Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Decisioni in contrasto (di Giada Bocellari)


NON È AMMESSA L’INTERPRETAZIONE EVOLUTIVA NEL SETTORE PENALE: IN ATTESA DELL’ATTUAZIONE DELLA DELEGA, IL LIMITE DI PENA CHE IMPONE LA SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI ESECUZIONE RESTA FISSATO A TRE ANNI (Cass., sez. I, 10 ottobre 2017, n. 46562) Con la pronuncia in commento, la Suprema corte ha inteso sancire un criterio di stretta interpretazione dei dati normativi di riferimento in tema di limiti per la sospensione dell’ordine di esecuzione e, sfruttando un non inconsueto difetto di coordinamento tra disposizioni, ha rifiutato l’utilizzo di criteri ermeneutici volti a superare il dato normativo testuale, benché in tal caso la decisione si sostanzi in un risultato, non solo contrario allo spirito delle riforme degli ultimi tempi, ma anche palesemente contra reum. Secondo l’ancora vigente formulazione, a norma dell’art. 656, comma 10, c.p.p., il pubblico ministero deve, infatti, sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione se la residua pena da espiare, determinata ai sensi dell’art. 656, comma 4 bis, c.p.p. non superi il limite indicato nel comma 5, attualmente ancora fissato ad anni tre di pena detentiva (ovvero quattro anni nei casi dell’art. 47 ter, comma 1, ord. pen. o sei anni nei casi degli artt. 90 e 94 d.p.r. 309/1990). La l. 146/2013 aveva, tuttavia, apportato una modifica significativa all’art. 47 ord. pen., che disciplina la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale: nell’ottica di ampliare l’ambito di operatività della misura alternativa – stessa finalità che si pone espressamente la Legge Delega n. 103/2017 in tema di riforma dell’ordinamento penitenziario –, il legislatore aveva introdotto il comma 3 bis, attualmente in vigore, che, espressamente, prevede l’accesso all’affidamento in prova al condannato che debba espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2 del medesimo art. 47. È parso subito evidente, dunque, lo scollamento tra i due limiti di pena che, stando ai dati testuali, sembrava consentire ai condannati ad un periodo di detenzione dai tre ai quattro anni l’accesso alla misura dell’affidamento in prova, ma non all’emissione dell’ordine di esecuzione sospeso, con la conseguenza del necessario ingresso in istituto penitenziario. A fronte dell’evidente difetto di coordinamento tra le due norme e alla irragionevolezza di soluzioni contrarie, un primo orientamento giurisprudenziale (Cass., sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864; Cass., sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848) aveva inteso estendere il limite dei quattro anni [continua..]

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