Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Detenzione e tutela del diritto alla salute (di Rosa Maria Geraci)


La recente riforma dell’art. 11 della l. n. 354 del 1975 realizzata dal d.lgs. n. 123 del 2018 appare ispirata da un duplice in­tento: completare l’opera di riordino della medicina penitenziaria avviata con il d.lgs. n. 230 del 1999, di attribuzione delle competenze al Servizio Sanitario Nazionale, e realizzare un’effettiva parità tra tutti i soggetti – liberi o meno – quanto a cure e prestazioni sanitarie usufruibili.

Il risultato, tuttavia, non appare immune da lacune e contraddizioni, in grado di depotenziare – se non inficiare in radice – l’effettivo conseguimento delle predette finalità, e dunque, la stessa portata pratica della novella.

Imprisonment and health right protection

Latest reform of article 11 of law n. 354 of 1975 by d.lgs. n. 123 of 2018 pursues a double goal: to complete penitentiary medicine rearrangement started with d.lgs. n. 230 of 1999, that gave the competences to the National Health Service, and to achieve a real equality between all people – free or not – in terms of health care and services to benefit from.

The result, however, presents gaps and inconsistencies that could spoil the achievement of the mentioned goals, and therefore, the effectiveness of the reform.

SOMMARIO:

Premessa - Le ragioni dell'intervento riformatore - La tutela della salute e dell'integrità fisica all'interno dell'istituto: l"effettività" delle cure - Segue: la "consapevolezza" circa lo stato di salute e l'assistenza sanitaria disponibile - Il ricovero temporaneo presso luoghi esterni di cura - L'assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere - Il sistema di controlli - Conclusioni: la scarsa attenzione verso le "fragilità" - Segue: contraddizioni e lacune - NOTE


Premessa

Tra i molteplici profili attinti dalla normativa di parziale attuazione della delega in materia di esecuzione penitenziaria di cui alla l. 23 giugno 2017, n. 103, particolare rilievo assumono quelli inerenti l’assistenza sanitaria delle persone detenute o internate [1]. Al riguardo, il d.lgs. n. 123 del 2018 ha provveduto ad una integrale riscrittura dell’art. 11 della l. n. 354 del 1975, oltre che alla abrogazione dell’art. 240 disp. att. c.p.p.,nell’intento – quantomeno dichiarato – di dotare di maggiore effettività la tutela del diritto alla salute della popolazione ristretta, svantaggiata rispetto a quella libera quanto ad accesso e livello di cure e prestazioni sanitarie [2]. L’opzione a favore di una «rinnovata centralità dell’esecuzione inframuraria rispetto a quella esterna al carcere» [3] privilegiata dalla riforma, in discontinuità con la delega,ha reso infatti evidente la necessità di colmare il gap allo stato esistente, tanto più grave ove si considerino i maggiori rischi per la salute – sia fisica che psichica – cui la restrizione espone, vuoi in ragione delle condizioni di affollamento [4] e di forzata promiscuità cui costringe, che per i disturbi comportamentali connessi alla compressione della libertà [5]. In questa prospettiva, la novella ha cercato di operare perseguendo un duplice obiettivo: completare, da un lato, l’opera di riordino della medicina penitenziaria avviata con il d.lgs. n. 230 del 1999, di attribuzione delle competenze al Servizio Sanitario Nazionale, e realizzare, dall’altro, un’effettiva parità tra tutti i soggetti – liberi o meno – quanto ad attuazione del canone di cui all’art. 32 Cost., facendo proprie alcune delle proposte già avanzate dal cd. Progetto Pelissero [6]. Non sono mancate, tuttavia, come si vedrà, talune contraddizioni ed omissioni, in grado di depotenziare – se non inficiare in radice – l’effettivo conseguimento delle predette finalità, e dunque, la portata pratica della riforma.


