Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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La Corte costituzionale e i nuovi limiti ai poteri d'appello del pubblico ministero (di Natalia Rombi, Ricercatrice di Diritto processuale penale -  Università di Udine)


La Consulta ha riconosciuto la legittimità costituzionale dell’art. 593 comma 1 c.p.p. nella parte in cui prevede che il pubblico ministero non possa appellare le sentenze di condanna a meno che esse non modifichino il titolo del reato o escludano la sussistenza di una circostanza a effetto speciale o stabiliscano una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

La pronuncia ripropone gli argomenti di una consolidata giurisprudenza costituzionale: non occorre che vi sia una assoluta simmetria tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato, considerate le differenze strutturali che connotano le rispettive posizioni, piuttosto è necessario che la differente modulazione delle prerogative riconosciute alle due parti appaia sorretta da una ragionevole giustificazione. L’analisi della pronuncia fornisce l’occasione per riflettere sulle novità introdotte dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 e sulla capacità delle stesse di incidere sui limiti che ancora caratterizzano la disciplina del giudizio d’appello.

The constitutional Court and the new limits on the appellate powers of the public prosecutor

The constitutional Court recognized the constitutional legitimacy of art. 593 paragraph 1 of the criminal code in the part in which it provides that the public prosecutor cannot appeal the sentences of conviction unless they change the title of the crime or exclude the existence of a special effect circumstance or establish a penalty of a different kind from the ordinary crime. The ruling repeats the arguments of a consolidated constitutional jurisprudence: rather than absolute symmetry between the powers of the prosecutor and those of the accused, the different modulation of the recognized prerogatives of the two sides must be supported by a reasonable justification. The analysis of the pronunciation provides an opportunity to reflect on the innovations introduced by Legislative Decree 6th February 2018, n. 11 and their ability to affect the limits that characterize the discipline of the appeal judgment.

Legittime le limitazioni all’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p. come sostituito dall’art. 2 comma 1 lettera a) del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11, recante «Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103» sollevate in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 della Costituzione, nella parte in cui prevede che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

[Omissis]

 

RITENUTO IN FATTO

1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2019, la Corte d’appello di Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11, recante «Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103», nella parte in cui prevede che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

1.1.– La Corte rimettente premette di essere investita, in grado di appello, del processo nei confronti di una persona imputata del delitto di cui all’art. 570, secondo comma, del codice penale (violazione degli obblighi di assistenza familiare), per aver omesso ripetutamente di corrispondere al coniuge separato l’assegno mensile per il mantenimento del figlio minore, facendo mancare così a quest’ultimo i mezzi di sussistenza.

Riferisce il giudice a quo che, con sentenza del 7 maggio 2018, il Tribunale ordinario di Patti aveva condannato l’imputato alla pena, condizionalmente sospesa, di un mese di reclusione e 500 euro di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, da liquidare in separato giudizio.

Contro la sentenza ha proposto appello il Procuratore generale della Repubblica, contestando la quantificazione della pena, la concessione del beneficio della sospensione condizionale e la mancata liquidazione del danno in favore della parte civile. Secondo l’appellante, la pena inflitta dal primo giudice, prossima al minimo edittale, risulterebbe inadeguata per difetto rispetto alla gravità del fatto, stante il profondo disinteresse manifestato dall’imputato nei confronti del figlio. A torto, inoltre, sarebbe stata concessa la sospensione condizionale, dato che la protratta «insensibilità» ai doveri di padre non consentirebbe di ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.

La mancata liquidazione del danno in favore della parte civile tradirebbe, infine, le finalità della costituzione di parte civile nel processo penale, costringendo la persona offesa a intraprendere un ulteriore giudizio davanti al giudice civile per il ristoro dei danni.

Nel proporre il gravame, il Procuratore generale ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 11 del 2018, nella parte in cui prevede che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

Ad avviso dell’appellante, la disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., per ragioni analoghe a quelle indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 2007, con riferimento alle modifiche introdotte dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento). Il vulnus al potere di impugnazione del pubblico ministero recato dal d.lgs. n. 11 del 2018 è, di per sé, inferiore a quello inferto dalla citata legge, oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale: la parte pubblica conserva, infatti, il potere appellare le sentenze di assoluzione, venendogli impedito solo l’appello contro le sentenze di condanna. Nella sostanza, tuttavia, la differenza risulterebbe «esigua quantitativamente ed inesistente qualitativamente». In molti casi, infatti, la condanna potrebbe essere talmente ingiusta, per l’esiguità della pena inflitta, da «somigliare moltissimo» a una assoluzione, tanto da determinare l’assurdo per cui l’im­pu­tato dovrebbe sperare di essere condannato a una pena particolarmente tenue, piuttosto che di essere assolto.

