Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La flessibilità dell´immediatezza per il vincolo al contraddittorio della formazione delle massime d´esperienza (di Mariano Menna, Professore ordinario di Procedura penale – Università della Campania L. Vanvitelli)


L’immediatezza, anche in rapporto al principio di immutabilità del giudice, a livello codicistico è un valore contemperabile con la ragionevole durata del processo perché il giudice non deve fidarsi della propria sensazione personale dell’avvenimento probatorio ma limitarsi a controllare in prospettiva falsificazionista i profili di evidenza di quell’evento che sono sufficientemente veicolati da un verbale particolareggiato oppure da una videoregistrazione dall’alta qualità tecnologica. Perciò la rinnovazione dell’istruttoria ai sensi dell’art. 525 c.p.p., non essendo essenziale per il sindacato logico-formale delle caratteristiche incontestabili della prova raccolta dinanzi al vecchio giudice, si giustifica solo – onde essere contemperata con il principio di ragionevole durata del processo – come ammissione di un “novum” rispetto al contatto con la fonte della prova raccolta antecedentemente.

The flexibility of immediacy due to the constraint to the contradictory of the formation of the maxims of experience

Immediacy, also in relation to the principle of immutability of the judge, at the level of the code is a value that can be reconciled with the reasonable duration of the process because the judge must not trust his own personal feeling of the evidentiary event but must limit himself to checking from a falsificationist perspective the evident profiles of that event that are sufficiently conveyed by a detailed report or by a video recording of high technological quality. Therefore, the renewal of the investigation pursuant to Article 525 of the Italian Criminal Procedure Code, not being essential for the logical-formal review of the indisputable characteristics of the evidence gathered before the old judge, is justified only – in order to be reconciled with the principle of reasonable duration of the process – as an admission of a "novum" with respect to contact with the source of the evidence collected previously.

SOMMARIO:

1. La formazione delle massime d’esperienza da parte dei contendenti ed il divieto per il giudice di interpretare solipsisticamente la dimensione analogica dell’avvenimento probatorio - 2. Il controllo falsificazionista del giudice sulle evidenze ed il suo self restraint in relazione alle sensazioni personali relative all’escussione della fonte di prova - 3. La concezione non gradualistica della terzietà a conferma dell’impossibilità per il giudice di vivere la “dimensione pulviscolare” della prova indipendentemente dalle mediazioni di parte - 4. La flessibilità dell’immediatezza in relazione al principio di immutabilità fisica del giudice - NOTE


1. La formazione delle massime d’esperienza da parte dei contendenti ed il divieto per il giudice di interpretare solipsisticamente la dimensione analogica dell’avvenimento probatorio

La vicenda giurisprudenziale del principio di immutabilità del giudice [1], lungi dal rappresentare una regressione verso una dimensione lesiva di un baluardo valoriale del giusto processo, offre l’occasione per mettere a punto gli spazi che l’immediatezza può rivendicare nel complesso di garanzie circolari esibite a proposito del processo penale dal sistema codicistico vigente.

In siffatta prospettiva, il valore in questione sembra giudicabile soprattutto dal punto di vista della sua consistenza di fonte di un diritto delle parti che, rispetto all’imputato, pare vivificato dall’art. 111, comma 3, Cost. nel punto in cui attribuisce al prevenuto la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico e di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua discolpa nelle stesse condizioni dell’accusa [2].

Si è, in proposito, posto l’accento su quel diritto ad ottenere che il giudice – anzi proprio quel giudice che deciderà – si trovi nella condizione di ascoltare direttamente le fonti di prova facendone un’espe­rienza irripetibile che non sarebbe la stessa se mancasse quel contatto diretto ed al suo posto si collocasse un medium destinato inevitabilmente a cancellare le impalpabili lunghezze d’onda ritenute idonee a guidare l’organo giudicante nella fissazione del fatto come premessa della delibera di merito [3].

Viene tradotto nella possibilità di far maturare al giudice quella diretta sensazione il contenuto della regola dell’immediatezza per come tra l’altro agganciata dalla Corte costituzionale al diritto della parte alla nuova audizione in sede di rinnovazione dell’istruttoria ex art. 525 c.p.p., quale situazione soggettiva a sua volta riallacciata ad “uno dei profili del diritto alla prova, strumento necessario del diritto di azione e di difesa, da riconoscere lungo l’arco di tutto il complesso procedimento probatorio, quale diritto alla ricerca della prova, alla sua introduzione nel processo, alla partecipazione diretta alla sua acquisizione davanti al giudice terzo ed imparziale, da ultimo alla sua valutazione ai fini della decisione da parte dello stesso giudice” [4].

Eppure, il contenuto del diritto ad ottenere che l’organo giudicante possa vivere e conservare in sede decisoria la fresca impressione dell’avvenimento probatorio non si può intendere pienamente se più in radice non si comprende come le garanzie circolari del giusto processo si incarnino nelle forme del processo penale ed alla luce di siffatte guarentigie come si atteggi l’immediatezza quale criterio epistemologico che deve guidare il giudice nella valutazione della prova e nell’elaborazione della decisione [5].

Si vuole dire che le cose stanno in modo diverso se si ritenga che le regole inferenziali che siano catalizzatrici degli esiti conoscitivi nascano e si formino nel contraddittorio per effetto dell’impegno delle parti in sede di ammissione ed acquisizione della prova e come oggetto di un mero controllo deduttivo del giudice che sancisca la resistenza delle stesse massime ad un riscontro falsificazionista [6], o al contrario si reputi che la formazione dei criteri inferenziali e quindi dei risultati di prova posti a base della decisione sia appannaggio esclusivo dell’organo giudicante che in tutta autonomia dalle proposte argomentative dei contendenti possa non in termini logico-formali, bensì attraverso un attivo ragionamento probabilistico, discostarsi dall’interpretazione data dalle parti agli elementi scaturiti dall’acquisizione [7].

Infatti, se il protagonista del criterio della valutazione è l’organo giudicante è chiaro che bisogna fidarsi di ciò che egli elabori mentalmente in autonomia ed allora è palese che avere un’esperienza diretta di tutti gli elementi – anche emozionali – che scaturiscono dall’escussione della fonte probatoria è una condizione di ascolto della realtà migliore di quella che derivi dalla lettura di un verbale ed in genere da un approccio mediato al sapere scaturente dalla fonte di prova.

Rispetto alla segnalata prospettiva di miglioramento della ricezione solipsistica di significati dalla realtà, è evidente che la cultura del verbalizzante ed in genere di colui che funga da mediatore dei risultati conoscitivi riannodabili alla fonte di prova possa influenzare e distorcere il messaggio proveniente dalla medesima [8]. Inoltre, per chi si colloca nell’ottica suddetta vi è una dimensione “pulviscolare”, tipica di “assetti proteiformi” dei contenuti di sapere della fonte primaria che solo un approccio diretto può svelare e porre in evidenza. Soprattutto relativamente alla prova dichiarativa si nota l’esistenza di flussi non verbali irriducibili alla dimensione puramente “intellettiva”, per così dire “numerica” tipica dei segni linguistici tradizionali [9].

L’immediatezza, allora, intesa tradizionalmente come contatto diretto con la fonte di prova del giudice decidente che sia protagonista della formazione probabilistica delle massime d’esperienza e degli esiti conoscitivi è una garanzia tecnica di corretto ascolto della realtà.

A siffatta ricostruzione si può nondimeno non aderire se invece di intendere in termini solipsistici il rapporto tra l’organo giudicante e la fonte di prova escussa come anche la corrispondente scelta da parte del giudice delle regole inferenziali che presiedano all’elaborazione decisoria, si esalta nella sua proiezione più profonda la dimensione di terzietà dell’autorità giurisdizionale e si coinvolgono, perciò, nella formazione delle massime d’esperienza e degli argomenti decisori i contendenti [10].

