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Ammissione della prova documentale proveniente dalla parte civile nell'abbreviato condizionato
di Francesco Zacché, Professore associato di Diritto processuale penale - Università degli Studi di Milano-Bicocca
Con una sentenza innovativa, ma discutibile, la Corte di cassazione esclude che possa essere utilizzata nel giudizio abbreviato condizionato una prova documentale proveniente dalla parte civile, nel presupposto che l’art. 438, comma 5, terzo periodo, c.p.p. contenga un divieto probatorio implicito.
The italian Supreme Court denies that the judge can use documentary evidence provided by civil party in summary trial, because the art. 438 para. 3 Crim. Proc. Cod. contains no express exclusionary rule.
Nel giudizio abbreviato condizionato, la parte civile non dispone del diritto alla prova contraria
MASSIMA:
La parte civile non ha diritto di controprova nel giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria sicché sono inutilizzabili le prove che siano nondimeno acquisite ad istanza di tale parte processuale, in violazione dell'implicito divieto normativo di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen.
PROVVEDIMENTO:
(Omissis)
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano ha confermato la condanna di (omissis) in ordine ai reati di cui agli artt. 12-sexies l. n. 898 del 1970 in relazione all’art. 570, primo comma, cod. pen. (capo A) e 570-bis cod. pen. (capo B) commessi in danno della figlia minore (omissis) e ritenuti unificati dal vincolo della continuazione, rideterminando la pena inflittagli in primo grado nella misura di quattro mesi di reclusione.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato che deduce un unico motivo di censura di natura processuale.
In particolare, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 438, comma 5, 442, comma 1-bis, 495, 526 e 191 cod. proc. pen. esponendo quanto segue.
Il Tribunale disponeva la celebrazione del rito abbreviato condizionato, ammettendo in controprova le prove dedotte sia dal Pubblico Ministero che dalla parte civile, in violazione dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., che concede tale facoltà al solo organo dell’accusa.
In concreto, il Pubblico Ministero chiedeva ed otteneva di acquisire copia di un decreto penale di condanna precedentemente messo a carico dell’imputato, sebbene non costituente prova contraria; quanto alla parte civile, il giudice disponeva l’acquisizione al fascicolo del procedimento di una serie di documenti che, nei giorni precedenti l’udienza, erano stati depositati dal difensore della allora persona offesa (omissis) presso la cancelleria e conseguentemente inseriti nel fascicolo del dibattimento.
L’eccezione di inutilizzabilità della documentazione illegittimamente introdotta dalla parte civile nel giudizio, formulata con l’atto di appello, è stata, tuttavia, respinta dalla Corte territoriale sul rilievo che la stessa “era già stata prodotta in fase antecedente alla richiesta del rito speciale e faceva già parte del fascicolo del dibattimento nel momento in cui l’imputato” aveva optato per il rito abbreviato, con la conseguenza che “la parte civile non ha (…) introdotto alcuna prova contraria”.
Il ricorrente sostiene, per contro che la dichiarazione di inutilizzabilità delle prove documentali introdotte dalla parte civile avrebbe condotto ad una decisione di diverso tenore rispetto a quella impugnata.
Anche a prescindere dal mancato riconoscimento alla parte civile di una facoltà di integrazione probatoria ai sensi dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., i documenti dalla stessa prodotti non potevano, infatti, essere considerati prova contraria poiché depositati prima ancora che l’imputato formulasse la richiesta di rito alternativo, producendo la propria documentazione cui era stata subordinata la richiesta stessa.
Non si comprende, del resto, a che titolo e su quale base procedurale gli atti e documenti depositati in cancelleria ed inseriti nel fascicolo del giudice, potessero essere legittimamente utilizzati per la decisione.
È stato, infatti, violato l’art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen., a mente del quale, ai fini della deliberazione il giudice utilizza gli atti contenuti nel fascicolo di cui all’art. 416, comma 2, la documentazione di cui all’art. 419, comma 3, e le prove assunte nell’udienza.