La Procura generale denuncia, altresì, la violazione dell’art. 97 Cost., rilevando come la limitazione del potere di impugnazione del pubblico ministero non raggiunga l’obiettivo di rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia, riducendo il numero degli appelli. Le impugnazioni della parte pubblica investono, infatti, solo una percentuale assolutamente esigua delle sentenze di primo grado, laddove, invece, l’imputato può sempre appellarle in regime di divieto di reformatio in peius.

Avverso la sentenza del Tribunale ordinario di Patti ha proposto appello anche l’imputato, lamentando che il primo giudice, nel ritenere integrata l’ipotesi criminosa contestata, abbia fatto malgoverno delle risultanze processuali e che, in ogni caso, non abbia riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e, conseguentemente, irrogato una pena inferiore.

1.2.– Ad avviso della Corte rimettente, le questioni di legittimità costituzionale prospettate dal Procuratore generale della Repubblica sarebbero rilevanti e non manifestamente infondate.

A fronte dei limiti posti dal novellato art. 593 cod. proc. pen., esso giudice a quo, in presenza del­l’ap­pello dell’imputato, potrebbe conoscere anche del gravame del pubblico ministero ai sensi dell’art. 580 cod. proc. pen., ma «dovrebbe comunque valutarlo come ricorso per cassazione e dichiararlo inammissibile». Il Procuratore generale, infatti, non ha prospettato alcuna violazione di legge, ma ha dedotto unicamente profili di merito, quali la quantificazione della pena e l’errata effettuazione della prognosi rilevante ai fini della concessione della sospensione condizionale.

Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni.

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte messinese osserva come dalla giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra le parti processuali emerga il principio in forza del quale, esclusa l’esigenza di una totale sovrapposizione dei poteri dell’accusa e della difesa, la parità tra le stesse può essere, tuttavia, alterata solo nel rispetto del parametro della ragionevolezza.

Nella sentenza n. 26 del 2007 la Corte costituzionale ha, in particolare, affermato che il principio di parità delle parti rappresenta un connotato essenziale dell’intero processo, e non già una garanzia riferita al solo procedimento probatorio. Pertanto, anche eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbono risultare «sorrette da una ragionevole giustificazione».

Nella medesima sentenza, la Corte costituzionale ha pure escluso che l’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero possa ritenersi compensata dall’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione, all’epoca operato dalla legge n. 46 del 2006: e ciò non solo perché tale ampliamento va a favore di entrambe le parti, e non soltanto del pubblico ministero, ma anche e soprattutto perché il rimedio del ricorso per cassazione non attinge, comunque sia, alla pienezza del riesame di merito consentito dall’appello.

Nel caso oggi in esame, la limitazione dei poteri di appello impedirebbe in radice al pubblico ministero di contestare l’irrogazione di una pena che, per quanto rientrante nella cornice edittale, si ponga in contrasto con i parametri di cui all’art. 133 cod. pen., apparendo del tutto inadeguata rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del reo. Tale questione, investendo il merito della decisione, non potrebbe essere, infatti, mai prospettata con il ricorso per cassazione.

In pratica, mentre all’imputato è consentito proporre appello contro qualsiasi decisione che ritenga non pienamente satisfattiva, la norma censurata darebbe per scontata l’assenza dell’interesse del pubblico ministero a impugnare una sentenza di condanna, a prescindere dal suo contenuto concreto.

Tale alterazione della parità delle parti non potrebbe trovare giustificazione nell’esigenza di contenere la durata del processo, riducendo il numero degli appelli. Dall’analisi di impatto della regolamentazione che accompagnava lo schema originario del d.lgs. n. 11 del 2018 emerge, infatti, che nell’anno 2016, su un totale di 130.536 appelli, il procuratore della Repubblica ne aveva proposti solo l’1,4 per cento e il procuratore generale solo il 4,9 per cento.

