registrano evidentemente ancora incertezze sulla configurabilità o meno del diritto anzidetto, allorquando l’ingiusta restrizione della libertà derivi da vicende successive alla condanna e connesse all’esecuzione della pena. Su tale questione è intervenuta la Corte. Nel caso di specie, la Corte di appello di Roma aveva rigettato la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione presentata dal condannato, per essere stato sottoposto ad una privazione della libertà per 722 giorni in più rispetto alla pena individuata dalla Procura. Nello specifico, ad un primo ordine di esecuzione “errato” era seguito un secondo ordine di esecuzione che individuava correttamente il fine pena, tenuto conto anche dei giorni di liberazione anticipata, e sulla scorta del quale il condannato avrebbe dovuto essere rimesso in libertà prima del giorno in cui la liberazione si era concretamente realizzata. Ad avviso della Corte territoriale non si configurava alcun diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, in quanto la mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita dipendeva da vicende successive alla condanna e connesse all’esecuzione della pena. Adita la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 315 c.p.p., quest’ultima accoglieva il ricorso e, prendendo le distanze dalla statuizione dei Giudici del gravame, affermava che sussiste il diritto alla riparazione, quando l’ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive all’esecuzione della pena, purché non vi sia un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato che sia stato causa o concausa dell’errore o del ritardo nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione. La Corte, ripercorrendo l’evoluzione dell’istituto de quo, ha attribuito dunque rilevanza, ai fini della configurabilità del diritto alla riparazione, anche ad accadimenti che si verificano durante l’esecuzione della pena, a condizione che non [continua ..]
È noto che l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è stato introdotto nell’ordinamento interno solo con il codice del 1988. Fino ad allora si riconosceva, infatti, unicamente la riparazione per errore giudiziario prevista dall’art. 571 del codice del 1930 [2]. Anche in seguito all’entrata in vigore della Costituzione e dell’art. 24, comma 4, Cost., ai sensi del quale «la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», nulla è cambiato. Si accedeva, infatti, ad una lettura restrittiva della norma costituzionale [3], per cui l’errore giudiziario continuava ad assumere rilevanza solo con riguardo alle ipotesi di revisione di una sentenza passata in giudicato [4]. Il vuoto normativo, tardivamente colmato, ha reso per lungo tempo l’ordinamento interno inadeguato rispetto alla normativa sovranazionale, segnatamente all’art. 5 Cedu, ai sensi del quale ogni vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni di cui alla medesima norma ha diritto ad una riparazione, e all’art. 9 Patto Internazionale sui diritti civili e politici, il quale statuisce, invece, che chiunque sia stato vittima di arresto o detenzioni illegali ha diritto ad una riparazione [5]. Benché tali disposizioni avessero un contenuto preciso e determinato, non si riteneva che le stesse avessero carattere self exectuing, poiché «rimanevano inseguibili a causa della mancata predisposizione di mezzi materialmente e giuridicamente necessari per la loro osservanza» [6]. Si aggiunga che la disciplina recata dal codice del 1930 presentava profili di inadeguatezza rispetto alle garanzie costituzionali, più nello specifico, alle esigenze di tutela della libertà personale di cui all’art. 13 Cost. e all’ampia portata dell’art. 24, comma 4, Cost. A riprova dell’assunto, infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 24 gennaio 1969 [7], dichiarava l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 571 c.p.p., come modificato dalla legge 23 maggio 1960, n. 504, ritenendo che la norma de quo non potesse essere considerata costituzionalmente illegittima nella misura in cui prevedeva solo il diritto alla riparazione in caso di errore di giudicato, affermando che non poteva più individuarsi quale [continua ..]