Dal momento che gli atti di cui agli artt. 416, comma 2 e 419, comma 3 sono quelli provenienti dal Pubblico Ministero (atti delle indagini preliminari e delle indagini integrative) e che le prove assunte all’udienza potevano essere solo quelle di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., non è dato individuare alcuna base normativa per l’acquisizione dei documenti della parte civile, né gli stessi, inseriti nel fascicolo del giudice mediante deposito in cancelleria, prima ancora della richiesta di rito abbreviato, divengono automaticamente acquisiti e utilizzabili.
Se, dunque, come sostenuto dalla Corte di appello e a dispetto dell’ordinanza del Tribunale, la parte civile non ha introdotto alcuna prova contraria, si deve concludere che gli atti e i documenti depositati presso la cancelleria del giudice non avrebbero comunque potuto essere utilizzati, non essendovi la possibilità di acquisirli, tanto più a rito abbreviato ammesso, essendo stati semplicemente depositati fuori udienza, per altro da soggetto che all’epoca non rivestiva neppure la qualità di parte processuale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Preliminare ad ogni considerazione sul profilo di diritto specificamente dedotto è il rilievo che il ricorrente ha dettagliatamente indicato quale sono stati i documenti prodotti dalla parte civile (v. pag. 7 ricorso), così da consentirne una sommaria delibazione contenutistica ed effettivamente alcuni di quelli indicati (ad es. estratti conto relativi ai bonifici versati dall’imputato a titolo di contribuzione al mantenimento della figlia minore) riguardavano precisamente la prova del mancato adempimento dell’obbligo alimentare, esplicando, perciò, una piena rilevanza ai fini della decisione.
Come risulta dalla narrativa esposta in ricorso, la peculiarità del caso è data dal fatto che, una volta ammesso al giudizio abbreviato condizionato, l’imputato ha visto inopinatamente entrare nel fascicolo del dibattimento (pag. 2 sent. primo grado) la prova contraria prodotta dalla parte civile, che notoriamente non ha facoltà di controprova ai sensi dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., riservata al solo Pubblico Ministero, conservando unicamente la possibilità di accettare (art. 441, comma 2) ovvero di rifiutare (art. 441, comma 4) il rito speciale alla luce del quadro probatorio cristallizzato dalle indagini dell’organo requirente e dalle prove integrative a discarico cui l’imputato ha subordinato il ricorso al rito stesso.
Quindi la parte civile non ha il potere di formulare alcuna richiesta probatoria nel giudizio abbreviato, sebbene possa, una volta che il giudice abbia d’ufficio disposto perizia, nominare consulenti tecnici (Sez. 4, n. 42117 del 27/10/2021, Mocetti, Rv. 282103).
Fatte tali premesse, a fronte dell’eccezione difensiva di inutilizzabilità, la Corte di appello ha individuato una sorta di sanatoria, sostenendo che quei documenti erano stati prodotti dalla parte civile in fase antecedente alla richiesta di rito abbreviato, facendo, perciò, già parte del fascicolo del dibattimento nel momento in cui l’imputato aveva chiesto di accedervi.
La tesi non convince e va disattesa per le seguenti considerazioni.
In termini generali, la possibilità di una sanatoria di prove inutilizzabili nel rito speciale è smentita dal chiaro tenore dell’art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen., che esclude espressamente dalla regola della non rilevabilità delle inutilizzabilità proprio “quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio”.
Nella specie, infatti, si verte esattamente in un caso di violazione di un divieto probatorio, configurato, implicitamente ma univocamente, dal disposto del penultimo capoverso dell’art. 438, comma 5, cod. prnc. pen., che attribuisce al solo Pubblico Ministero la facoltà di controprova.
Resta, invece, da stabilire se un’altra ipotesi, innominata, di sanatoria possa essersi determinata per effetto del deposito nella cancelleria del giudice, ad opera della parte offesa, di quella documentazione prima dell’inizio del giudizio e, quindi, prima della scelta dell’imputato di accedere al rito speciale.
Il ricorrente allega che le prove meramente depositate in cancelleria da chi in quel momento non ricopriva neppure la veste di parte processuale, non potevano dirsi ricomprese nel fascicolo di cui all’art. 416, comma 2, come richiamato dall’art. 442, comma 1-bis cod. proc. pen.