Le ragioni dell'intervento riformatore

Come noto, con la l. delega 30 novembre 1998, n. 419, ed il successivo decreto legislativo di attuazione 22 giugno 1999, n. 230, è stata realizzata la riforma della sanità penitenziaria [7], determinandosi il passaggio delle attribuzioni e competenze in materia di assistenza ai soggetti detenuti ed internati dal Ministero della Giustizia (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), al Ministero della Salute (Servizio Sanitario Nazionale) [8]. Per quanto apprezzabile per la filosofia ispiratrice, volta ad introdurre una piena parità di trattamento di tutti gli individui– liberi e detenuti – nell’accesso alle cure mediche, [9] tale scelta legislativa non è andata esente da critiche per le ripercussioni pratiche nella gestione delle specifiche esigenze della realtà carceraria [10]. È, invero, un dato di fatto che il cambiamento ha generato non poche difficoltà e problemi organizzativi, in ragione sia dell’atavica insufficienza di risorse finanziarie che della disomogeneità di prestazioni offerte dal S.S.N. nei diversi ambiti territoriali [11]. Il risultato è stato un’erogazione dell’assistenza sanitaria nel contesto penitenziario spesso connotata da carenze e ritardi, rendendosi conseguentemente in molti istituti poco effettiva la tutela del diritto alla salute delle persone ristrette [12], in spregio a quanto sancito dalla Costituzione (art. 32) e dalle fonti sovranazionali [art. 3 Cedu; art. 35 Carta dei diritti fondamentali dell’UE; Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dell’11 giugno 2006 (cd. “Regole penitenziarie europee”); United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisioners (“the Mandela Rules”), adottate dall’assemblea generale dell’O.N.U. il 17 dicembre 2015]. Proprio nel tentativo di rimediare a tale stato di cose, l’art. 1, comma 85, lett. l), l.n. 103 del 2017, ha previsto quale criterio direttivo di riforma della disciplina dell’esecuzione la «revisione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, tenendo conto della necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena». Il d.lgs. n. 123 del 2018 ha [continua ..]


La tutela della salute e dell'integrità fisica all'interno dell'istituto: l"effettività" delle cure

Entrando più nello specifico delle modifiche introdotte, la novella realizzata dal d.lgs. n. 123 del 2018 interviene in una pluralità di direzioni: riscrive integralmente l’art. 11 o.p. (norma cardine in tema di assistenza sanitaria ai detenuti), abroga l’art. 240 disp. att. c.p.p. ed i commi 6 e 7 dell’art. 17 d.p.r. n. 230 del 2000 (le cui previsioni sono ora riassorbite nel novellato art. 11), ed introduce modifiche all’art. 1 del d.lgs. n. 230 del 1999. Complessivamente, l’intervento sembra mirato a declinare nelle varie potenzialità applicative pratiche due principi fondamentali: l’“effettività” delle cure e la “consapevolezza” del detenuto circa il proprio stato di salute e l’assistenza sanitaria disponibile. Garanzie, queste, sancite a favore di tutte le persone soggette a restrizione: condannati a titolo definitivo, imputati in stato di custodia cautelare, internati [13]. Più precisamente, per ciò che concerne il primo dei citati canoni – l’“effettività” delle cure – questo è perseguito attraverso la tendenziale equiparazione delle prestazioni sanitarie intramurarie a quelle esterne. L’obiettivo è, cioè, che il S.S.N. garantisca servizi e prestazioni equivalenti a prescindere dal luogo i­stituzionale di erogazione degli stessi e dalle particolari condizioni dell’utenza che ne usufruisce. In questa prospettiva, si prevede innanzitutto in apertura del rinnovato art. 11 o.p. la consacrazione del diritto dei soggetti ristretti ad avvalersi di prestazioni sanitarie efficaci, tempestive ed appropriate, allo stesso modo dei liberi: è questo, infatti, il senso della riproduzione nei primi due commi della novellata disposizione dei principi contenuti nel d.lgs. n. 230 del 1999, in virtù dei quali «il servizio sanitario nazionale opera negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni nel rispetto della disciplina sul riordino della medicina penitenziaria» e «garantisce a ogni istituto un servizio sanitario rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati». Ne consegue, l’obbligatorietà della predisposizione presso ogni istituto di un servizio medico e di un servizio farmaceutico calibrati sulle specifiche necessità della popolazione ivi ristretta, e [continua ..]