La riparazione per ingiusta detenzione derivante da un erroneo ordine di esecuzione ha subito nel tempo un progressivo ampliamento. Quest’ultimo è da ricondursi principalmente ad una sempre maggiore specificazione dell’espressione «erroneo ordine di esecuzione», di cui, da subito, si è evidenziata l’estrema genericità [21]. Tale specificazione però, ancora una volta, non è dovuta ad interventi legislativi, ma all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. Di fatti, la riparazione per ingiusta detenzione derivante da erroneo ordine di esecuzione non ha mai avuto riconoscimento in una norma di diritto positivo e con essa anche la sua evoluzione [22]. Inizialmente per ordine di esecuzione erroneo si intendeva solo il provvedimento adottato in violazione di legge e si riteneva che l’illegittimità potesse essere unicamente originaria, vale a dire contingente al momento di adozione dello stesso [23]. Non rilevavano vizi sopravvenuti e successivi all’adozione del provvedimento di esecuzione. Tale conclusione si fondava sulla pronuncia della C. cost. n. 219/2008, la quale escludeva l’indennizzo nell’ipotesi in cui la mancata corrispondenza tra detenzione cautelare e pena eseguita, o eseguibile, conseguisse a vicende posteriori connesse al reato o alla pena, quali l’amnistia o l’indulto. Viceversa, i Giudici delle leggi riconoscevano un indennizzo in capo al soggetto che avesse scontato una detenzione cautelare superiore alla pena inflitta, allorquando lo scarto tra misura cautelare e pena derivava da vicende che si verificavano prima della sentenza. Si configurava, e si configura tutt’ora, un’illegittimità originaria in caso di adozione di un ordine di esecuzione in assenza di un titolo esecutivo ovvero quando un ordine è adottato sulla base di un titolo non ancora divenuto esecutivo o in base a un titolo erroneamente supposto esecutivo [24]. L’illegittimità è, altresì, originaria allorquando il provvedimento è emesso in presenza dei presupposti che, invece, legittimano la sospensione dell’esecuzione della pena [25]. Successivamente si è registrata un’apertura anche alla configurabilità dell’illegittimità sopravvenuta, oltre che originaria. La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto il diritto alla [continua ..]
La riparazione per ingiusta detenzione per erroneo ordine di esecuzione postula, come anticipato, anche un requisito negativo, integrato dall’assenza del dolo o della colpa grave [31], quali cause o concause dell’illegittima restrizione della libertà. Si esclude, infatti, il diritto di cui all’art. 314 c.p.p. allorquando la restrizione della libertà personale, oltre il termine dovuto, sia riconducibile anche ad una condotta del ristretto. La previsione della condizione ostativa trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di evitare «abusi e speculazioni fraudolente» [32]. Inoltre, si pone in evidenza come siffatta condizione mutui dal diritto civile il principio di autoresponsabilità [33], il quale contempera l’operatività del principio solidaristico sotteso all’istituto in esame [34]. Anche con riguardo alla condizione ostativa, ancora una volta, si è lasciato all’interprete il compito di individuarne l’ambito di operatività e di definirne il contenuto. Inizialmente la condizione ostativa si applicava alle sole ipotesi di cui all’art. 314, comma 1, c.p.p. Tuttavia, dinanzi a siffatta applicazione restrittiva, si era affermato un indirizzo ad avviso del quale appariva irragionevole escludere l’applicazione della condizione anzidetta alle ipotesi di ingiustizia di cui all’art. 314, comma 2, c.p.p. [35]. Un contrapposto orientamento minoritario [36], invece, rimanendo fedele al dato letterale, escludeva l’operatività della condizione ostativa in caso di ingiustizia formale. Nello specifico, si riteneva condizione sufficiente per la configurabilità del diritto all’equa riparazione l’assenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari. La suprema Corte nella sua massima composizione ha superato il conflitto e, aderendo al primo degli indirizzi succitati, ha esteso così l’ambito di applicazione della condizione ostativa anche all’ingiustizia formale di cui all’art. 314, comma 2, c.p.p. [37]. In seguito all’estensione della condizione ostativa anche alle ipotesi di cui all’art. 314, comma 2, c.p.p. appariva irragionevole non prevederne l’operatività con riguardo alla riparazione per ingiusta detenzione derivante da erroneo ordine di esecuzione. Tale applicazione estensiva era oltremodo [continua ..]
Nonostante le garanzie in gioco, l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione non è mai stato oggetto di radicali interventi legislativi, neanche nell’ambito di più ampie riforme legislative. Dinanzi a mancate e necessarie modifiche, è intervenuta la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la quale ha allargato le maglie della riparazione per ingiusta detenzione, fino a restituire un istituto dai confini più estesi e più rispettoso delle esigenze di tutela della libertà individuale. Tale aspetto è sicuramente confermato dalla decisione esaminata, la quale ha riconosciuto il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione patita in forza di un provvedimento di esecuzione affetto da illegittimità sopravvenuta. Attualmente, tuttavia, pur potendo guardare con favore all’assetto cui si è giunti riguardo la riparazione per ingiusta detenzione, occorre chiedersi se, in forza dei valori che vengono in rilievo, lo stesso sia soddisfacente o sia ancora perfettibile.