Il rilievo appare corretto.
La mera produzione al giudice di documenti di rilevanza probatoria non è di per sé suscettibile di determinarne l’acquisizione agli atti del giudizio, in quanto l’art. 495, comma 1, cod. proc. pen. prevede espressamente che il giudice, sentite in contraddittorio le parti, procede all’ammissione delle prove ai sensi degli artt. 190, comma 1 e 190-bis.
È utile, inoltre, ricordare che prima della costituzione come parte civile, la parte offesa, oltre ad esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge, può in ogni stato e grado del procedimento unicamente presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova (art. 90, comma 1, cod. proc. pen.), dove per indicazione di elementi di prova nel corso della fase delle indagini preliminari o in quella delle indagini integrative espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 2) o dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio (art. 552), deve intendersi l’indicazione o anche la stessa materiale produzione al Pubblico Ministero, il solo legittimato in dette fasi a procedere ad attività di ricerca della prova.
La filosofia generale che informa il giudizio abbreviato fa perno, del resto, proprio sulla circostanza che l’imputato accetta, in cambio di sensibile una riduzione di pena (art. 442 cod. proc. pen.), che il giudizio si svolga sulla base delle prove raccolte dal Pubblico Ministero, delle quali egli non contesta né la pertinenza né la rilevanza ai fini del giudizio, conservando la sola possibilità di chiederne l’integrazione con quelle da lui stesso prodotte (abbreviato condizionato), con esclusione di quelle provenienti dalla parte civile, che, ove in grado di allegare a sua volta ulteriori prove che reputi decisive, ha solo la facoltà di non accettare il rito abbreviato e perseguire la strada del separato giudizio civile.
Una volta ammesso a rito abbreviato, inoltre, l’imputato non ha facoltà di revocare la richiesta di ammissione, se non nel caso di modifica dell’imputazione ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen., secondo quanto stabilito dall’art. 441-bis, comma 1 e 4, cod. proc. pen. o in particolari ipotesi previste da interventi speciali del legislatore (ad es. art. 8 d.l. n. 341 del 2000, per tutte v. Sez. 1, n. 15151 del 22/03/2002, Vancheri, Rv. 221866).
Vale pure ricordare che in forza del potere di integrazione probatoria attribuitogli dall’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., il giudice può acquisire ex officio prove messe a disposizione anche dalla parte civile, essendo quel potere preordinato alla tutela dei valori costituzionali che devono presiedere, anche nei giudizi a prova contratta, all’esercizio della funzione giurisdizionale, rispondendo, pertanto, alle medesime finalità cui è preordinato il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. in dibattimento (Sez. 1, n. 42050 del 01/07/2014, P.G. in proc. Sorgato, Rv. 260514 in fattispecie di acquisizione da parte del G.u.p. di consulenze medico-legale e psichiatrica prodotte dalla parte civile, nonché altre conformi).
Quella disciplinata dall’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. si configura, tuttavia, come un’evenienza suscettibile di concretizzarsi a seguito di una valutazione piena e in contraddittorio tra le parti di un compendio probatorio legittimamente e ritualmente acquisito, mentre il caso in esame si caratterizza per la totale assenza di detta valutazione, dal momento che le prove della parte civile sono state acquisite senza alcuna interlocuzione ad opera delle altre parti processuali.
Come, infatti, correttamente e conclusivamente sostenuto in ricorso, dal momento che gli atti di cui agli artt. 416, comma 2 e 419, comma 3 (atti delle indagini preliminari e delle indagini integrative) sono soltanto quelli provenienti dal Pubblico Ministero e che le prove assunte in udienza potevano essere solo quelle di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., non è dato individuare alcuna base normativa per l’acquisizione dei documenti della parte civile, né gli stessi, inseriti nel fascicolo del giudice mediante deposito in cancelleria, prima ancora della richiesta di rito abbreviato, avrebbero per ciò stesso potuto divenire immediatamente acquisibili ed utilizzabili.