La dissimmetria tra le parti processuali non sarebbe resa ragionevole dal fatto che la disposizione denunciata consente al pubblico ministero di proporre appello quando il primo giudice escluda una circostanza aggravante a effetto speciale: ciò, specie ove si consideri che, «in ipotesi del tutto sovrapponibili, l’appello sarebbe comunque possibile». Nel caso di esclusione di un’aggravante comune che determini la procedibilità a querela del reato, la parte pubblica potrebbe, infatti, proporre appello contro la sentenza di non doversi procedere.

Né sarebbe ragionevole discriminare l’appellabilità della sentenza secondo che essa abbia proceduto, o no, a una diversa qualificazione giuridica del fatto, posto che in questo modo si consente il gravame anche in ipotesi nelle quali tale operazione non ha alcuna conseguenza sul piano sanzionatorio (come, ad esempio, nel caso di mutamento del titolo del reato da truffa in insolvenza fraudolenta o appropriazione indebita, reati tutti con cornici edittali similari).

Limitare a un solo grado di giudizio la quantificazione della pena, escludendo ogni possibilità di verifica anche a fronte di pene manifestamente irrisorie in rapporto alla gravità del fatto e alla personalità dell’imputato, contrasterebbe, peraltro, anche con l’art. 27 Cost., rendendo insindacabili decisioni del tutto inidonee a realizzare la finalità rieducativa della pena.

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.– La Corte d’appello di Messina dubita della legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11, recante «Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione

in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103», nella parte in cui prevede che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

Ad avviso della Corte rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3 e 111 della Costituzione, per contrasto con il principio di parità delle parti. Essa introdurrebbe una menomazione del potere di impugnazione del pubblico ministero, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, priva di ragionevole giustificazione e tale da precludere alla pubblica accusa ogni possibilità di contestare l’ir­ro­ga­zione di pene manifestamente inadeguate rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del reo. Simili questioni non potrebbero essere, infatti, prospettate con il ricorso per cassazione, in quanto involventi un giudizio di merito. Risulterebbe violato anche l’art. 97 Cost. La limitazione censurata risulterebbe, infatti, inidonea a realizzare l’obiettivo di rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia tramite la riduzione del numero degli appelli, dato che gli appelli proposti dal pubblico ministero rappresentano solo una minima percentuale del totale.

La norma denunciata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 27 Cost., giacché l’esclusione di qualsiasi possibilità di verifica sulla sanzione inflitta in primo grado, anche quando appaia palesemente irrisoria rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del reo, comprometterebbe la realizzazione della finalità rieducativa della pena.

2.– Le questioni non sono fondate.

3.– Non è riscontrabile, anzitutto, la dedotta violazione del principio di parità delle parti processuali: principio che il rimettente fa discendere congiuntamente dagli artt. 3 e 111 Cost., ma che trova attualmente il suo referente più immediato nella specifica previsione dell’art. 111, secondo comma, Cost.

3.1.– Come questa Corte ha posto più volte in evidenza, tale ultima disposizione, introdotta dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) – nello stabilire che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» – ha conferito veste autonoma a un principio, quello appunto di parità delle parti, che era «pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali» (sentenza n. 26 del 2007, ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).

In simile linea di continuità, è costante, nella giurisprudenza di questa Corte – tanto anteriore, quanto successiva alla citata novella costituzionale – l’affermazione per cui, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» (sentenze n. 320, n. 26 del 2007 e, nello stesso senso, n. 298 del 2008; ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001; quanto alla giurisprudenza anteriore alla legge cost. n. 2 del 1999, nello stesso senso indicato, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992).

Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali. Le differenze che connotano le rispettive posizioni, «correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse

sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis,

quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) – entro i limiti della ragionevolezza» (sentenza n. 26 del 2007).

3.2.– In tale quadro, un discorso particolare va, peraltro, fatto con riguardo alla disciplina delle impugnazioni.

Sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 274 e n. 242 del 2009, n. 298 del 2008, n. 26 del 2007, n. 288 del 1997, n. 280 del 1995; ordinanze n. 316 del 2002 e n. 421 del 2001), questa Corte ha posto in evidenza come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti «margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato» (sentenza n. 26 del 2007). Il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere, infatti, configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 183 del 2017, n. 242 del 2009, n. 298 del 2008 e n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003 e n. 347 del 2002); quando, invece, sull’altro fronte, il potere di impugnazione dell’imputato si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso (sentenze n. 274 del 2009, n. 26 del 2007 e n. 98 del 1994).