Segue: la "consapevolezza" circa lo stato di salute e l'assistenza sanitaria disponibile

Il secondo versante in direzione del quale si è mossa la riforma è stato quello della “consapevolezza” del detenuto (o internato) sulle sue condizioni di salute e sulle cure di cui può godere. A tal fine, il novellato art. 11 o.p. prevede una serie di oneri informativi a carico dell’amministra­zio­ne pubblica, sia penitenziaria che sanitaria. All’atto dell’ingresso in istituto è, infatti, innanzitutto previsto che sia effettuata una prima visita medica, volta a constatare le condizioni generali della persona [24]. Già in tale momento il soggetto in vinculis ha diritto di ricevere dal medico «informazioni complete sul proprio stato di salute». Peraltro, fermo l’obbligo del referto, il sanitario è altresì tenuto ad annotare nella cartella clinica che compila «ogni informazione relativa a segni o indici che facciano apparire che la persona possa avere subìto violenze o maltrattamenti», dandone comunicazione sia al direttore dell’istituto che al magistrato di sorveglianza. È questa una novità significativa, volta ad accertare eventuali violenze o abusi che il soggetto abbia subito antecedentemente all’ingresso in istituto, ad esempio al momento dell’arresto, come avvenuto in occasione di taluni gravi fatti di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica [25]. E tuttavia, non si può fare a meno di rilevare come la disposizione in discorso costituisca una variante minor rispetto a quella contenuta tanto nel Progetto Pelissero quanto nell’originaria versione del decreto attuativo, che, recependo al riguardo le osservazioni del Garante nazionale dei detenuti, aveva sancito l’obbligo della documentazione fotografica dei segni di violenze o maltrattamenti riscontrati. Obbligo che, purtroppo, nel testo definitivo del comma 7 dell’art. 11 o.p. è scomparso, al pari dell’ulteriore previsione secondo cui, onde ottenere un quadro davvero esaustivo delle condizioni di salute del detenuto o internato, la prima visita medica dovesse effettuarsi «in coordinamento con il presidio psichiatrico e il servizio per le dipendenze», sì da rilevare non solo eventuali patologie fisiche, ma anche psichiche [26] o problematiche connesse [continua ..]


Il ricovero temporaneo presso luoghi esterni di cura

La finalità di tutelare al meglio il diritto alla salute dei soggetti reclusi ha indotto anche ad intervenire sulla disciplina del trasferimento temporaneo presso luoghi esterni di cura, consentito ove gli interventi sanitari non possano essere effettuati all’interno dell’istituzione penitenziaria. Al riguardo, il nuovo testo del comma 4 dell’art. 11 o.p. – che ha riassorbito la regolamentazione originaria contenuta nell’art. 240 disp. att. c.p.p., contestualmente abrogato – ha provveduto ad una rivisitazione dell’assetto delle relative competenze autorizzative [33]. La scelta legislativa è stata nel senso di prevedere una “competenza tripartita”, così articolata: per gli imputati provvede il giudice che procede [34]; per i condannati in via definitiva e per gli internati la decisione spetta al magistrato di sorveglianza; in caso di giudizio direttissimo e fino alla presentazione dell’imputato in udienza per la contestuale convalida dell’arresto in flagranza il provvedimento autorizzativo è adottato dal pubblico ministero. Si tratta di una opzione incentrata sul principio per cui la competenza, ai fini in questione, si distribuisce in base alla posizione giuridica del soggetto, ispirandosi al criterio recepito nell’art. 279 c.p.p. In linea con quanto previsto dal Progetto Giostra, tale soluzione è invero opposta a quella che era stata privilegiata dal Progetto Pelissero, che garantiva centralità alla competenza del magistrato di sorveglianza, quale giudice di prossimità. In particolare, con riferimento agli imputati – come espressamente chiarito dalla relazione illustrativa allo stesso – si reputava non opportuno attribuire la competenza al giudice procedente «in quanto sussistono difficoltà di ordine pratico», posto che tale organo «non è una figura di magistrato di prossimità che presiede quotidianamente l’ufficio e non è solito interloquire con l’area della sanità penitenziaria»; per di più – si sottolineava – «in molti casi può trovarsi anche geograficamente in località assai distante dall’istituto penitenziario nel quale l’imputato è recluso» [35]. Nessun riferimento esplicito, inoltre, è stato fatto nel testo [continua ..]