3. La sentenza resa in primo grado in esito a giudizio abbreviato è stata, dunque, pronunciata con il concorso di prove che, ritenute pertinenti e rilevanti ai fini della decisione, risultavano, tuttavia, inutilizzabili poiché illegittimamente acquisite agli atti del processo in violazione di un chiaro, ancorché implicito, divieto (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), risultandone il complessivo compendio probatorio irrimediabilmente inficiato sì da rendersi necessario l’annullamento della decisione, al pari dell’impugnata sentenza di secondo grado che l’ha confermata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e quella emessa in data 18/11/2019 dal giudice di primo grado, disponendo la trasmissione degli atti al Tribunale di Milano per l’ulteriore corso.
(Omissis)
Corte di Cassazione, sez.VI, 28 giugno 2022, n. 24771; Pres. Fidelbo - Rel. Villoni
Sommario:
1. Il quesito di fondo - 2. Le incertezze interpretative - 3. Le criticità: prova diretta o ex adverso? - 4. Divieto probatorio o parte civile ad “armi spuntate”? - 5. I poteri del giudice ex art. 441, comma 5, c.p.p. e il procedimento probatorio documentale - NOTE
1. Il quesito di fondo
La sentenza in commento merita una segnalazione tanto per la «peculiarità del caso» [1], quanto per la singolarità delle sue conclusioni, generate dall’intersezione di due discipline dai tratti chiaroscuri: quella sui (limitati) poteri della parte civile in ambito probatorio nel giudizio abbreviato condizionato e quella sulle «modalità ammissive e assuntive (comprensivamente dette acquisitive)» [2] dei documenti extraprocessuali. Sul primo fronte, la l. 16 dicembre 1999, n. 479 ha escluso che spetti alla parte civile il diritto alla prova contraria rispetto alle prove dedotte dall’accusato attraverso la domanda di semplificazione delle forme processuali ex art. 438, comma 5, c.p.p. Sul secondo, il legislatore non ha prestato particolare «attenzione esplicativa … [al] complesso procedimento probatorio documentale» [3], relegato in un «quadro normativo estremamente scarno» [4] e focalizzato sulle dinamiche dibattimentali. Da qui l’interrogativo di fondo della vicenda in esame, ossia a quali condizioni possa essere utilizzata una prova documentale della parte civile che accetta di partecipare al rito speciale subordinato a integrazione probatoria.
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2. Le incertezze interpretative
Nei vari gradi di giudizio, il quesito in parola ha ricevuto risposte differenti, non sempre convincenti. Instaurato il rito alternativo, come si legge nella sentenza annotata, il tribunale ha disposto l’acquisizione, a prova contraria, dei documenti provenienti dalla parte civile [5], condannando sulla base dei medesimi l’imputato a quattro mesi di reclusione. Nel conseguente appello, l’imputato ha chiesto che le prove precostituite della parte eventuale venissero dichiarate inutilizzabili ex art. 191 c.p.p., per violazione (fra gli altri) dell’art. 438, comma 5, terzo periodo, c.p.p. Tuttavia, il giudice di secondo grado ha respinto la doglianza nel presupposto che il materiale probatorio in parola era stato immesso nel processo dall’interessato, sì dopo la citazione diretta a giudizio, ma prima della richiesta del rito speciale, ragione per cui il documento non poteva considerarsi prova contraria. La Corte di cassazione, dal canto suo, ha smentito la validità di questa ricostruzione. A suo parere, l’opzione per il rito speciale non può mai sanare ex art. 438 comma 6-bis c.p.p. la violazione di un divieto probatorio, come quello «configurato, implicitamente ma univocamente, dal disposto penultimo capoverso dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., che attribuisce solo al Pubblico Ministero la facoltà di controprova», o meglio di prova contraria. Né - prosegue il giudice di [continua ..]
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3. Le criticità: prova diretta o ex adverso?