Non è senza significato, d’altronde, che, a livello sovranazionale, l’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, prevedano il diritto a far riesaminare la decisione da una giurisdizione superiore, o di seconda istanza, solo a favore della persona dichiarata colpevole o condannata per un reato: dunque, esclusivamente a favore dell’imputato, senza far menzione del pubblico ministero.

3.3.– Degli enunciati dianzi ricordati questa Corte ha fatto ripetute applicazioni, in rapporto al mutevole assetto della disciplina della materia. L’art. 593 cod. proc. pen. prevedeva, in origine, la generale appellabilità – da entrambe le parti – delle sentenze di condanna e di proscioglimento, salvo il limite derivante dalla necessità che l’appellante avesse interesse all’impugnazione (donde la sancita inappellabilità, da parte dell’imputato, delle sentenze di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto). La regola soffriva solo circoscritte eccezioni, ispirate nel loro insieme a finalità di economia, rispetto ai tempi e alla complessità dell’accertamento penale. Tra esse, assume specifico rilievo, ai presenti fini, quella stabilita dall’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., per cui il pubblico ministero non poteva – e non può – proporre appello contro le sentenze di condanna emesse in esito al giudizio abbreviato, salvo che modifichino il titolo del reato. Si tratta di previsione limitativa che questa Corte – sia prima, sia dopo la modifica dell’art. 111 Cost. – ha costantemente reputato legittima, al contrario di quanto era avvenuto per la speculare limitazione posta a carico dell’imputato dal comma 2 dello stesso art. 443 cod. proc. pen., con riguardo alle sentenze di condanna a pena che non deve essere eseguita (limitazione ritenuta priva di un fondamento ragionevolmente commisurato all’entità della compressione apportata al diritto di difesa: sentenza n. 363 del 1991).

Si è, infatti, rilevato come la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano «comunque la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l’azione intrapresa» – essendo lo scarto tra la richiesta dell’accusa e la sentenza sottratta all’appello non di ordine «qualitativo», ma meramente «quantitativo» – risultasse razionalmente giustificabile alla luce dell’«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta» (sentenza n. 363 del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991; si veda pure la sentenza n. 98 del 1994): rito che – sia pure per scelta esclusiva dell’imputato, dopo le modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense) – «implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).

3.4.– Lo scenario muta radicalmente con la legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento). Sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., la legge di riforma introduce una nuova regola generale: quella dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per il caso – del tutto marginale – in cui sopravvengano o si scoprano nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado.

La nuova regola viene dichiarata, tuttavia, costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 26 del 2007 di questa Corte, nella parte in cui menoma il potere di gravame del pubblico ministero: pronuncia che l’odierno rimettente pone a base delle proprie doglianze. In essa si rileva come la novella legislativa fosse foriera di una dissimmetria «radicale».

Diversamente dall’imputato – che manteneva inalterato il contrapposto potere di appello avverso le sentenze di condanna – il pubblico ministero veniva, infatti, privato del potere di proporre doglianze di merito contro le decisioni che disattendessero totalmente la pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa. La dissimmetria era, al tempo stesso, «generalizzata» – riguardando tutti i processi, compresi quelli per i delitti più gravi e di maggior allarme sociale – nonché «“unilaterale”», ossia priva di qualsiasi “contropartita”, a differenza della ricordata limitazione prevista in rapporto al giudizio abbreviato, nel quale l’imputato rinuncia all’esercizio di proprie facoltà, così da permettere una più celere definizione del processo. Una dissimmetria di tale consistenza – conclude la sentenza n. 26 del 2007 – non poteva essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità, sulla base delle rationes poste a fondamento ella riforma: talune delle quali apparivano, peraltro, intrinsecamente opinabili (asserita impossibilità, dopo il proscioglimento in primo grado, di considerare l’imputato colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio»; pretesa necessità di adeguare l’ordinamento interno vigente alle norme internazionali richiamate al punto 3.2 che precede). La ratio residua – evitare che la decisione assolutoria del giudice di primo grado, che ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, venga ribaltata da un giudice che, come quello di appello, ha una cognizione prevalentemente “cartolare” del materiale probatorio – risultava, comunque sia, inidonea a legittimare la soluzione adottata dal legislatore. Il rimedio a un deficit delle garanzie che assistono una delle parti va rinvenuto in soluzioni che emendino quel difetto, e non già in una eliminazione di poteri della parte contrapposta che generi un radicale squilibrio tra le rispettive posizioni (in questa direzione si muoverà poi, in effetti, tramite la previsione di un obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale davanti al giudice di appello, l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 1, comma 58, della legge 23 giugno 2017, n. 103, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario»). Nella sentenza n. 26 del 2007 non si manca, peraltro, di porre in evidenza come la novella del 2006 avesse determinato anche una intrinseca incoerenza del sistema. Il pubblico ministero restava, infatti, privo del potere di appello allorché la pretesa punitiva azionata fosse stata integralmente respinta (sentenza di proscioglimento), mentre lo conservava allorché le sue richieste fossero state disattese solo in parte (come nel caso di condanna a pena ritenuta non congrua). Ulteriori declaratorie di illegittimità costituzionale hanno poi investito altri segmenti della riforma del 2006: in specie, l’esclusione dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato (sentenza n. 320 del 2007) e le preclusioni all’appello avverso le sentenze di proscioglimento stabilite nei confronti dell’imputato, i cui interessi possono essere gravemente pregiudicati da talune delle formule assolutorie (quale, tipicamente, l’assoluzione per vizio totale di mente) (sentenze n. 274 del 2009 e n. 85 del 2008).