Se si esalta l’inerzia del giudice rispetto agli avvenimenti probatori [11] e si assegna al medesimo – almeno nella fase dibattimentale ed in genere in tutti i segmenti processuali che possono portare alla condanna – il ruolo di soggetto che si limita ad evidenziare le incompatibilità delle versioni di parte sull’accaduto con dati dal significato evidente [12] effettuando, quindi, quel controllo di tipo falsificazionista che è figlio di un ragionamento solo deduttivo e, perciò, dall’andamento certo, i protagonisti della formazione delle massime d’esperienza e dei ragionamenti probabilistici che sovraintendono a siffatta attività sono le parti. In tale prospettiva, il rapporto privilegiato con le fonti di prova è innanzi tutto dei contendenti che sono i veri formatori degli argomenti decisori basati sulle inferenze probabilistiche tipiche della scienza o dell’esperienza.

Se questo è vero, i significati degli elementi frutto di acquisizione intanto entrano nella decisione in quanto vengano mediati dalle proposte valutative dei contendenti che se resistono alle obiezioni di controparte ed al controllo logico-formale del giudice diventano arresti conoscitivi vincolanti per l’autorità giurisdizionale [13].

Ora, la dimensione cosiddetta “pulviscolare” tipica dei flussi non “numerici” provenienti dalle fonti di prova, l’espressione emozionale, la comunicazione analogica non digitalizzabile ed in genere tutte le lunghezze d’onda impalpabili espresse dalla realtà avvicinata non possono essere interpretate direttamente dal giudice perché le prime legittimate a dare significato a siffatti profili sono le parti.

Se l’autorità giurisdizionale non tenesse conto di ciò e volesse individuare il senso dei suddetti aspetti indipendentemente dalla mediazione argomentativa dei contendenti, ella verrebbe meno al suo dovere di terzietà e si sostituirebbe al contraddittorio come fucina di argomenti probatori e, quindi, decisori.


2. Il controllo falsificazionista del giudice sulle evidenze ed il suo self restraint in relazione alle sensazioni personali relative all’escussione della fonte di prova

Se deve limitarsi al controllo falsificazionista fondato sulle evidenze probatorie rispetto alle quali potrebbe svilupparsi l’incompatibilità dei significati proposti dai contendenti – e ciò con riferimento anche ai tratti analogici della comunicazione riferibile alle fonti di prova escusse –, il giudice non può fidarsi di proprie impressioni che possano essere messe in discussione: quella sensazione personale in cui per tradizione dovrebbe tradursi il rapporto immediato dell’organo giudicante con le espressioni della realtà può produrre solo una valutazione discrezionale suscettibile di una rielaborazione in termini esclusivamente probabilistici aliena dal crisma della certezza e della deducibilità in termini sicuri dell’esito conoscitivo a cui l’autorità giudicante è chiamata nel suo controllo [14].

Di certo, anche l’autorità giurisdizionale, nell’entrare in contatto con la fonte di prova, viene raggiunta dai flussi analogici di significato, dalla dimensione “pulviscolare” dei risultati dell’acquisizione, dai profili non verbali della comunicazione anche paralinguistica – con particolare riferimento alla prova dichiarativa –, ma, dovendo arrestare il suo giudizio alle evidenze rispetto alle quali controllare le incompatibilità dei significati proposti dai contendenti, il giudice deve essere in grado di secernere i profili incontestabili dell’avvenimento probatorio a cui anche le accennate espressioni si riannodino, dagli altri suscettibili di più interpretazioni [15].

Per esemplificare, il significato da attribuire ad un tratto paralinguistico come l’apparire di una particolare coloritura sul volto di un dichiarante non può essere frutto di un’autonoma interpretazione da parte dell’autorità giurisdizionale proprio perché il fenomeno suddetto può essere spiegato in più modi. L’unica evidenza che in proposito può essere fatta valere, allora, e che è dotata di incontestabilità è il dato in sé, grezzo, dell’apparire della coloritura, per cui solo ciò il giudice può sfruttare per operare un controllo falsificazionista affermando in ipotesi una situazione di incompatibilità con altro significato proposto da un contendente come nel caso in cui questi voglia desumere una spiegazione di una o più affermazioni del dichiarante pretendendo che non vi sia stata alcuna possibilità di reazione emotiva nello stesso per la supposta assenza – nel caso prospettato smentibile – di ogni tipo di mutamento dell’aspetto fisico durante il suo discorrere.

Le considerazioni articolate palesano un importante corollario. A ben vedere, sebbene si possa favorire anche un contatto diretto tra giudice e fonte di prova per controllare gli aspetti evidenti del fenomeno che oltre a questi ultimi esprima pure i significati analogici del flusso di informazioni, è chiaro che un profilo palese di una circostanza indipendente dalle sue implicazioni interpretative può ben essere rappresentato da un verbale ed in genere da un altro medium che l’organo giudicante debba considerare solo in quanto capace di trasmettere quel significato evidente e non gli altri suscettibili di sensazioni personali e valutazioni discrezionali.

In tal modo, alla luce del complesso circolare di tutte le garanzie del giusto processo e della reale portata dell’interazione particolare e profonda che possa stabilirsi tra terzietà del giudice e contraddittorio si può smitizzare il senso dell’immediatezza ed evitare anzi che la stessa possa esercitare una funzione dispotica nel processo ad inutile detrimento di altri valori come la ragionevole durata della controversia [16].

Laddove le parti abbiano – esse sì – vissuto l’esperienza completa – e comprensiva anche dei profili analogici – del loro rapporto con le fonti di prova, se si cartolarizzi in un verbale o in un altro medium un elemento da porre a base incontestabile di un ragionamento che si fondi poi anche sul calcolo probabilistico operato dai contendenti, purché non si impugni di falso il verbale o l’altro strumento di mediazione quale potrebbe essere una fedele videoregistrazione dall’alta qualità tecnologica, il giudice ha modo di effettuare il suo controllo falsificazionista in base al materiale evidente emergente dal solo verbale o dall’altro medium di significati, nonché di porre nella sua decisione l’argomento decisorio forgiato dalla parte che abbia superato il riscontro di eventuale incompatibilità con dati evidenti senza che egli abbia vissuto direttamente l’esperienza di coinvolgimento anche emozionale e “pulviscolare” con la fonte di prova interpretata dalla o dalle parti.

È chiaro che se vi fossero più interpretazioni contrastanti che fossero rimaste sul tappeto in quanto tutte capaci di superare il controllo falsificazionista del giudice, sussisterebbe sempre in capo al medesimo il modo di decidere pur senza aver affrontato l’approccio diretto agli aspetti proteiformi del flusso informativo proveniente dalla fonte di prova – secondo la prospettiva tradizionale ma tirannica del­l’immediatezza – perché senza sostituire – con propri ragionamenti solipsistici – gli argomenti valutativi e, quindi, decisori elaborati dai contendenti, l’autorità giudicante dovrebbe limitarsi a registrare la permanenza del dubbio e deliberare di conseguenza applicando, in ipotesi, un criterio come quello ex art. 530 comma 2 c.p.p.


3. La concezione non gradualistica della terzietà a conferma dell’impossibilità per il giudice di vivere la “dimensione pulviscolare” della prova indipendentemente dalle mediazioni di parte

Tutto il ragionamento che precede presuppone che si aderisca ad una concezione non gradualistica della terzietà del giudice [17] – nel complesso delle garanzie circolari del giusto processo – e come tale spinta fino alle estreme conseguenze almeno in relazione ai segmenti processuali che possano portare attraverso l’instaurazione del contraddittorio alla condanna (come nel dibattimento e nel giudizio abbreviato) e non anche in fasi come l’udienza preliminare in cui permanga una proiezione probabilistica e, quindi, almeno in parte protagonistica ed attiva del giudice.

