La sentenza in esame torna sul problema del sequestro dei dati informatici. Il provvedimento rappresenta un’innovazione nel panorama giurisprudenziale relativo all’impugnazione del sequestro probatorio. La Cassazione estende per analogia la possibilità di utilizzare l’art. 322-bis c.p.p., previsto per il sequestro preventivo, anche in caso di sequestro probatorio.
Parole chiave: sequestro probatorio – provvedimenti del giudice dell’udienza preliminare – impugnazioni – appello.
The sentence returns to the problem of the sequestration of the computer data. The Court’s decision is innovative because it recognizes the possibility of using, by analogy, the art. 322-bis c.p.p., originally envisaged for preventive seizure, also in the case of evidential seizure.
1. Il caso - 2. Sequestro probatorio di dati informatici: l’identità ontologica tra copia e originale - 3. L’art. 322 bis c.p.p. come rimedio alla mancata restituzione delle cose sequestrate - NOTE
La sentenza in commento riporta l’attenzione sul sequestro probatorio di dati digitali, nonché sulla possibilità e sulla tipologia di impugnazione esperibile da parte del titolare del bene. Nei confronti dell’imputato di corruzione e abuso d’ufficio, viene eseguito sequestro probatorio dei dispositivi informatici, con successiva estrazione di copia dei contenuti. Terminata la fase investigativa, il difensore inoltra richiesta per la restituzione dei dati e dei documenti informatici non rilevanti per le investigazioni. Il giudice dell’udienza preliminare respinge la richiesta difensiva, ritenendo necessaria la prosecuzione del vincolo sui beni al fine di garantire la genuinità della prova, in un momento processuale successivo, e motivando tale scelta anche in virtù del fatto che il pregiudizio alla riservatezza è attenuato dalla restituzione dei supporti informatici restando oggetto di sequestro solo la copia dei dati. Avverso tale decisione la difesa propone ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento dell’ordinanza, deducendo il contrasto della decisione non solo con le norme del codice di rito (artt. 247, 252, 253, 262, c.p.p.), ma anche con i principi costituzionali e convenzionali a tutela del diritto di proprietà (artt. 2 e 42, Cost.; art. 52, § 1, Carta di Nizza), e sostenendo – inoltre – la mancanza di proporzionalità tra il sequestro e le esigenze di accertamento processuale. La Cassazione, investita della questione, affronta il tema della possibilità dell’impugnazione del sequestro probatorio e della tipologia di gravame esperibile in assenza di un riferimento normativo ad hoc e conclude sostenendo che l’impugnazione sia esperibile, ma che la stessa debba identificarsi nell’appello ex art. 322-bis c.p.p., anziché nel ricorso in Cassazione. Nel provvedimento esistono due profili di problematicità che meritano di essere analizzati: il primo attiene alla disciplina del sequestro dei dispositivi informatici e, in particolare alla sovrapponibilità giuridica tra clonazione del dato digitale e dato originale; il secondo è relativo alla tipologia di impugnazione del provvedimento che rigetta l’istanza di restituzione delle cose sequestrate.
Il sequestro probatorio nasce, ai sensi dell’art. 253 c.p.p., con la finalità di creare un vincolo di indisponibilità sul bene che costituisce corpo del reato o cosa pertinente al reato, al fine di ottenere delle informazioni necessarie per l’accertamento dei fatti [1]. Il concetto di corpo del reato è stato definito dal comma 2 dell’art. 253 c.p.p., individuandolo nelle res «sulle quali e mediante le quali il reato è stato commesso», nonché in quelle che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo, quali “oggetti” del reato, “strumenti” dello stesso [2] o “effetti” dall’illecito prodotti, ricomprendendo in questa categoria tutto ciò che ha un rapporto diretto con il reato. Il concetto di cosa pertinente al reato, invece, è stato volutamente lasciato “aperto” dal legislatore all’interpretazione giurisprudenziale [3], per conferirne una portata più ampia, comprendendo tutte le cose che siano utili all’accertamento dell’illecito avendo con esso un collegamento seppur indiretto [4]. La res oggetto di sequestro deve, dunque, avere un rapporto diretto o indiretto con la fattispecie illecita e un nesso di pertinenza con il reato che giustifichi la privazione del bene al legittimo possessore, sicché il sequestro sia proporzionato rispetto alle esigenze di accertamento processuale. Nel caso delle indagini digitali [5] il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, così come richieste dall’art. 253 c.p.p., mutano la loro caratterizzazione “corporea” identificandosi in dati informatici, in quanto tali immateriali. Il personal computer e, in maniera più specifica, i dati digitali in esso contenuti possono essere corpo del reato in quanto cose «mediante le quali» è stato commesso il reato, quindi strumenti dell’illecito oppure costituire l’oggetto del reato stesso, così come possono essere cose pertinenti al reato perché ad esso collegati da un rapporto indiretto. In un primo momento l’immaterialità del dato digitale destò un certo scetticismo [6]: l’assenza concreta dell’elemento probatorio, il fatto che il bene non fosse empiricamente visibile e che esistesse a prescindere dal supporto fisico nel quale si trovasse, non sembrava propriamente in linea [continua ..]
I giudici della Sesta sezione penale affrontano il problema del legittimo mezzo di impugnazione dell’ordinanza del giudice per l’udienza preliminare che ha rigettato l’istanza di restituzione delle cose sequestrate avanzata dall’imputato. La Cassazione si esprime a favore del gravame, pur partendo dal presupposto che il legislatore non ha previsto uno specifico mezzo di impugnazione per il sequestro probatorio, se non la restituzione delle cose sequestrate all’art. 263 c.p.p., l’impugnazione insieme alla sentenza ai sensi dell’art. 586 c.p.p. oppure ancora l’incidente di esecuzione ex art. 676 c.p.p. Manca uno strumento di gravame endoprocessuale per le ipotesi in cui, come nel caso di specie, il giudice rigetti la richiesta di restituzione delle cose, un mezzo autonomo di impugnazione che non sia condizionato al termine del processo e consenta all’avente diritto di far valere le proprie ragioni. L’invadenza soggettiva del mezzo di ricerca della prova in questione determina la necessità che sia predisposto uno strumento di gravame adeguato. La Corte Europea dei diritti umani [24] ha statuito in proposito – in ossequio all’art. 8 Cedu che tutela il diritto alla vita privata e familiare, nonché il domicilio e la corrispondenza – che, allorquando si proceda a sequestro, questo avvenga nel rispetto del principio di proporzionalità e di adeguatezza e che le cose sequestrate siano restituite in un tempo “ragionevole” necessario per gli accertamenti; diversamente l’imputato può e deve espletare la richiesta di impugnazione. La legittimazione all’impugnazione è recepita anche a livello nazionale, si è infatti definito un nuovo orientamento che, superando la stretta osservanza del principio di tassatività delle impugnazioni, ritiene suscettibile di gravame il provvedimento. Il fondamento dell’impugnazione è da rinvenirsi in due ordini di ragioni: il primo è da individuare negli artt. 24 e 42 Cost., nonché nell’art. 1 prot. 1 Cedu, quindi nella tutela del diritto di difesa e del diritto di proprietà che, in quanto diritto costituzionalmente garantito deve essere violato in presenza di un provvedimento giurisdizionale e per un periodo strettamente limitato allo svolgimento degli accertamenti necessari. L’ulteriore fondamento a sostegno [continua ..]