Questa Corte ha ritenuto, invece, compatibili con il principio di parità delle parti due innovazioni “collaterali” pure introdotte dalla legge n. 46 del 2006: l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento del giudice di pace, la quale investe solo una circoscritta fascia di reati di ridotta gravità e si innesta su un modulo processuale improntato a snellezza e rapidità (sentenza n. 298 del 2008), e l’inap­pel­la­bi­li­tà delle sentenze di non luogo a procedere emesse a conclusione dell’udienza preliminare, posto che an­che l’epilogo ad esse alternativo (ossia il rinvio a giudizio) non è impugnabile da alcuno e il pubblico ministero fruisce, a certe condizioni, della possibilità di chiedere in ogni tempo la revoca delle sentenze stesse (sentenza n. 242 del 2009).

3.5.– È su questo quadro che si innesta il d.lgs. n. 11 del 2018.

Il decreto reca disposizioni di modifica della disciplina dei giudizi di impugnazione, in attuazione della delega legislativa conferita dalla legge n. 103 del 2017 (art. 1, commi 82, 83 e 84, lettere f, g, h, i, l e m): legge che contiene, peraltro, anche disposizioni di applicazione immediata in materia. Come emerge in modo univoco dai lavori parlamentari relativi alla legge delega e dalla relazione allo schema di decreto delegato, obiettivo fondamentale della riforma è la deflazione e la semplificazione dei processi, nell’ottica di garantirne la ragionevole durata. In tale prospettiva, una specifica attenzione viene dedicata al giudizio di appello, il quale – per l’elevato carico di lavoro delle corti d’appello e la sua lunghezza – è da tempo additato come uno dei segmenti processuali più critici, sul piano dell’efficienza della giustizia penale.

Tra le misure intese a realizzare l’obiettivo vi è anche quella che dà origine all’odierno incidente di costituzionalità: ossia la riduzione dell’area oggettiva di fruibilità del gravame. Vi provvede, in specie, l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 11 del 2018, modificando nuovamente l’art. 593 cod. proc. pen. in ossequio alle direttive – peraltro molto puntuali – di cui all’art. 1, comma 84, lettere h) e i), della legge n. 103 del 2017.

Per quanto qui interessa, la disposizione novellata tiene fermo il potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, ripristinato dalla sentenza n. 26 del 2007 (art. 593, comma 2, cod. proc. pen., come novellato). Introduce, però, un inedito limite generale all’appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna: il gravame è ammesso solo quando tali sentenze «modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato» (nuovo art. 593, comma 1, cod. proc. pen.).