Al di là del significato della terzietà nella sua dimensione costituzionale di cui all’art. 111 Cost., rispetto alla quale si potrebbe accedere anche ad una versione gradualistica del principio – per cui, in mancanza di una presa di posizione netta del Costituente in proposito sarebbe necessaria una stabilizzazione della connessa interpretazione attraverso una valutazione politico-giurisdizionale rimessa non ad un giudice, bensì ad un organo politico– giurisdizionale che individui il significato del principio in rapporto ai fatti concreti ed in maniera coeva ai processi che li riguardino (per evitare i problemi di attualizzazione dei canoni precostituiti) [18] –, si può ricevere un orientamento netto nella definizione della portata della terzietà solo in relazione alla sua incarnazione nel sistema voluta dal legislatore ordinario.

L’operazione deve inevitabilmente avvalersi del livello sistematico dell’interpretazione [19].

Per capire come la terzietà, almeno a livello codicistico, incida anche sul tipo di ragionamento che sia legittimato a porre in essere il giudice dibattimentale o quello del giudizio abbreviato nei segmenti processuali che attraverso l’instaurarsi del contraddittorio possono condurre alla condanna, in termini sistematici si può desumere la volontà del legislatore ordinario dal tipo di regolamentazione dell’ammissione e dell’acquisizione probatoria in dibattimento (artt.190, 493, 495, 498, 499 c.p.p.), dal tipo di contraddittorio instaurabile nel giudizio abbreviato (art. 441 in relazione all’art. 422 c.p.p.) nonché dalla disciplina del rapporto tra valutazione della prova e motivazione della sentenza dibattimentale (artt. 192, 546 c.p.p.) per come estensibile anche al giudizio abbreviato (art. 442 co. 1 c.p.p.).

In ordine all’ammissione probatoria [20] il fatto che l’art. 190 c.p.p. la escluda solo a fronte di prove manifestamente irrilevanti o superflue indica che il giudice non effettua alcun ragionamento probabilistico nel decidere in merito ma si sofferma sulle evidenze [21] e, se accade ciò, è chiaro che l’ipotesi probatoria da convalidare durante l’acquisizione – che è invece di marca probabilistica – è formata da chi domanda la prova considerando che la stessa non si può reperire ragionando solo su evidenze e dati incontestabili. Se l’accennata ipotesi si riannoda ad un dubbio da sciogliere è normale che solo in chiave probabilistica – lo si ribadisce – l’istante cerchi la prova che possa consentire di superarlo ed a questa ricerca si leghi l’elaborazione della fattispecie di avvenimento probatorio da convalidare mediante l’acquisizione. Ne consegue che la finalità argomentativa dalla domanda probatoria, esprimendo l’ela­borazione dell’ipotesi da confermare in sede acquisitiva, associa alla stessa automaticamente la proposta valutativa della prova da raccogliere, senza la quale non si spiegherebbe nemmeno la rilevanza, ossia l’utilità del risultato accertativo a cui tendere.

Da ciò emerge che l’argomento probatorio – con la sua capacità di evolversi in argomento decisorio – è formato dalla parte ed il giudice chiamato all’ammissione, in quanto ragioni solo su evidenze per negare in ipotesi l’ingresso all’accertamento domandato, può diventare solo autore di un ragionamento puramente logico-formale, di tipo deduttivo e dall’andamento certo e non probabilistico [22]. Si inizia in occasione dell’ammissione quel controllo falsificazionista tipico di quei segmenti processuali in cui domina il contraddittorio.

Già nel momento dell’introduzione della prova allora è confermato che è il contendente istante e non il giudice ad ipotizzare nell’ambito dell’argomento probatorio da porre in ipotesi probabilisticamente a base della decisione la massima d’esperienza da convalidare in sede acquisitiva.

Successivamente, in occasione dell’acquisizione, il fatto che in sede di raccolta della prova costituenda per eccellenza quale quella dichiarativa siano le parti a condurre l’esame (artt. 498 e 499 c.p.p.) conferma che non è l’organo giudicante, bensì sono i contendenti, anche quando si tratti di modificare il thema probandum in corso d’opera, a convalidare le proposte valutative avanzate mediante le richieste di prova ed a formare conseguentemente – come prodotto dell’acquisizione – non solo dei dati – che, poi, spettasse (nella prospettiva qui bocciata) all’autorità giurisdizionale valutare autonomamente ed indipendentemente dalla finalità argomentativa perseguita dai contendenti durante l’attività acquisitiva –, ma dei risultati che hanno la consistenza di argomenti comprensivi di massime d’esperienza le quali vengono già precriticate durante l’acquisizione attraverso il gioco di interventi e di contrapposizioni posto in essere dalle parti [23].

Anche le norme dettate specificamente in tema di valutazione della prova e di elaborazione della motivazione, come l’art. 192 comma 1 c.p.p. e l’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p., confermano che i protagonisti della formazione degli argomenti decisori e delle massime di esperienza interne ai medesimi sono le parti ed il giudice nel valutare la prova e nell’inserire in motivazione gli argomenti probatori deve limitarsi ad effettuare delle deduzioni e dei ragionamenti di natura logico-formale dall’andamento necessario e non probabilistico [24].

In proposito, bisogna muovere dal riferimento della lett. e) del comma 1 dell’art. 546 c.p.p. ai risultati di prova acquisiti ed ai criteri di valutazione della prova adottati, nonché alle ragioni di inattendibilità delle prove contrarie. Dalle locuzioni adoperate emerge che le prove poste a base della decisione ed, in virtù di un necessario ed evidente parallelismo concettuale, le prove contrarie, in realtà, sono argomenti di prova comprensivi delle conclusioni conoscitive e delle regole inferenziali (o massime d’espe­rienza). Diversamente – come opportunamente precisato dal legislatore attraverso la riforma Orlando [25] – non si farebbe cenno – quanto alle prove poste a base delle delibera – anche ai criteri di valutazione adottati oltre che ai risultati acquisiti.

Peraltro, non è senza significato che, su un piano distinto, nella stessa lett. e) del citato comma si accenni a ragioni (e, quindi, ad una valutazione) di inattendibilità delle prove contrarie, a cui fa riscontro, implicitamente il vaglio di attendibilità delle prove poste a fondamento della delibera.

Ci si trova, perciò, nell’ambito della medesima motivazione in fatto dinanzi a due tipologie di argomenti e, cioè, quelli probatori e gli altri di attendibilità/inattendibilità delle prove.

Peraltro, se gli esercizi valutativi possono attenere, in genere, solo a tre dimensioni della razionalità, che sono la scienza, l’esperienza o la logica formale [26], è chiaro, innanzi tutto, che essendo solo la scienza e l’esperienza all’origine di allargamenti della conoscenza invece dei ragionamenti deduttivi in cui nelle premesse sono implicite le conclusioni, sono sicuramente probatori gli argomenti fondati sulla scienza o sull’esperienza e produttivi di allargamento di conoscenza come quelli che precipuamente si formano nel contraddittorio. Se, poi, il legislatore denomina in altro modo rispetto agli argomenti probatori quelli di attendibilità/inattendibilità di cui sempre alla lett. e) suddetta, vuol dire che queste ultime ragioni non sono di scienza e di esperienza ed, allora, possono attenere solo alla dimensione della logica formale [27].

Di certo, si potrebbe in astratto ritenere che le regole inferenziali degli argomenti mediante i quali si allarga la conoscenza nella prospettiva della scienza o dell’esperienza potrebbero essere scelte anche dal giudice – una volta che lo stesso si sia ritirato in camera di consiglio e dopo l’esercizio del contraddittorio – e non solo utilizzate previamente dalle parti durante l’attività inventiva in contraddittorio, ma, se così fosse, le valutazioni di scienza ed esperienza del giudice e, cioè, i vagli probatori dello stesso, scollandosi inevitabilmente da quelli forgiati nel corso del contraddittorio dalle parti, potrebbero solo determinare sempre assoluzioni per contraddittorietà degli argomenti probatori e questo non può essere un obiettivo del sistema [28].

