Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La valutazione “contenutistica” insita nel rigetto della richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una circostanza aggravante assume una valenza pregiudicante (di Giulia Mazza, Dottoranda di ricerca in Diritto pubblico (indirizzo penalistico) – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)


La Corte costituzionale ha ritenuto che il rigetto della richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una circostanza aggravante comporta una valutazione di merito sulla reiudicanda e determina la restituzione degli atti al pubblico ministero. Così, la successiva riproposizione della domanda apre una nuova fase di giudizio che va annoverata tra le sedi rispetto alle quali è necessario assicurare la garanzia dell’imparzialità dell’organo giudicante.

Parole chiave: giudice – incompatibilità – decreto penale di condanna – rigetto della richiesta.

The “content” assessment inherent in the rejection of the request for a criminal decree for failure to contest an aggravating circumstance assumes a prejudicial value

The Constitutional Court held that the rejection of the requested decree for failure to contest an aggravating circumstance entails an assessment of the merits of the reiudicanda and determines the return of the documents to the public prosecutor. Therefore, the subsequent re-proposal of the request opens a new phase of judgment which must be counted among the seats with respect to which it is necessary to ensure the guarantee of the impartiality of the judge.

Sull’incompatibilità del giudice che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna MASSIMA: È costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso. PROVVEDIMENTO: [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 15 gennaio 2020, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede «l’incompatibilità del GIP che abbia rigettato la richiesta di emissione di decreto penale per ritenuta diversità del fatto a pronunziarsi su nuova richiesta di emissione di decreto penale, avanzata dal PM in conformità ai rilievi precedentemente formulati dal giudice». 1.1. Il rimettente riferisce che, nel procedimento principale, il pubblico ministero aveva chiesto l’emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di una persona imputata del reato di guida in stato di ebbrezza, di cui all’art. 186 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). La richiesta era stata rigettata dal giudice a quo, sul rilievo che non risultava contestata l’aggravante dell’aver provocato un incidente stradale, di cui al comma 2-sexies (recte: 2-bis) del citato art. 186: aggravante la cui sussistenza era desumibile da una nota dei Carabinieri, nella quale si riferiva – secondo quanto riportato nell’ordinanza di rimessione – che «“la responsabilità del sinistro non può che ricadere su entrambi i conducenti” (tra i quali l’odierno imputato [...])». Di seguito a ciò, il pubblico ministero aveva formulato una nuova richiesta di decreto penale, contestando l’aggravante in questione. 1.2. Investito di tale seconda richiesta, il rimettente rileva come l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. non contempli l’ipotesi considerata tra i casi di incompatibilità del giudice. Essa non potrebbe neppure costituire motivo di ricusazione a norma dell’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., non trattandosi di una manifestazione indebita del convincimento del giudice sui fatti oggetto dell’imputazione; né, d’altra parte, risulterebbe «appagante» il ricorso all’istituto dell’astensione per «gravi ragioni di convenienza» (art. 36, comma 1, lettera h, cod. proc. pen.), non potendo essere rimessa alla discrezionalità del singolo [continua..]

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SOMMARIO:

1. Rilievi introduttivi - 2. L’incompatibilità endoprocessuale quale presidio del valore dell’imparzialità del giudice - 3. Gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale - 4. (Segue): La ridefinizione normativa delle cause di incompatibilità a seguito delle decisioni costituzionali - 5. Il provvedimento di rigetto della richiesta di decreto penale quale fonte di pre-iudicium - 6. Considerazioni conclusive e prospettive “europee” - NOTE