La riforma estende, in sostanza, al giudizio ordinario il limite già previsto in rapporto al giudizio abbreviato (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.), attenuandone i contenuti. L’appello è, infatti, consentito non solo – come nel rito speciale – quando vi sia stata una modifica del titolo del reato, ma anche in altre ipotesi nelle quali le determinazioni del giudice «incidono in maniera significativa

sulla prospettazione accusatoria» (in questi termini, la relazione ministeriale): ipotesi identificate, per l’appunto, nell’esclusione di aggravanti a effetto speciale e nell’applicazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

3.6. – Non è dubbio che la previsione in parola – contro la quale si dirigono le censure del giudice a quo – generi una dissimmetria tra le parti. Essa sottrae, infatti, al pubblico ministero il potere di formulare censure di merito in rapporto a tutta una serie di profili, direttamente o indirettamente attinenti alla determinazione del trattamento sanzionatorio: la quantificazione della pena entro la cornice edittale, l’esclusione di aggravanti comuni o concessione di attenuanti, il bilanciamento tra circostanze, l’applicazione dell’istituto della continuazione, la concessione di benefici (quale la sospensione condizionale, come nel caso oggetto del giudizio a quo), e così via dicendo.

Sul versante opposto, l’imputato conserva invece, come regola generale – oltre al potere di appellare, senza limiti, le sentenze di condanna – anche quello di appellare le sentenze di proscioglimento, con la sola eccezione delle sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso (art. 593, comma 2, cod. proc. pen.).

Tale eccezione – già contemplata dalla norma originaria del codice di rito – non vale, di per sé, a riequilibrare la posizione delle parti (come pure sembra supporre la relazione allo schema di decreto), attenendo a sentenze di assoluzione con formula ampiamente liberatoria, rispetto alle quali può presumersi carente lo stesso interesse dell’imputato a impugnare, che condiziona l’ammissibilità del gravame (art. 568, comma 4, e 591, comma 1, lettera a, cod. proc. pen.).

Si è obiettato che ciò non varrebbe quando l’assoluzione sia pronunciata per insussistenza di sufficienti elementi di prova (art. 530, comma 2, cod. proc. pen.). In tal caso, infatti, secondo un consolidato indirizzo della Corte di cassazione civile, la sentenza penale resterebbe priva di effetti preclusivi nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari, ai sensi degli artt. 652, 653 e 654 cod. proc. pen. (tra le ultime, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 15 giugno 2018, n. 11791; sezione terza civile, sentenza 21 aprile 2016, n. 8035): con la conseguenza che l’imputato avrebbe interesse ad appellare al fine di ottenere un riconoscimento “pieno” della propria innocenza, che gli consenta di avvalersi degli effetti extrapenali della pronuncia assolutoria.

Ma ammesso pure che la conclusione sia valida – la giurisprudenza penale predominante resta, in effetti, attestata su posizioni opposte (tra le ultime, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 11 settembre-29 ottobre 2018, n. 49554; sezione terza penale, sentenza 15 settembre-2 dicembre 2016, n. 51445) – la limitazione del potere di appello dell’imputato risulterebbe, comunque sia, nettamente meno significativa di quella che sconta il pubblico ministero.

3.7.– In questo caso, tuttavia, si tratta di dissimmetria che – alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, in precedenza ricordati (punti 3.1 e 3.2 del Considerato in diritto) – non deborda dall’alveo della compatibilità con il principio di parità delle parti.

La limitazione del potere di appello della parte pubblica persegue, infatti, l’obiettivo – di rilievo costituzionale (art. 111, secondo comma, Cost.) – di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d’appello.

A differenza di quella introdotta dalla legge n. 46 del 2006, la preclusione riguarda, d’altro canto, sentenze che hanno accolto, nell’an, la “domanda di punizione” proposta dal pubblico ministero e che non hanno, altresì, inciso in modo significativo sulla prospettazione accusatoria (mutando la qualificazione giuridica del fatto, escludendo aggravanti a effetto speciale o applicando una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato). Essa risulta, quindi, contenuta e non sproporzionata rispetto all’obiettivo.

In un sistema ad azione penale obbligatoria, non può ritenersi, infatti, precluso al legislatore introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale intesi ad assicurare la ragionevole durata dei processi e l’efficienza del sistema punitivo. In quest’ottica, non può considerarsi irragionevole che, di fronte al soddisfacimento, comunque sia, della pretesa punitiva, lo Stato decida di rinunciare a un controllo di merito sul quantum della sanzione irrogata.

Che poi il “peso” della rinuncia venga a gravare solo sul pubblico ministero, senza che sia prefigurata una contrapposta limitazione, di analogo spessore, dal lato dell’imputato, rientra nella logica della diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art. 112 Cost. – e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell’imputato.