Di qui il carattere vincolante per il giudice degli argomenti probatori espressi e precriticati in contraddittorio sotto il dominio – cui si è accennato prima – delle parti: l’organo giudicante, al di fuori del contraddittorio – che per quanto detto è il regno esclusivo degli argomenti probatori che allargano la conoscenza sfruttando la scienza e l’esperienza – può solo forgiare argomenti deduttivi e, quindi, logico-formali in cui nelle premesse sono implicite le conclusioni e da ciò discende che rispetto a queste ultime sono vincolanti le premesse rappresentate dagli argomenti probatori comprensivi delle massime d’esperienza di cui sono signori i contendenti.

In siffatta prospettiva, cosa rimane nell’appannaggio esclusivo del giudice? Per differenza, – lo si ribadisce – dal momento che gli argomenti probatori che allargano la conoscenza mediante l’uso della scienza e dell’esperienza sono forgiati nel contraddittorio e sono formati dalle parti in ragione della normativa sull’ammissione e sull’acquisizione della prova, all’organo giudicante l’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p. attribuisce in via esclusiva la valutazione di attendibilità/inattendibilità delle prove che però – lo si ribadisce – non può essere di ampliamento della conoscenza in prospettiva scientifica o esperienziale – pena l’assimilazione non voluta dal legislatore alla formazione di argomenti probatori – ed allora deve palesare necessariamente natura logico-formale tipica del ragionamento deduttivo dall’anda­mento necessario.

Ne consegue che sebbene anche le parti ed il giudice possano utilizzare la logica formale durante il contraddittorio assieme agli argomenti più specificamente probatori che allargano la conoscenza di cui sono protagonisti i contendenti, l’organo giudicante, sia che intervenga nel corso del contraddittorio, sia che elabori la motivazione in camera di consiglio, può operare un controllo indipendente dalle valutazioni probatorie delle parti solo in prospettiva logico-formale; il che equivale a dire che il medesimo vaglio, se vuole essere autonomo dalle proiezioni di parte, può essere solo di tipo falsificazionista e deduttivo.

Con siffatto quadro non contrastano i poteri ufficiosi del giudice ex artt. 506 e 507 c.p.p. [29]. In proposito, risulta chiaro che tutte le situazioni regolate dai due articoli fondano su un ragionamento logico-formale ispirato ad una esigenza di controllo di tipo falsificazionista perché se così non fosse e, cioè, se gli interventi d’ufficio si ispirassero al reperimento di soluzioni probabilistiche a questioni fattuali che come tali si aggiungessero ad altre valutazioni probabilistiche operate dalle parti in sede di domande probatorie e di acquisizione delle prove – invece di stabilire controlli di incompatibilità con evidenze inventive apprezzabili solo in termini deduttivi attraverso ragionamenti dall’andamento necessario – sarebbero consentiti fin dall’inizio dell’istruttoria dibattimentale e messi sullo stesso piano delle iniziative inventive di parte, rispetto alle quali è ben vero – come si è detto – che l’ammissione da parte del giudice avviene in base ad un controllo logico-formale, ma le domande di prova e gli argomenti probatori che con esse si avanzano sono esplicazione di proiezioni probabilistiche per cui anche le massime di esperienza che forgia chi domanda le prove fondano sul calcolo della probabilità di marca scientifica o esperienziale .

Siccome, invece, il giudice dibattimentale esercita il potere di cui al comma 1 dell’art. 506 c.p.p. “in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle parti o a seguito delle letture disposte a norma degli articoli 511, 512 e 513”, come anche può rivolgere domande ai dichiaranti “solo dopo l’esame e il controesame “ effettuato dalle parti ed, in un’ottica simile, il legislatore vuole che l’organo giudicante ammetta le prove ai sensi dell’art. 507 c.p.p. solo quando sia terminata l’acquisizio­ne delle prove domandate dai contendenti, evidentemente gli interventi ufficiosi in questione devono avere non la sola funzione di risolvere dubbi con un calcolo delle probabilità dall’andamento incerto (perché se così fosse – lo si ribadisce – non si spiega perché non sia possibile porre in essere l’operazio­ne fin dall’inizio dell’istruttoria dibattimentale), bensì l’altra di contribuire a scartare delle alternative ricostruttive, risolvendo i dubbi rimasti sul tappeto (a seguito dell’acquisizione voluta dai contendenti) con ragionamento certo e, quindi, sfruttando delle evidenze probatorie. In merito, va precisato che operare gli interventi per evidenziare solo delle probabilità che vadano ad aggiungersi alle altre significa non risolvere le questioni con sicurezza, bensì solo sulla base di un conclusivo calcolo delle probabilità che in modo discrezionale e, quindi, in una certa misura, arbitrario fonda sulla preferenza per un’ipo­tesi rispetto ad un’altra.

In siffatta prospettiva, l’ammissione della prova d’ufficio ex art. 507 c.p.p. non sarebbe “assolutamente” necessaria se fondasse pur sempre su una valutazione probabilistica perché la sostituzione di quest’ultima all’individuazione delle ipotesi forgiate probabilisticamente dalle parti non sarebbe frutto di una necessità, bensì solo di un’opzione di marca in parte volontaristica operata dall’organo giudicante.

Al contrario, l’assoluta necessità di cui all’art. 507 c.p.p. per essere tale deve consentire di scartare le diverse alternative ricostruttive in modo sicuro ed, allora, non può che agganciarsi ad ipotesi probatorie che in modo incontestabile falsifichino un’altra versione, o, in mancanza di capacità di superamento di una certa prospettiva ricostruttiva, la confermino in modo palese. In ogni caso, il ragionamento fonda su evidenze e non sulla mera coltivazione probabilistica di una possibilità di ricostruzione di un avvenimento. Di qui la natura logico-formale del ragionamento in sede di ammissione ufficiosa, non come nel caso dell’ammissione della prova richiesta dal contendente – in cui esiste una proiezione probabilistica di parte, esterna alla sfera di controllo dell’organo giudicante, che, perciò, proprio in quanto opera su un piano distinto da quello dell’istante, è messo nella condizione di sindacare solo la compatibilità di quella proiezione di parte con altre evidenze inventive –, bensì perché anche l’argomento probatorio e la massima di esperienza che si tenda ad accreditare attraverso il potere di ammettere ufficiosamente è intrinsecamente di tipo logico-deduttivo e non probabilistico [30].

Allo stesso modo, in funzione della sedes materiae e dell’analoga ratio per la quale i corrispondenti interventi ufficiosi non sono posti sullo stesso piano delle iniziative di parte e resi possibili fin dall’inizio dell’istruttoria dibattimentale, è il caso di agganciare anche alle situazioni ex art. 506 c.p.p. la funzione di risoluzione in modo sicuro di dubbi e non di presa di posizione in parte volontaristica a favore di un’ipotesi ricostruttiva al posto di un’altra. Perciò, va affermata la natura falsificazionista anche del ragionamento che presiede agli interventi di cui al citato articolo nel senso che solo se si è sicuri che l’esercizio del potere di cui alla suddetta norma sia in grado di scartare un’alternativa ricostruttiva – stabilendo un’incompatibilità logica o, per converso, una conferma logica – di una certa idea di realtà, lo si può porre in essere.

Se questo è vero per le più importanti situazioni di potere probatorio ufficioso, non si può che ritenere – quanto meno in via di interpretazione analogica – che lo stesso ragionamento dall’andamento necessario di natura logico-formale deve presiedere a tutte le altre situazioni ufficiose previste in relazione all’attività inventiva dal codice come quelle ex artt. 511, 508, 224 c.p.p.