L'assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere

Le peculiari esigenze delle donne detenute erano prese in considerazione da due direttive della legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario, quelle di cui alle lett.s) et) dell’art. 1, comma 85, l. n. 103 del 2017: la prima – attuata con la novella dell’art. 14 o.p. – prevedeva la revisione della disciplina vigente in materia di misure alternative alla detenzione, onde «assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori»; la seconda – di più diretto interesse ai fini che qui ci occupano – statuiva la necessità di prevedere norme che considerassero «gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute». Entrambe hanno avuto un’attuazione piuttosto deludente rispetto alle attese riposte nell’intervento novellistico, confermandosi ancora una volta la scarsa attenzione legislativa verso quella che, insieme ai minori e agli stranieri, costituisce una “minoranza penitenziaria” [40]. Per ciò che concerne specificamente il tema dell’assistenza sanitaria, innovando ben poco rispetto al passato, il riformato comma 8, ultima parte, dell’art. 11 o.p., si limita a prevedere genericamente che «in ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere» [41]. Null’altro viene sancito, essendo scomparse le previgenti statuizioni inerenti la possibilità per le detenute madri di tenere con sé la prole fino al compimento del terzo anno di età e la predisposizione di appositi asili nido per la cura e l’assistenza dei bambini, disposizioni entrambe confluite nel novellato art. 14 o.p., sede più appropriata, trattandosi di norme non attinenti all’organizzazione del servizio sanitario, ma alla disciplina dei rapporti madre-figlio in contesto penitenziario. Nemmeno è stata recepita la previsione di una visita medica pediatrica per i figli delle detenute all’atto dell’ingresso in istituto, contemporanea alla prima visita medica della madre, contemplata invece dal Progetto Giostra [42]. Ma soprattutto non è stato introdotto il nuovo comma 8-bis, elaborato dalla Commissione Giostra, secondo cui «in ogni istituto penitenziario per donne o in ogni sezione per donne sono comunque assicurati servizi specialistici [continua ..]


Il sistema di controlli

Il delineato funzionamento dell’assistenza sanitaria all’interno delle istituzioni penitenziarie è soggetto ad un sistema di controlli di carattereamministrativo. La relativa disciplina è contenuta nei commi 13 e 14 dell’art. 11 o.p., che introducono una regolamentazione distinta rispetto al passato quanto ad organo competente alla verifica, attivazione ed oggetto della stessa. Se in virtù del testo previgente organo incaricato era il medico provinciale, ora la competenza spetta invece al Direttore generale dell’azienda unità sanitaria locale nel cui ambito territoriale ha sede l’istituto di reclusione. Questi, almeno due volte l’anno, deve disporre la visita degli istituti di prevenzione e di pena, potendo attivarsi – ulteriore novità rispetto al passato – «anche in base alle segnalazioni ricevute», ossia, a seguito di apposita sollecitazione proveniente non solo dal medico incaricato per l’istituto di pena, dai Garanti dei detenuti o dal magistrato di sorveglianza, bensì dagli stessi reclusi. Il controllo, inoltre, mentre in passato mirava anche ad accertare le condizioni igienico-sanitarie delle persone ristrette [49], adesso è invece unicamente finalizzato a verificare «l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie degli istituti». Si delinea, cioè – come confermato dalla stessa Relazione illustrativa al decreto attuativo [50] – una netta separazione di competenze ed interventi tra il dirigente dell’A.S.L. ed il medico incaricato per l’istituto penitenziario: il primo si occupa unicamente delle condizioni delle strutture penitenziarie, ma non anche dello stato di salute dei detenuti, di competenza esclusiva del secondo. Sul Direttore generale dell’azienda unità sanitaria gravano, poi, una serie di oneri informativi: effettuati i controlli, egli deve infatti riferire sull’esito degli stessi e sui provvedimenti da adottare al Ministero della salute e al Ministero della giustizia, informando anche i competenti uffici regionali, comunali, nonché il magistrato di sorveglianza. Nessuna comunicazione è prevista, invece, nei confronti del Garante nazionale dei detenuti. L’o­missione, lungi dall’essere addebitabile ad una svista, è al contrario frutto [continua ..]