1. Rilievi introduttivi

Il Giudice delle leggi con l’annotata decisione prosegue l’opera di definizione del quadro delle incompatibilità del giudice penale, intervenendo specificamente sul rito monitorio. L’incidente di legittimità costituzionale si innesta in un procedimento nel quale il G.i.p. del Tribunale di Macerata, chiamato dal pubblico ministero ad emettere decreto penale di condanna nei confronti di una persona imputata del reato di guida in stato di ebbrezza, aveva rigettato l’istanza sul rilievo che non risultava contestata l’aggravante dell’aver provocato un incidente stradale, la cui sussistenza era desumibile dagli atti di indagine; in seguito a ciò, l’accusa aveva formulato una nuova richiesta di decreto penale, recante la contestazione della circostanza precedentemente trascurata. Secondo il giudice rimettente, la mancata inclusione dell’ipotesi in esame fra le cause di incompatibilità poneva la disposizione dell’art. 34, comma 2, c.p.p. in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., sotto il profilo della parità di trattamento e del diritto di difesa. In primo luogo, perché evidenziando l’esistenza di una circostanza non contestata, il giudice avrebbe compiuto un’attività sostitutiva del potere-dovere di iniziativa spettante al pubblico ministero, con conseguente commistione di ruoli, atta a minare l’imparzialità del giudicante stesso; in secondo luogo, in quanto erano riscontrabili, nel caso considerato, le condizioni in presenza delle quali la previsione dell’incompatibilità risultava costituzionalmente necessaria. Investita di tali censure, la Corte costituzionale ne ha dichiarato la fondatezza. Nell’intraprendere l’analisi delle ragioni addotte, va osservato preliminarmente come l’impostazione accolta dai giudici costituzionali in rapporto alla tematica de qua si caratterizzi per una assoluta costanza di indirizzo, tale da raccordare l’attuale pronuncia ai numerosi interventi precedenti che hanno interessato il disposto dell’art. 34, comma 2, c.p.p., ridefinendone la portata. Muovendo dalla ratio sottesa alle norme sull’incompatibilità del giudice derivante da atti compiuti nel procedimento, la Consulta ha rilevato che esse sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità dell’organo giudicante, risultando finalizzate ad evitare che la [continua ..]


2. L’incompatibilità endoprocessuale quale presidio del valore dell’imparzialità del giudice

L’essenza della giurisdizione è connotata dai principi di imparzialità e terzietà, oggi cristallizzati nell’art. 111, comma 2, Cost. [5], così come ridisegnato in occasione della revisione operata con la legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999 [6]. Chiaramente, si tratta di canoni che assurgono ad elementi cardine della struttura del “giusto processo” e di questi, in particolare, l’imparzialità rappresenta il parametro per garantire una “giustizia giusta” [7]: essa implica non soltanto che la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, scevro di interessi propri che possano influenzarlo nella rigorosa applicazione delle norme, ma in una prospettiva più ampia sgombro da qualunque genere di condizionamento in ordine alla reiudicanda che osterebbe all’adozione di una decisione secondo diritto e giustizia [8]. Una finalità di tutela della garanzia in parola [9] è riscontrabile nell’istituto delle incompatibilità del giudice a prendere cognizione di un certo processo [10], la cui inedita regolamentazione nel codice vigente è stata necessitata dall’esigenza di ridefinire in una prospettiva tendenzialmente accusatoria le cadenze processuali nonché di preservare la separazione delle fasi del procedimento [11]. Per quel che qui particolarmente rileva, va sottolineato che la previsione di cui all’art. 34, comma 2, c.p.p. prende in esame le incompatibilità che si determinano con riferimento al compimento di atti giurisdizionali nell’ambito dello svolgimento in senso orizzontale del medesimo processo [12] ed è proprio questo «il più delicato tra i dispositivi delle incompatibilità al giudizio: la norma, nel suo radicalmente imperfetto interfacciarsi con il sistema, contiene in sé il germe di quell’incompletezza genetica – grazie al principio di tassatività su cui si struttura – che sarebbe, di lì a poco, deflagrata in tutta la sua virulenza» [13]. La pronuncia in commento si inserisce nel solco di quel “processo di reazioni a catena” [14] –scatenato dall’individuazione della prima lacuna costituzionale [15] – che ha inciso sull’art. 34, comma 2, c.p.p., stravolgendone la struttura: il quadro delle [continua ..]


3. Gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale

Le incompatibilità codicistiche presentano alcuni connotati comuni, che valgono a definire nel suo nucleo sostanziale la situazione in presenza della quale il legislatore ha ritenuto che la previsione dell’incompatibilità fosse necessario presidio del valore dell’imparzialità del giudice [16]. Per quel che concerne le sedi pregiudicanti, la Corte ha costantemente affermato il principio secondo cui la fonte del pregiudizio si sostanzia in ogni «valutazione contenutistica dell’ipotesi accusatoria» [17], che si traduca in una delibazione non formale delle risultanze delle indagini [18]. Sulla scorta di tale criterio si è sviluppata la giurisprudenza costituzionale che con una serie di decisioni additive ha accolto diverse questioni di legittimità aventi ad oggetto l’art. 34, comma 2, c.p.p. [19]; un ulteriore significativo sviluppo si è altresì registrato in merito alle posizioni dei soggetti imputati di reati connessi [20] nonché in tema di applicazione di una misura cautelare personale ovvero conferma, revoca o modificazione della stessa [21]. In ordine al secondo termine del rapporto, vale a dire la sede pregiudicata, essa coincide con il «giudizio», locuzione che ricomprende, secondo il costante indirizzo della Consulta, ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito; peraltro, nella pronuncia n. 224 del 2001 [22], la Corte, mutando il suo precedente orientamento circa l’esclusione dal giudizio delle delibazioni emesse all’esito dell’udienza preliminare [23], ha affermato che il secondo termine della relazione di incompatibilità è da identificarsi nel giudizio “contenutisticamente” inteso e cioè in ogni sequenza, anche diversa dal giudizio dibattimentale, la quale collocandosi in una fase diversa da quella in cui si è svolta l’attività pregiudicante, implichi una pronuncia sul merito della causa [24]. Così, sebbene il dibattimento è la sede decisoria maggiormente esposta agli influssi destabilizzanti della forza di prevenzione, la nozione di “giudizio” comprende anche il rito abbreviato [25], il procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti [26], il procedimento per decreto [27], l’udienza preliminare [28] e talora [continua ..]


4. (Segue): La ridefinizione normativa delle cause di incompatibilità a seguito delle decisioni costituzionali

Le pronunce della giurisprudenza costituzionale in tema di incompatibilità del giudice chiamavano alle proprie responsabilità il legislatore, sottolineando l’opportunità di interventi di ordine normativo ed organizzativo volti a rendere la disposizione di più facile comprensione, adeguandola agli interventi della Corte e, nel contempo, prevenendo nuove declaratorie di incostituzionalità. Nella prospettiva di realizzare la diversificazione soggettiva tra g.i.p. e g.u.p. nell’ambito dello stesso procedimento [32], l’art. 171 del d.lgs. n. 51/1998 ha inciso sull’art. 34 c.p.p., attraverso l’aggiunta di un inedito comma 2-bis che prevede un’incompatibilità “funzionale” fra giudice per le indagini preliminari e giudice del “giudizio” [33]; la portata di questa statuizione è stata, però, in breve tempo, circoscritta mediante l’introduzione di due ulteriori previsioni: con il comma 2-ter si è, infatti, precisato che tale situazione di incompatibilità non opera qualora il g.i.p. si sia limitato ad adottare alcuni specifici provvedimenti [34] che non implicano un pregiudizio dovuto alla precedente conoscenza nel merito [35]; mentre con il comma 2 quater [36] si è esclusa la situazione di incompatibilità per il g.i.p. che abbia provveduto all’assunzione dell’incidente probatorio o all’adozione dei provvedimenti ad esso connessi [37]. Risulta evidente come la previsione delle menzionate eccezioni rischia di affievolire il senso della scelta compiuta dal legislatore del 1998: «il ‘nuovo’ art. 34, comma 2 ter, c.p.p. mortifica, per parte sua, il carattere di assolutezza di quella svolta, attraverso un ventaglio di opzioni derogatorie dalla dubbia ragionevolezza perché fatalmente incompleto; il più recente art. 34, comma 2 quater, c.p.p. consolida, da ultimo, le imprecisioni nell’assemblaggio dei diversi componenti del sistema, consegnando all’interprete una piattaforma dagli equilibri precari» [38].