Da tutto quanto detto è confermato che il sistema del codice del 1988, laddove stabilisce il contraddittorio euristico dibattimentale dinanzi al giudice, confina il ruolo tipico di quest’ultimo in quello di controllo falsificazionista in tutti i segmenti del procedimento probatorio e, poi, di elaborazione della decisione finale.

Per venire al giudizio abbreviato, prescindendo dal fatto che il contraddittorio euristico del medesimo procedimento speciale è una dialettica “sulla” e non “per” la prova [31], in proposito va ricordato che, lasciando da parte la situazione ex art. 438 comma 5 c.p.p. – per la quale, però, valgono considerazioni analoghe a quelle seguenti in funzione del tipo di parametro a cui deve essere subordinata l’integrazio­ne probatoria che consente l’ammissione del giudizio abbreviato – l’art. 441 comma 5 c.p.p. conferma che il criterio ammissivo delle prove è la decisività, quale profilo che, quindi, è analogo all’assoluta necessità ex art. 507 c.p.p. in quanto segue ad una pregressa attività inventiva, sia pure di tipo unilaterale (si badi alle locuzioni “quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti” e “ assume … gli elementi necessari ai fini della decisione”). Ne consegue che, per quanto detto a proposito degli interventi ufficiosi dibattimentali, l’ammissione probatoria nel rito differenziato in questione presuppone un ragionamento falsificazionista [32]. Il programma della successiva acquisizione fissato nell’am­mettere le prove vincola, poi, il giudice in sede acquisitiva per cui non si può ritenere che quest’ultimo possa debordare dalla finalità di esclusione di alternative ricostruttive in cui consiste il “de caedere” quando si passa ad acquisire le prove. Anche questo segmento del procedimento probatorio, allora, in prospettiva logico-formale, deve servire a verificare la compatibilità o meno con evidenze probatorie della ricostruzione proveniente dalla fase delle indagini o dell’udienza preliminare.

Il ruolo falsificazionista del giudice pure nel giudizio abbreviato è, poi, confermato dall’applicabilità nel medesimo ai sensi dell’art. 442 comma 1 c.p.p. degli artt. 529 ss. c.p.p., compreso quindi, l’art. 546 con il suo comma 1 lett. e) [33].

Sennonché, mentre a monte della decisione e della motivazione della sentenza emessa nel dibattimento vi è un’ammissione ed un’acquisizione che nella sua consistenza euristica evidenzia sotto il profilo normativo il ruolo protagonistico dei contendenti nella formazione degli argomenti probatori e delle connesse massime d’esperienza, alla base della decisione dell’abbreviato vi possono essere, dal punto di vista euristico, solo indagini o attività inventive dell’udienza preliminare, unite al contraddittorio della discussione.

Questo significa che per far sì che anche nell’abbreviato operi quel rapporto tra accertamenti e motivazione che è tipizzato dall’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p. – in modo che l’autonomia valutativa del­l’organo giudicante sia confinata nel vaglio logico-formale di attendibilità/inattendibilità di prove intese come argomenti probatori comprensivi di massime d’esperienza elaborate dai contendenti in modo vincolante per il giudice – non c’è altra soluzione che rivalutare la discussione del giudizio abbreviato come sede di elaborazione – ex post rispetto all’acquisizione del materiale inventivo – degli argomenti probatori comprensivi di massime d’esperienza che forniscano al giudice, in quanto frutto di un incrocio di prospettive tipico del contraddittorio e non solo in quanto risultato di un impegno ricostruttivo unilaterale, gli esiti conoscitivi di scienza e di esperienza idonei ad allargare la conoscenza sul fatto addebitato, ossia i risultati probatori comprensivi di criteri di valutazione degli elementi acquisiti già in fase d’indagine.

Alla luce di tutte le considerazioni svolte, si può concludere che nelle fasi processuali contrassegnate dal contraddittorio anche solo eristico dinanzi al giudice, la terzietà di quest’ultimo voluta dal legislatore rispetto al fenomeno probatorio non è di tipo gradualistico – come vorrebbero, invece, le prassi giurisprudenziali – ma è spinta con coerenza fino alla totale inerzia ricostruttiva dell’organo giudicante che non può creare informazioni con alcun ragionamento probabilistico e deve limitarsi a ragionare sulle evidenze con criterio logico-formale.

Rimane, allora, convalidato l’assunto secondo cui il giudice non può vivere in modo solipsistico ed indipendente dalla mediazione argomentativa dei contendenti la dimensione anche “corpuscolare” ed analogica del rapporto con la fonte di prova che imporrebbe un’attività di ricostruzione solo probabilistica e non fondata sulle evidenze di significato. Di qui, la possibilità che anche attraverso un verbale particolareggiato o una videoregistrazione tecnologicamente evidenziante in modo fedele i tratti paralinguistici di un’acquisizione di prova dichiarativa si possa mettere l’organo giudicante in condizione di porre in essere il controllo falsificazionista sulle evidenze dell’avvenimento probatorio svoltosi in contraddittorio e così di decidere nel rispetto di tutti i principi del giusto processo.


4. La flessibilità dell’immediatezza in relazione al principio di immutabilità fisica del giudice

Venendo alla questione dell’immediatezza in relazione al principio di immutabilità fisica del giudice, va sottolineato che per coerenza con gli elementi di sistema evidenziati e, quindi, con la cornice delle garanzie circolari del giusto processo che appaiono associate dal legislatore alla dimensione codicistica del processo penale, risultano ingiustificate le critiche rivolte agli arresti giurisprudenziali del giudice delle leggi e delle Sezioni unite penali che si sono registrati a proposito dell’art. 525 c.p.p. [34].

In verità, va precisato che se si distingue il livello della legislazione ordinaria da quello della dimensione costituzionale, non si può asserire con sicurezza se e con quale pregnanza sia coperto dalla Costituzione il principio di immediatezza così come non è chiaro il rapporto esistente – sempre a livello costituzionale – tra lo stesso e gli altri valori del giusto processo. Perciò, se si sposasse sul piano della Carta dei principi la valenza gradualistica della terzietà, di certo potrebbe apparire di maggiore incidenza l’esigenza di assicurare che il giudice anche solipsisticamente facesse l’esperienza diretta dell’avveni­mento probatorio per conservare ed elaborare probabilisticamente anche gli aspetti non verbali del rapporto con la fonte di prova – in particolare dichiarativa – in modo da confinare, per esempio, il bisogno di efficienza del processo in una prospettiva che non consenta deroghe alla valenza tradizionalmente assegnata all’immediatezza.

Se, però, si scende sul piano della normativa ordinaria le cose cambiano perché, come si è detto, con particolare riferimento all’immutabilità fisica del giudice non è vero che l’immediatezza risulti funzionale all’obiettivo tradizionalmente assegnatole di consentire al giudice di cogliere solipsisticamente anche la dimensione cosiddetta “pulviscolare” del rapporto con la fonte di prova in modo da favorire un più sicuro giudizio di attendibilità; e ciò per la valenza forte e non gradualistica della terzietà del giudice che sovraintenda al segmento processuale che può portare alla condanna, per cui – lo si ribadisce – l’organo giudicante può ragionare solamente in termini deduttivi sulle evidenze.

In proposito, allora, l’esigenza di rinnovare l’istruttoria dopo il mutamento della persona fisica del giudice significa, di certo, che per il legislatore bisogna ristabilire il contatto diretto con la fonte di prova, ma ciò non per consentirgli di cogliere ed interpretare indipendentemente dalle mediazioni argomentative delle parti i profili analogici delle informazioni desumibili dalle fonti di prova, bensì solo per fargli porre in essere un nuovo avvenimento probatorio in cui il suo ruolo è sempre e solo quello di controllare su un piano di evidenza se le proposte valutative avanzate dai contendenti in ordine al rapporto con l’ipotetica fonte di prova avvicinata rispondano a quelle manifestazioni dal significato incontestabile su cui le parti fondano (recte, hanno l’onere di fondare) anche la loro interpretazione della dimensione analogica delle espressioni della fonte probatoria.