Né può ritenersi significativa, in senso contrario, la circostanza che, nel frangente, discutendosi del giudizio ordinario, manchi una specifica “contropartita” in termini di rinuncia dell’imputato all’esercizio di proprie facoltà e di correlato “privilegio” del pubblico ministero sul piano probatorio, quale quella riscontrabile nell’ambito del giudizio abbreviato. L’esistenza di una simile “contropartita” è stata evocata, bensì, da questa Corte come fattore che concorre a giustificare la limitazione al potere di appello della parte pubblica previsto dall’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. Ma ciò non vuol dire che essa rappresenti una condizione imprescindibile – l’unica condizione – per il riconoscimento della legittimità costituzionale di dissimmetrie tra le parti in subiecta materia, come attesta, ad esempio, la decisione che ha ritenuto legittima l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento del giudice di pace (sentenza n. 298 del 2008).

Non si può trascurare, d’altro canto, il fatto che, in altre fasi del procedimento, è il pubblico ministero a fruire di una posizione di indubbio vantaggio: come nella fase delle indagini preliminari, ove la ricchezza degli strumenti investigativi a disposizione dell’organo dell’accusa, anche sul piano del carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati atti di indagine, non trova un riscontro paragonabile dal lato della difesa.

Quanto, poi, alla denunciata inidoneità della norma censurata a realizzare gli obiettivi di economia processuale e di deflazione che la ispirano, è vero che – alla luce dei dati esposti nella stessa analisi di impatto della regolamentazione che accompagna lo schema originario del decreto legislativo – gli appelli del pubblico ministero contro le sentenze di condanna rappresentano, statisticamente, una percentuale assai modesta del numero totale degli appelli. Così come è vero che le sentenze di condanna vengono assai spesso appellate (anche) dall’imputato (com’è del resto avvenuto nel giudizio a quo): evenienza nella quale l’esclusione del gravame dell’accusa non vale a evitare lo svolgimento del giudizio di appello, ma si limita ad “alleggerire” il thema decidendum rimesso all’esame del giudice superiore. Di là, peraltro, dal rilievo che un discorso similare si sarebbe potuto fare anche in rapporto all’omologa limitazione prevista per il giudizio abbreviato – che questa Corte ha ritenuto, nonostante ciò, legittima – va rilevato come l’effetto deflattivo prodotto dalla norma censurata, per quanto circoscritto, è destinato a cumularsi, negli intenti del legislatore, a quello delle altre misure poste in campo dalla riforma: quali la previsione (con riguardo alla generalità delle impugnazioni) dell’onere di specifica enunciazione dei motivi, a pena di inammissibilità (art. 581 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1, comma 55, della legge n. 103 del 2017), la reintroduzione dell’istituto del concordato sui motivi di appello (art. 599-bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 1, comma 56, della legge n. 103 del 2017) o la previsione che il procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello possa appellare solo nei casi di avocazione o di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado, così da evitare una duplicazione di impugnative in capo alla medesima parte (art. 593-bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 3 del d.lgs. n. 11 del 2018).

Sotto altro profilo, la disposizione denunciata – diversamente dalla disciplina introdotta dalla legge n. 46 del 2006 – non è neppure foriera di incongruenze o scompensi sul piano sistematico, tale da farla apparire intrinsecamente irragionevole. Per un verso, infatti, l’esclusione dell’appello è riferita alle pronunce che presentano lo scarto meno significativo rispetto alle richieste dell’accusa (non sull’an della responsabilità dell’imputato, ma solo sul quantum della pena inflitta), anziché il contrario. Per altro verso, poi, il limite al potere di appello della parte pubblica, stabilito dalla disposizione stessa in rapporto al giudizio ordinario, risulta, comunque sia, meno ampio di quello previsto in rapporto al giudizio abbreviato.

Con riguardo, infine, al timore – espresso dal giudice a quo – che la previsione limitativa in esame impedisca in radice all’accusa di reagire all’irrogazione di pene macroscopicamente inadeguate per difetto alla gravità del fatto e alla personalità del suo autore, giova soggiungere che il pubblico ministero resta pur sempre abilitato ad attivare il controllo della Corte di cassazione sulla «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione» che sorregge il dosaggio della pena, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. Tale controllo, se pure certamente «non attinge […] alla pienezza del riesame di merito, consentito dall’appello» (sentenza n. 26 del 2007), può valere, comunque sia, nei limiti della disciplina del ricorso immediato, a porre rimedio a ipotesi di incongruenza estrema o manifesta della quantificazione del trattamento sanzionatorio, quali quelle ventilate dal giudice rimettente.