Una prima criticità concerne la stessa possibilità d’inquadrare le prove documentali provenienti dalla parte eventuale come prova contraria. Rilevato che il procedimento concerneva la violazione degli obblighi di assistenza familiare (ex art. 12-sexies l. 1° dicembre 1970, n. 898 e 570, comma 1, c.p.p., e 570-bis c.p.), giova premettere che l’ammissione dei documenti extraprocessuali richiesti dall’imputato ai sensi dell’art. 438 comma 5 c.p.p. riguardava la sua incapacità economica a provvedere al mantenimento della figlia; mentre il materiale probatorio depositato fuori e prima dell’udienza dalla persona offesa-danneggiata dal reato era volto a dimostrare il mancato adempimento degli obblighi alimentari da parte del prevenuto. Alla luce di ciò, risulta discutibile classificare i documenti extraprocessuali provenienti dalla parte civile alla stregua di una prova ex adverso. Ma non perché - come sostenuto dalla corte d’appello, facendo valere una sorta di criterio temporale - essi siano stati prodotti prima della richiesta di semplificazione delle forme processuali. Più correttamente, la ragione sembrerebbe risiedere nel fatto che a determinare cosa sia prova contraria rispetto a cosa sia prova diretta è l’idem punctum su cui gli strumenti probatori da acquisire, da prospettive antitetiche, rispettivamente insistono [7]. E, nella specie, la prova presentata dalla parte [continua ..]
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4. Divieto probatorio o parte civile ad “armi spuntate”?
Le incongruenze, però, non sono limitate all’operatività in sé e per sé dell’art. 438, comma 5, terzo periodo, c.p.p. La Corte di cassazione pare andare oltre il segno laddove afferma che tale previsione contiene un divieto probatorio, che impedisce alla parte civile di prospettare al giudice richieste istruttorie ex adverso. Anche tale assunto, infatti, non appare condivisibile, perché i divieti probatori - siano essi espliciti o indiretti [9] - attengono pur sempre «alla compatibilità con l’ordinamento della fonte e/o mezzo di prova in quanto tali» [10], ossia «al fatto da provare … alla persona usata quale fonte … ovvero alla cosa» [11], con l’effetto che, solo «se l’atto acquisitivo vìola … [siffatte] regole di esclusione, i relativi dati cadono fuori dal quadro decisorio» [12]. Lungi dal prescrivere un divieto probatorio, insomma, l’art. 438, comma 5, terzo periodo, c.p.p. si limita a riconosce il diritto alla prova contraria sulle prove dedotte dall’imputato unicamente in capo al pubblico ministero; quanto alle altre parti private - portatrici di interessi diversi - tale diritto “degrada” a «mera facoltà di indicazione [della prova ex adverso], cui non corrisponde il dovere del giudice di ammetterla» [13]. Certo, tale assetto implica la presenza nel procedimento [continua ..]
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5. I poteri del giudice ex art. 441, comma 5, c.p.p. e il procedimento probatorio documentale
Al di là di quanto detto, vale la pena osservare che la Corte di cassazione avrebbe comunque potuto risolvere la questione sottoposta al suo scrutinio in poche battute, valorizzando la circostanza che sia la persona offesa, concluse le indagini preliminari [18], sia la parte civile [19] possono sollecitare l’ammissione di prove (dirette o contrarie) in seno al rito abbreviato, ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p., laddove autorizza il giudice ad integrare il materiale probatorio anche d’ufficio [20]. Il giudice di legittimità, invece, ha escluso che sia applicabile alla vicenda esaminata tale disposto, perché esso esigerebbe una valutazione in contraddittorio fra le parti sul materiale probatorio già ritualmente acquisito, mentre nel caso concreto non vi era stata alcuna interlocuzione ad opera delle altre parti processuali sui documenti depositati prima della richiesta di semplificazione delle forme processuali. Si annida qui un ulteriore equivoco, provocato da un’insufficiente messa a fuoco del procedimento probatorio documentale [21], quando entra in gioco il rito abbreviato. È vero che la produzione dei documenti da parte dell’offeso-danneggiato dal reato non implica, per usare le parole della Corte di cassazione, la loro “immediata” acquisizione, risolvendosi la stessa piuttosto in un’attività di offerta probatoria svolta da chi ne ha la [continua ..]
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NOTE