Va, in proposito, aggiunto che il legislatore, potendo far leva sui rimedi alle infedeltà del verbale o di un altro ipotetico medium – quale potrebbe essere una videoregistrazione riproducente in modo tecnologicamente apprezzabile l’avvenimento probatorio – per consentire al giudice subentrato di dar credito a quel medium e di controllare attraverso esso le incompatibilità dei significati proposti dalle parti con i dati incontestabili dell’attività inventiva pregressa, per un verso consente l’utilizzo del medesimo medium al fine di verificare siffatte inconciliabilità rispetto all’avvenimento inventivo celebratosi antecedentemente e, per altro verso, sul presupposto di questo definito accertamento basato anche solo sull’impiego del verbale, in sede di rinnovazione dell’istruttoria non può che introdurre un evento probatorio dal tema nuovo in relazione alla stessa fonte di prova escussa in precedenza per chiarire le incertezze residue che proprio il primo tipo di sindacato abbia evidenziato.

Si può allora – per coerenza con tutti gli altri dati di sistema – contemperare – e non solo in via di bilanciamento discrezionale, ma come esito di un ragionamento sistematico dall’andamento deduttivo e certo – l’esigenza di rinnovazione dell’avvenimento probatorio con il bisogno di economia dell’organiz­zazione giudiziaria traducentesi nel risparmio di forme per assicurare una più ragionevole durata del processo e ritenere, quindi, – con la Corte costituzionale – che «il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice o al mutato collegio “non è assoluto, ma ‘modulabile’ (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore (ordinanza n. 205 del 2010) [ma qui si aggiunge che siffatta scelta può cogliersi con ragionamento interpretativo dall’andamento certo], restando ferma in particolare la possibilità per il legislatore di introdurre “presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio” del diritto in questione (ordinanze n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007)» [35].

Si vuole dire che se l’avvenimento pregresso può essere pienamente valutato anche tramite il verbale o tramite una fedele videoregistrazione dal nuovo giudice, correttamente, ed in nome dell’economia di sistema specificantesi nell’assicurazione di una durata del processo più ragionevole, ci si può spingere a richiedere il “novum” [36] per dare ingresso alla rinnovazione dell’istruttoria probatoria ex art. 525 c.p.p. e – con le Sezioni unite – si può ritenere che “se il legislatore ha espressamente attribuito al giudice il potere … di non ammettere (in caso di manifesta superfluità) le istanze probatorie volte ad ottenere la pedissequa reiterazione degli esami di soggetti dei quali siano stati acquisiti verbali di dichiarazioni rese in procedimenti diversi (e quindi anche dinanzi a giudice diversi, purché in presenza del difensore dell’imputato), non si riuscirebbe francamente a comprendere la ragione per la quale dovrebbe essere preclusa al giudice la possibilità di operare analoga valutazione di non manifesta superfluità ai fini dell’ammissione della richiesta di reiterazione di esami già svolti in dibattimento nell’ambito del medesimo processo, nel contraddittorio fra tutte le parti interessate, regolarmente costituite e rappresentate, dinanzi allo stesso giudice (inteso come autorità giudiziaria competente), pur diversamente composto” [37].

In questo modo, – lo si ribadisce – il nuovo avvenimento probatorio ammesso rispetto alla stessa fonte di prova già escussa in precedenza, che sarebbe inutile per controllare la cornice degli elementi incontestabili del rapporto pregresso, aggiunge all’ipotetica lettura del verbale o alla visione della videoregistrazione tecnologicamente affidabile un avvenimento probatorio che serve a chiarire dei dubbi residui lasciati sul tappeto ed insiste, quindi, su nuovi temi di prova. Ne consegue che, dovendo accogliere una concezione flessibile dell’immediatezza – anche se non in funzione di un bilanciamento discrezionale ma come frutto di una precisa scelta sistematica – per tutte le ragioni suenunciate, non contrasta con le garanzie del giusto processo il principio di diritto fissato dalle Sezioni unite secondo cui pur quando si chieda la rinnovazione delle prove assunte dal giudice diversamente composto rimane ferma “la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 c.p.p., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa” [38].

Anzi, nell’ottica delle considerazioni svolte sull’accezione pregnante di terzietà che deve accogliersi in riferimento al giudice che opera nel segmento processuale che possa portare alla condanna, ci si può spingere anche oltre la dimensione del solo controllo della non manifesta superfluità a cui può e deve essere chiamato il giudice subentrato e ritenere che a proposito della prova dichiarativa sia onere della parte che intenda ottenere il nuovo esame non solo chiedere quest’ultimo ma indicare anche le circostanze “decisive” in ordine alle quali la nuova audizione del teste dovrebbe avere luogo [39].

L’affermazione è sostenibile perché in proposito – come chiarito dalle Sezioni unite – l’ottica desunta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativamente alla sussistenza di garanzie procedurali che controbilancino il fatto di non poter esaminare i testimoni nel corso del dibattimento svolto dinanzi al giudice nella nuova composizione, si sposa perfettamente con la sufficienza dell’uso del verbale – e con la fruibilità da parte dei contendenti dei rimedi per i casi di infedeltà del protocollo – ai fini del sindacato cui è chiamato il giudice subentrato.

A tal riguardo, correttamente affermano le Sezioni unite che “quando le dichiarazioni rese in dibattimento dai soggetti esaminati dal giudice diversamente composto siano state integralmente verbalizzate stenotipicamente, con contestuale registrazione fonografica ... [ e qui si aggiunge con annotazione nel verbale anche dei tratti paralinguistici e degli atteggiamenti non verbali che siano incontestabili nella loro apparenza], il problema della mediazione del primo giudice tra le effettive dichiarazioni e la relativa verbalizzazione si sdrammatizza, risultando le stesse invece completamente e genuinamente riportate, e come tali integralmente conoscibili dal nuovo giudicante. In presenza di tale ausilio tecnico, potrà eventualmente ravvisarsi una giusta ragione per non disporre la pedissequa ripetizione dell’esame” [40].

A fronte di siffatta possibilità di utilizzo, la rinnovazione della prova si deve limitare all’ingresso di quelle decisive e non solo rilevanti e non manifestamente superflue, perché non può che essere chiamata a favorire – attraverso il controllo di quello stesso tipo di assoluta necessità che si è agganciata al controllo logico-formale quando decisive devono essere le prove ammesse d’ufficio ai sensi degli artt. 507 e 441 comma 5 c.p.p. – un sindacato di eventuale incompatibilità dei significati desumibili dalla prova pregressa con dati emergenti con evidenza dal nuovo avvenimento probatorio e rappresentanti per di più un “novum” rispetto all’attività inventiva antecedente.

Si vuole dire che l’ammissione di tale ultima sequenza inventiva, se non fosse assolutamente necessaria – come nell’ipotesi di cui all’art. 507 c.p.p. – e tale quindi da favorire l’acquisizione di un dato non solo “nuovo” ma anche dal significato evidentemente incompatibile con le informazioni antecedenti, sarebbe del tutto inutile perché vuol dire che sarebbe frutto di una proiezione probabilistica del giudice che andrebbe a sostituire l’impostazione del contendente – sempre probabilistica – sul senso del rapporto con la fonte che in ipotesi si è già dispiegato pienamente davanti al vecchio giudice e che il mutato organo giudicante, dal canto suo, viceversa, per economia di sistema dovrebbe limitarsi solo a controllare nei suoi aspetti incontestabili attraverso la lettura del verbale senza pretendere di sostituire la sua esperienza sensitiva – comprensiva di solipsistica ed arbitraria interpretazione – all’esperienza sensitiva ed all’interpretazione dei contendenti. Nell’ammissione di una prova davanti al giudice mutato nella sola ipotesi in cui ciò sia assolutamente necessario consiste allora legittimamente quel “novum” che serve ad evitare in nome di un’esigenza di economia di sistema inutili ulteriori attività inventive.