Conclusioni: la scarsa attenzione verso le "fragilità"

Nelle intenzioni originarie del legislatore delegante, l’intervento in materia di esecuzione penitenziaria avrebbe dovuto dar vita ad una riforma “organica”, di sistema, volta a superare i plurimi profili di criticità di un assetto penitenziario ormai in crisi, come riconosciuto anche a livello europeo [52]. In questa prospettiva, le direttive della l. delega 23 giugno 2017, n. 103, cercavano di perseguire un allineamento ai principi fondamentali – costituzionali e sovraordinati – in tema di espiazione della pena (in primis, art. 27, comma 2 Cost. ed art. 3 C.e.d.u.), impulsando l’umanizzazione del trattamento e la finalità rieducativa dello stesso, e cercando di imprimere efficienza al sistema nel suo complesso. Tuttavia, l’attuazione che della delega è stata realizzata ha frustrato le menzionate aspirazioni riformatrici di ampio respiro [53]. Gli sviluppi politici, e in particolare, l’affermarsi di una maggioranza parlamentare dotata di una sensibilità diversa rispetto alla precedente sulle tematiche in discorso, hanno indotto ad orientarsi a favore di un intervento distinto e in chiave “minore” rispetto a quello predisposto con un primo schema di decreto attuativo, dando vita ad una novella parziale, ispirata ad una filosofia di fondo di tenore opposto [54]. Peraltro, pur nei limiti descritti, la riforma non sembra aver conseguito appieno gli scopi prefissati. Con specifico riferimento al settore dell’assistenza sanitaria, invero, il “livellamento” tra prestazioni intramurarie ed esterne non pare essere stato raggiunto, permanendo una serie di criticità che sotto diversi profili continuano a rendere poco effettiva la tutela del diritto alla salute all’interno del carcere. In proposito, colpisce innanzitutto la generale scarsa attenzione rivolta alle condizioni di maggiore “fragilità” che parte della popolazione ristretta può presentare. Scomparso ogni riferimento alla “marginalità sociale” – contemplata, invece, dal Progetto Pelissero – molto deludente appare il modo in cui il decreto attuativo (non) affronta il tema del disagio psichico. La scelta di non attuare il criterio di delega che prevedeva il potenziamento degli strumenti di cura e trattamento dello stesso sembra, invero, del tutto in controtendenza con le effettive necessità poste dalla [continua ..]


Segue: contraddizioni e lacune

Più in generale, poi, si rinvengono all’interno della novella talune contraddizioni ed omissioni che paiono depotenziare quell’effettività dell’assistenza sanitaria in carcere tanto perseguita a livello teorico. In questo senso, si possono segnalare l’arretramento in punto di disciplina delle visite mediche richieste dai soggetti non ammalati, di fatto ora rimesse alla valutazione discrezionale del sanitario circa la “necessità” «in base a criteri di appropriatezza clinica», smentendosi così quell’approccio “proattivo” in punto di cure che avrebbe dovuto invece trovare piena attuazione pratica. Rileva, inoltre, l’assenza di una disciplina delle “liste d’attesa” per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, fondamentale ai fini di un’effettiva realizzazione del principio di continuità terapeutica: l’e­sperienza pratica dimostra che spesso i trasferimenti dei detenuti da un istituto penitenziario ad un altro, ricompreso nell’ambito di competenza di una diversa A.S.L., fanno perdere la precedenza acquisita in virtù di prenotazioni effettuate prima del trasferimento,compromettendosi così la possibilità di un intervento sanitario tempestivo, e quindi, efficace, a tutto discapito della salute del soggetto ristretto [60]. Inoltre, proprio a garanzia sia della continuità che della tempestività delle cure avrebbe potuto essere disciplinata l’introduzione della cd. “cartella clinica informatica”[61],strumento fondamentale, che avrebbe il pregio di consentire al contempo una più agevole e completa ricostruzione dell’anamnesi del paziente ed un abbattimento dei costi connessi ad un sistema tutt’ora imperniato sulla cartella clinica cartacea (ripetizione di visite ed analisi in caso di perdita o sua incompleta tenuta, spese di fotocopiatura, etc.) [62]. Nel complesso, inoltre, sarebbe stata quanto mai opportuna una focalizzazione dell’attenzione del legislatore sui principali fattori di problematicità per la salute all’interno del carcere – regime alimentare, ambienti malsani, stato delle strutture edilizie, mancanza di movimento e di attività sociali, atti di violenza e di autolesionismo – onde prevedere interventi mirati (quali, ad esempio, programmi di prevenzione primaria [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2019