5. Il provvedimento di rigetto della richiesta di decreto penale quale fonte di pre-iudicium

La peculiarità del procedimento per decreto penale di condanna è ravvisabile nella circostanza che il pubblico ministero, qualora ne riscontri i presupposti, può unilateralmente determinarsi per il rito monitorio, avanzando richiesta al giudice; quest’ultimo, a sua volta, dopo aver valutato la domanda, le condizioni che legittimano il rito, la sussistenza e la corretta qualificazione del fatto di reato, la riconducibilità dello stesso all’indagato, la determinazione della pena, decide inaudita altera parte, basandosi unicamente sul fascicolo investigativo. Per quel che qui interessa, va sottolineato che il decreto penale di condanna si attesta oltre la soglia della pregiudizialità in quanto l’attività decisoria implica un controllo approfondito non limitato al mero riscontro dei requisiti formali del rito, ma esteso anche al merito della richiesta; l’organo giudicante, ove non ricorra un’ipotesi di proscioglimento (art. 129 c.p.p.), ha una alternativa decisoria secca: il rigetto della richiesta, seguito dalla trasmissione degli atti al pubblico ministero, nel caso di insussistenza delle condizioni di attuabilità del rito o di inadeguatezza della pena proposta, ovvero l’accoglimento della stessa, cui segue l’emanazione del decreto penale che deve contenere la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, comprese le ragioni dell’eventuale diminuzione di pena al di sotto del minimo edittale. Questo inquadramento dell’istituto appare importante ai fini in esame perché consente di percepire l’irragionevolezza della scelta del legislatore, che nel testo originario dell’art. 34, comma 2, c.p.p. mentre considerava causa di incompatibilità la celebrazione del giudizio da parte dello stesso giudice che avesse emesso decreto penale di condanna, non menzionava l’analoga situazione interessante il magistrato che avesse in precedenza respinto la richiesta di detto provvedimento. Come noto, qualora il mancato accoglimento dell’istanza sia dovuto alla ritenuta incongruità – a giudizio del g.i.p. – della pena proposta, appaiono ravvisabili tutti gli elementi atti a configurare una situazione produttiva di incompatibilità. Ed invero, prima di decidere sull’adeguatezza della pena, il giudice deve necessariamente avere, da un lato, escluso la sussistenza [continua ..]


6. Considerazioni conclusive e prospettive “europee”

La segnalata apertura della giurisprudenza costituzionale alla definizione del sistema delle incompatibilità appare meritevole di consenso in quanto garantisce i principi costituzionali del giusto processo [42], del quale termine ineludibile è l’imparzialità del giudice [43]. Risulta in tal modo ottemperato quanto disposto dall’art. 10 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, nonché dall’art. 6 Cedu e dall’art. 14 del Patto Internazionale relativo ai Diritti Civili e Politici, ossia che «toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue […] par un tribunal indépendandt et impartial» [44]. La Corte e.d.u. definisce l’imparzialità in termini di «assenza di pregiudizio o di partito preso» [45] e appare costante nel rilevare come, potendo il rischio di prevenzione manifestarsi sotto aspetti diversi, l’imparzialità debba essere verificata non solo attraverso una analisi soggettiva, ma anche e soprattutto per mezzo di un’indagine oggettiva tendente ad accertare se il giudice offre delle garanzie sufficienti ad escludere ogni legittimo dubbio. Più precisamente, per quanto concerne l’aspetto soggettivo, la Corte, dinanzi all’impossibilità di accertare «in assoluto la limpidezza del foro interno» [46], si limita a presupporre intatta l’imparzialità personale del magistrato fino a prova contraria [47]; sul piano del profilo oggettivo, si ritiene che l’organo giudicante non deve essere né apparire condizionato da precedenti decisioni adottate verso le parti, con particolare riguardo a precisi atti del procedimento [48]. Dal quadro delle pronunce dei giudici di Strasburgo emerge che la disciplina dell’incompatibilità, così come regolata dal legislatore italiano, tutela la cd. “imparzialità oggettiva” che riguarda l’esistenza di fatti che, indipendentemente dalle condotte del giudice, generano un dubbio di parzialità. In tale scenario, la pronuncia in commento, sebbene rispondente alle istanze di equità processuale, risulta riduttiva laddove, facendo riferimento alla sola mancata contestazione di una circostanza aggravante, sembrerebbe presagire la necessità di ulteriori dichiarazioni di incostituzionalità al fine di giungere ad [continua ..]


NOTE