NOTE

[1] Ci si riferisce, in particolare, a C. cost., sent. 29 maggio 2019, n. 132; Cass., sez. un., 10 ottobre 2019, n. 41736 . Sulle accennate vicende giurisprudenziali si è sviluppato un notevole dibattito in dottrina, nel cui ambito si segnalano, tra gli altri: P. Ferrua, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., 2, 2019; O. Mazza, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, in Arch. pen., 2, 2019; D. Negri, La Corte costituzionale mira a squilibrare il “giusto processo” sulla giostra dei bilanciamenti, in Arch. pen., 2, 2019; C. Scaccianoce, Mutamento del giudice e rinnovazione della prova: la Corte costituzionale esorbita dai confini accusatori, in Proc. pen. giust, 2020, p. 174 ss.; L. Zilletti, La linea del Piave e il duca di Mantova, in Arch. pen., 2, 2019; A. De Caro, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, in Dir. pen. proc., 3, 2020, p. 293 ss.; G. Spangher, Immutabilità del giudice. La norma non è incostituzionale ma per la Corte va cambiata, in www.ilpenalista.it, 2019.

[2] In siffatta ottica si collocano, tra gli altri, P. Ferrua, La prova nel processo penale I, Struttura e procedimento, Torino, 2017, 123 ss., 283; Idem, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., 2, 2019, 4; O. Mazza, voce Contraddittorio, in Enc. dir., Annali, VII, Milano, 2014, 270 e 271; Idem, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, in Arch. pen., 2, 2019.

[3] La Corte costituzionale – anche se nel corpo della medesima pronunzia qui citata ha ritenuto modulabile il principio, come si dirà – ha affermato nel 2010, a proposito dell’immediatezza come valore tutelato in sede di rinnovazione della prova ai sensi dell’art. 525 c.p.p., che la ratio giustificatrice “si fonda sull’opportunità di mantenere un diverso e diretto rapporto tra giudice e prova, particolarmente quella dichiarativa, non garantito dalla semplice lettura dei verbali: vale a dire la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame” (C. cost., ord. 7 giugno 2010, n. 205, in Dir. pen. proc., 2010, p. 929). Anche in dottrina si è soliti interpretare il rapporto immediato con la fonte di prova, specie dichiarativa, come foriera di un’esperienza irripetibile del giudice chiamato a cogliere le impalpabili lunghezze d’onda che promanino dall’escussione della fonte di prova e che la lettura del verbale non potrebbe restituire. In proposito, cfr., per tutti G. Di Chiara, Relazione conclusiva, in Atti del convegno organizzato dall’Associazione tra gli studiosi del processo penale su “L’immediatezza nel processo penale” 27-28 novembre 2020, in www.studiosiprocessopenale.it.

[4] C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit., loc. cit. Sulla pronunzia cfr., tra gli altri, A. De Caro, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, cit., p. 293 ss.

[5] Sull’immediatezza come criterio epistemologico, cfr., tra gli altri, O. Mazza, Immediatezza e crisi sanitaria, in Atti del convegno organizzato dall’Associazione tra gli studiosi del processo penale su “L’immediatezza nel processo penale” 27-28 novembre 2020, in www.studiosiprocessopenale.it.

[6] In siffatta prospettiva cfr. M. Menna, Formazione e previsione degli argomenti giustificativi della decisione, in Id. Studi sul giudizio penale, Torino, Giappichelli, 2009, passim.

[7] Su questa tradizionale ottica interpretativa della formazione delle massime d’esperienza cfr., per tutti, M. Nobili, Nuove polemiche sulle cosiddette “massime d’esperienza”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, passim.

[8] In proposito, cfr. M. Menna, Logica e fenomenologia della prova, Napoli, Jovene 1992, passim e bibliografia ivi.

Sul punto, cfr. anche K. Geppert, Der Grundsatz der Unmittelbarkeit im deutschen Straverfahren, Berlin, 1979, passim.

[9] Su queste espressioni riferite al senso più profondo dell’immediatezza cfr., per tutti, G. Di Chiara, Relazione conclusiva, cit., loc. cit.

[10] Sulla terzietà come garanzia non solo di ordinamento giudiziario ma anche di posizione dell’organo giudicante nel processo cfr., per tutti, G. Di Chiara, Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, Jovene, 2003, passim. Nella stessa direzione, tra gli altri, A. Scalfati, Il quadro costituzionale, in AA.VV., Manuale di diritto processuale penale, Torino, Giappichelli, 2015, p. 41.

[11] Tra gli altri, sul tradizionale rapporto tra poteri probatori di parte e ruolo del giudice in relazione agli avvenimenti probatori, che non implica la totale assenza di potere di formazione autonoma di argomenti probatori ricostruttivi del fatto invece del solo controllo logico-formale teso alle esclusioni di alternative fattuali, quando siano smentite da evidenze inventive, cfr. tra gli altri, F. Ferri, Iniziative delle parti e poteri probatori del giudice, in Arch. pen., 2014.

[12] In proposito, M. Menna, La salvezza dell’interpretazione non discrezionale del giudice dibattimentale attraverso la “giuria elettiva di esperti, in Dir. pen. proc., 2021, passim. Assegna globalmente al contraddittorio una funzione falsificazionista R. Adorno, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, in Foro it., 2013, p. 130.

[13] In proposito, M. Menna, Il ricorso per cassazione: a) casi e cognizione, in L. Kalb (a cura di), Impugnazioni. Esecuzione penale. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, vol. IV, (Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher - A. Marandola - G. Ubertis - L. Kalb), wki, Milano, 2015, pp. 151-219.

[14] Non ci si nasconde che in questo modo si supera l’impostazione tradizionale per la quale a sostegno dell’esperienza solipsistica del giudice di fronte alla dimensione anche analogica dell’avvenimento probatorio, già Pagano affermava che “Nella viva voce parla eziandio il volto, gli occhi, il colore, il movimento, il tuono della voce, il modo di dire e tant’altre diverse piccole circostanze, le quali modificano e sviluppano il senso delle generali parole e ne somministrano tanti indizi o a favore, o contro l’affermazione delle parole” (Considerazioni sul processo criminale, Napoli, 1787, 85).

[15] Sulla possibilità di distinguere i limiti tipici ed incontestabili di un fatto – da rendere oggetto di un ragionamento puramente deduttivo – dai profili valutabili discrezionalmente e tali da condurre a più di una interpretazione cfr.: M. Menna, La “giuria elettiva di esperti” nel processo penale, Torino, Giappichelli, 2017, passim; Idem, La salvezza dell’interpretazione non discrezionale del giudice dibattimentale attraverso la “giuria elettiva di esperti, cit., loc. cit., passim.

[16] G. Di Chiara si chiede se possa ritenersi dispotico il ruolo di un principio come l’immediatezza rispetto ad altri (Relazione conclusiva, cit., loc. cit.). A favore della contemperabilità del valore dell’immediatezza con le ragioni di efficienza del processo cfr., anche, C. cost., 29 maggio 2019, n. 132,cit. Più che con l’efficienza del processo che è un valore relativo – per cui giustamente si è evidenziato che se non si conosce l’altro estremo della relazione non si può capire rispetto a cosa bisognerebbe tutelare il suddetto valore (A. De Caro, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, cit., p. 297; O. Mazza, Immediatezza e crisi sanitaria, cit., loc. cit.) M. Menna, La “giuria elettiva di esperti” nel processo penale, Torino, 2017) è meglio parlare di un interesse più concretamente apprezzabile – rispetto a cui non far prevalere la dimensione assoluta e dispotica dell’immediatezza.

