L’autrice analizza un recente arresto della Corte di Cassazione, in tema di libertà vigilata con prescrizione dell’obbligo di non allontanarsi da una comunità di recupero senza preventiva autorizzazione del giudice o dei sanitari responsabili, nel quale si afferma l’illegittimità di tale prescrizione, perché determina una sostanziale trasfigurazione della libertà vigilata in misura detentiva, attesa la necessità di un’autorizzazione discrezionale, che priva il destinatario della possibilità di movimento.
The author critically analyzes a recent decision of the Supreme Court concerning the legitimacy of the security measure of probation with the obligation not to leave the recovery community without the prior authorization of the judge or the responsible health professionals, in which it is stated that the illegality of this prescription as it produces a substantial transfiguration of probation into a custodial measure.
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«In tema di libertà vigilata con obbligo di dimora presso una struttura sanitaria, il destinatario non è tenuto a fare espressa richiesta di allontanamento temporaneo al giudice o ai sanitari, atteso che la libertà vigilata non è una misura detentiva. Se caratterizzata dall’indefettibilità della richiesta di allontanamento, ad avviso della Suprema Corte, la misura è illegittima, in quanto si snatura la libertà vigilata, che diventa sanzione detentiva (fattispecie in tema di imputato di stalking nei confronti di moglie e figlia, con prescrizione di divieto assoluto di allontanamento dalla comunità terapeutica, se non previa autorizzazione del giudice o dei sanitari)». Accertato il fatto previsto e punito dall’art. 612-bis c.p., rubricato “atti persecutori”, all’imputato veniva applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata (art. 228 c.p.), con obbligo di dimora presso una comunità di recupero, al fine di cominciare un programma terapeutico. Per allontanarsi temporaneamente dalla struttura, costui doveva superare il vaglio discrezionale del giudice o dei sanitari. A fronte di queste “prescrizioni”, in quanto ostative della libertà di movimento, il difensore dell’imputato sollecitava la modifica delle modalità di esecuzione della misura, con richiesta rigettata sia in primo grado (dal Gip del Tribunale di Avellino), sia in appello (dal Tribunale della Libertà di Napoli). L’approdo in Cassazione è caratterizzato da due contestazioni: l’incompatibilità delle prescrizioni a corredo della misura con la natura non detentiva della libertà vigilata (nella specie ed in concreto, a detta del difensore dell’imputato, la natura non detentiva della misura di sicurezza risulterebbe palesemente violata dall’obbligo del ricorrente di non allontanarsi, neanche temporaneamente, dalla comunità, se non previa autorizzazione del Giudice o dei sanitari della struttura); l’impossibilità empirica di allontanamento dalla comunità terapeutica, in considerazione dell’ubicazione isolata di quest’ultima. Dichiarata l’infondatezza della seconda censura, il Supremo Collegio ha ribadito l’orientamento ormai consolidato sulle prescrizioni in materia di libertà vigilata, che non [continua ..]
L’iter logico-argomentativo seguito dalla Suprema Corte sviluppa un tema nodale della misura di sicurezza della libertà vigilata: le modalità di esecuzione congruenti con la sua natura non detentiva. In Cassazione si ribadisce che questo strumento deve puntare agli obiettivi tipici dell’istituto senza avvalersi di prescrizioni con esso incompatibili. In estrema sintesi, la decisione in commento tocca punti forieri di spunti critici e risulta al tempo stesso alimento di perplessità giuridiche. Certamente si tratta di una sentenza che, se da un lato non offre novità quanto alla natura non detentiva delle misure di sicurezza, dall’altro offre il pregio della cristallizzazione – a baluardo della garanzia – di una natura giuridica dai contorni tanto “scoloriti”, quanto dibattuti.
Nell’impianto del Codice Rocco, la misura di sicurezza della libertà vigilata è strumento di difesa sociale, secondo un’idea di prevenzione della criminalità orientata sull’autore piuttosto che sul fatto; com’è noto, la prevenzione, che è funzione tipica del diritto penale [1], si specifica, nelle misure di sicurezza, secondo l’elaborazione lombrosiana [2]. All’istituto è consegnato il compito della neutralizzazione del reo (amplius, delle cause che costituiscono, per la Scuola Positiva [3], l’antecedente senza il quale il reato non si sarebbe realizzato in rerum natura [4]), secondo la primazia di un’esigenza di tutela della società che prescinde dal fatto commesso [5]. Due approcci al tema della criminalità, delle sue cause e dei suoi rimedi, si declinano nel c.d. doppio binario [6] sanzionatorio, che nel parallelismo riconosce anzitutto l’alterità dell’istituto rispetto alla tradizionale sanzione penale [7]: concetti agli antipodi, sicché i binari risultano paralleli su diversi fronti [8]. Alle misure di sicurezza compete il trattamento del reo [9], con conseguente attinenza alla pericolosità del destinatario [10], secondo l’esortazione dottrinale: «…finché persiste il pericolo, persiste la difesa…” [11], che si declina ulteriormente in un discusso e discutibile profilo prognostico, rappresentato dal giudizio sulla probabilità di recidiva [12].
Protagonista indiscussa della sentenza in commento è la libertà vigilata, di cui all’art. 228 c.p., come limitazione della libertà personale realizzata mediante un complesso di prescrizioni [13], a contenuto positivo o negativo. In questa cornice regna la discrezionalità del giudice, esercitata sulla base delle caratteristiche del caso concreto, in mancanza di indicazioni codicistiche tassative [14] quanto alle misure utili a impedire il compimento di nuovi reati e a facilitare il reinserimento sociale del reo [15], ma in presenza di un limite negativo certo: “senza intaccarne la libertà di movimento”, il che discende ab imis dalla classificazione, rispetto al binomio codicistico tra misure di sicurezza di natura “detentiva” e “non detentiva” [16]. Com’è noto, l’istituto si caratterizza per la finalità di porre il reo in condizione di condurre una vita priva di occasioni per delinquere [17]. Meglio, la misura [18] è difesa sociale tramite prescrizioni che limitano la libertà del soggetto, ostacolato nel nuocere alla società (commettendo nuovi reati), e aiutato nel recuperare la propria appartenenza alla collettività, supportato (anche) dall’assistenza ad opera del servizio sociale. Nell’attualità, le criticità applicative discendono dall’apposizione e dalla disciplina delle prescrizioni [19], piegate alla logica del controllo “ossessivo” e continuativo di persone della cui rieducazione è particolarmente lecito dubitare [20]. Pochi margini, quindi, per quello che, invece, doveva considerarsi il fine primario: agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale (art. 190, comma 6, disp. att. c.p.p.). La sentenza annotata si inserisce nel solco tracciato da tempo a piazza Cavour: stante il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., il giudice non può imporre prescrizioni, che, in qualche modo, possano snaturare il carattere “non detentivo” della misura (fattispecie in cui la Suprema Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva confermato la misura provvisoria di sicurezza della libertà vigilata con ricovero presso una comunità terapeutica) [21]; il giudice può imporre la [continua ..]