[17] Sulla terzietà del giudice, vedi, per tutti, M. Tibri, Forma e sostanza in attesa dell’effettività nel processo penale del diritto costituzionale al giudice terzo ed imparziale, in Riv. dir. proc., 2005, p. 306.

[18] In proposito, in altra sede si è sostenuto che la stabilizzazione dell’interpretazione, nei casi che come quello qui considerato palesano un fondo di incertezza assiologica, vada affidata all’organo politico-giurisdizionale che potrebbe denominarsi “giuria elettiva di esperti” (La “giuria elettiva di esperti” nel processo penale, cit., passim).

[19] Sulle varie dimensioni dell’interpretazione cfr., per tutti R. Alexy, Interpretazione giuridica, in Enc. delle scienze sociali, Roma, Treccani, 1996, passim. Sul fatto che la componente sistematica dell’interpretazione non renda la stessa discrezionale, potendola comunque riannodare ad un ragionamento squisitamente deduttivo, cfr. M. Menna, La salvezza dell’interpretazione non discrezionale del giudice dibattimentale attraverso la “giuria elettiva di esperti, loc. cit., passim.

[20] Sull’ammissione della prova, vedi, per tutti, R. Adorno, L’ammissione della prova in dibattimento, Torino, Giappichelli, 2012, passim.

[21] In proposito, a prescindere dalle eccezioni che riguardano l’ambito civilistico, Taruffo chiarisce che non sarebbe sufficiente il ricorso all’”id quod plerumque accidit” per stabilire la possibilità di verifica di un determinato enunciato fattuale perché altrimenti il giudice già formulerebbe un’ipotesi ricostruttiva del fatto ed elaborerebbe un pregiudizio sulla regiudicanda (M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, Giuffrè, 1992, p. 477).

[22] In merito, cfr. M. Menna, sub art. 190, in G. Spangher (a cura di) Atti processuali. Patologie, sanzioni, rimedi, Milanofiori Assago, Wolters Kluwer, 2013, p. 809 ss.

[23] Sul punto M. Menna, Formazione e previsione degli argomenti giustificativi della decisione, cit., loc. cit., passim.

[24] Sul tema M. Menna, Formazione e previsione degli argomenti giustificativi della decisione, cit., loc. cit., passim.

[25] Nel vecchio testo della suddetta lett. e) si faceva riferimento esclusivamente all’indicazione di prove tout court. Solo con la riforma Orlando si è inserito nella norma il cenno ai risultati dell’acquisizione ed ai criteri di valutazione della prova adottati.

[26] Lo si chiarisce in P. Ferrua, Relazione, in AA.VV., Il libero convincimento del giudice penale. Vecchie e nuove esperienze. Atti del convegno (Siracusa 6-8 dicembre 2002), Milano, Giuffrè, 2004, passim.

[27] Cfr., in proposito, M. Menna, Formazione e previsione degli argomenti giustificativi della decisione, cit., loc. cit., passim.

[28] Per questo argomento cfr. M. Menna, La motivazione del giudizio penale, Napoli, Jovene, 2000, passim.

[29] Per una ricostruzione dei poteri probatori del giudice cfr., per tutti, H. Belluta, Imparzialità del giudice e dinamiche probatorie ex officio, Torino, Giappichelli, 2006; L. Caraceni, Poteri di ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale, Milano, Giuffrè, 2007; A. De Caro, Poteri probatori del giudice e diritto alla prova, Napoli, ESI, 2003; T. Rafaraci, La prova contraria, Torino, Giappichelli, 2004; P. Tonini, Iniziativa di ufficio del giudice e onere della prova tra principio di imparzialità e funzione cognitiva del processo penale, in Cass. pen., 2011, p. 2010 ss.; M. Menna, Gli interventi del giudice dibattimentale sull’acquisizione della prova, in Dir. pen. proc., 2007, 705 ss.

[30] In particolare, su siffatta funzione solo negativa – per ipotetica incompatibilità con altre evidenze probatorie – della prova ammessa d’ufficio ai sensi dell’art. 507 c.p.p. cfr. M. Menna, La “giuria elettiva di esperti” nel processo penale, cit., passim.

[31] Sul tipo di contraddittorio che si instaura nel giudizio abbreviato cfr., per tutti V. Maffeo, Il giudizio abbreviato., Napoli, ESI, 2004, passim; L. Suraci, Il giudizio abbreviato, Napoli, Esi, 2008, passim; F. Zacché, Il giudizio abbreviato, Milano, Giuffrè, 2004, passim.

[32] La giurisprudenza non sempre concorda con questa ricostruzione del significato del potere ex art. 441 comma 5 c.p.p.

Ne è un esempio il passo in cui si afferma che il “potere di integrazione probatoria attribuito al giudice dall’art. 441 c.p.p., comma 5, – per il quale quando il giudice ritiene di non potere decidere allo stato degli atti assume, anche, d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione – è preordinato alla tutela dei valori costituzionali che devono presiedere, anche nei giudizi a prova contratta, all’esercizio della funzione giurisdizionale e risponde, pertanto, alle medesime finalità cui è preordinato il potere previsto dall’art. 507 c.p.p. in dibattimento (in materia di giudizio abbreviato “condizionato”: Sez. 5, n. 4648 del 19/12/2005 – dep. 03/02/2006, Simoncelli ed altro, Rv. 233632). Il potere del Tribunale di controllare la completezza del compendio probatorio e di accrescerlo, ove quello raccolto su proposta delle parti sia ritenuto insufficiente, è in linea con la scelta di assegnare al giudice una penetrante e diffusa funzione di controllo dell’esercizio dell’azione penale e del suo sviluppo nel corso della intera progressione processuale. I poteri correlati a tale funzione si rinvengono in tutto il tessuto codicistico, dalla conclusione delle indagini al giudizio di appello” (Cass., sez. II, 15 febbraio 2019, n. 7192, in www.dejure.iusexplorer.it).

[33] Sulla sentenza nel giudizio abbreviato cfr., per tutti, V. Maffeo, Il giudizio abbreviato, cit., passim.

[34] Ci si riferisce, naturalmente, solo al corpo delle critiche che riguardano la perdita – deprecata in dottrina – dell’esperienza solipsistica ed intima dell’avvenimento probatorio da parte del giudice in caso di mancata rinnovazione dell’escussione della fonte e di sostituzione della medesima con l’impiego del verbale.

Tra i critici, cfr.: P. Ferrua, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, loc. cit.; O. Mazza, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, cit., loc. cit.; D. Negri, La Corte costituzionale mira a squilibrare il “giusto processo” sulla giostra dei bilanciamenti, cit., loc. cit.; A. De Caro, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, cit., loc. cit.

[35] C. cost., 29 maggio 2019, n. 132, cit., loc. cit.

[36] O. Mazza, tra gli altri, chiarisce che per le Sezioni unite della Corte di cassazione è richiesto un “novum” come presupposto della rinnovazione istruttoria ex art. 525 c.p.p. (Immediatezza e crisi sanitaria, cit., loc. cit.).

[37] Cass., Sez. un. 10 ottobre 2019, n. 41736, cit.

[38] Cass., Sez. un. 10 ottobre 2019, n. 41736, cit.

[39] Cass., Sez. un. 10 ottobre 2019, n. 41736, cit. Tra i critici di questo aggancio al criterio della decisività A. De Caro, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, cit., p. 301 e P. Ferrua, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, cit., p. 2.

[40] Cass., Sez. un. 10 ottobre 2019, n. 41736, cit., loc. cit.

Fascicolo 5 - 2021