4.– Infondata è anche la censura di violazione del principio del buon andamento (art. 97 Cost.), che il giudice a quo riconnette all’asserita inidoneità della norma censurata a conseguire risultati apprezzabili, in termini di miglioramento dell’efficienza dell’amministrazione della giustizia, riducendo il numero degli appelli.

Di là da quanto osservato in precedenza, è dirimente al riguardo il rilievo che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il principio in parola è «riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale» (ex plurimis, sentenze n. 90 del 2019, n. 91 del 2018, n. 44 del 2016 e n. 66 del 2014): attività alla quale, per converso, pertiene la disposizione sottoposta a scrutinio.

5.– Parimente infondata è la conclusiva censura di compromissione della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.): parametro che già in una precedente occasione questa Corte ha ritenuto non pertinente alla tematica della limitazione dei poteri di appello del pubblico ministero (sentenza n. 363 del 1991). A prescindere da ogni altra considerazione, non è possibile ritenere che la funzione rieducativa della pena postuli imprescindibilmente che sia assicurato un controllo di merito sulla quantificazione della sanzione operata dal giudice di primo grado, intesa segnatamente a evitare che siano inflitte pene sproporzionate per difetto (al riguardo, mutatis mutandis, sentenza n. 155 del 2019).

6.– Le questioni vanno dichiarate, pertanto, non fondate in riferimento a tutti parametri evocati.

 

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedurapenale, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n. 11, recante «Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Messina con l’ordinanza indicata in epigrafe.

[Omissis]

 

Corte costituzionale, Sent. 26 febbraio 2020, n. 34

Pres. Carosi, Red. Modugno

 

SOMMARIO:

1. L’art. 593 c.p.p. e i nuovi limiti al potere di appello del pubblico ministero - 2. Le censure di incostituzionalitā e gli argomenti della Corte - 3. Riflessioni a margine - NOTE


1. L’art. 593 c.p.p. e i nuovi limiti al potere di appello del pubblico ministero

Come è noto l’attuale formulazione dell’art. 593 c.p.p. è il frutto delle modifiche apportate dagli artt. 1 e 2 del D.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, con il quale, accantonato l’ambizioso progetto di riforma che avrebbe dovuto trasformare il giudizio d’appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata, con circoscritte ipotesi di rinnovazione probatoria, il legislatore delegato si è limitato «ad attuare le misure preordinate a ridurre l’area oggettiva dell’appello» [1] in ossequio ai limiti imposti da una delega «non particolarmente innovativa» [2].

La disciplina delle impugnazioni era stata già oggetto in passato di un intervento normativo piuttosto articolato il quale, con riferimento al giudizio di appello, aveva previsto che il pubblico ministero e l’imputato potessero sempre «appellare contro le sentenze di condanna» (salva la disciplina specifica prevista per le condanne emesse all’esito del giudizio abbreviato o del patteggiamento e per le decisioni relative alle misure di sicurezza) e anche contro le sentenze di proscioglimento ma nei soli casi in cui venisse richiesta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale a causa della sopravvenienza o scoperta di una nuova prova decisiva. Per converso erano inappellabili da chiunque le sentenze di condanna con cui fosse stata applicata unicamente la pena dell’ammenda.

Tale assetto, frutto dell’interpolazione operata con l. 20 febbraio 2006, n. 46 [3], era stato poi rimodulato dalla Corte costituzionale che dapprima aveva dichiarato illegittimo il divieto d’appello del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento [4], poi, in via consequenziale, anche il divieto di appello delle sentenze di proscioglimento per l’imputato [5].

Infatti, ripristinato l’appello del pubblico ministero nei riguardi delle sentenze dibattimentali di proscioglimento, il testo dell’art. 593 comma 2 c.p.p., come sostituito dall’art. 1 della l. 20 febbraio 2006, n. 46, rimaneva in vigore per l’imputato. Ne conseguivano ulteriori asimmetrie perché l’imputato non poteva proporre appello – se non nell’ipotesi marginale prevista di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale – nei riguardi di sentenze di proscioglimento che pur formalmente liberatorie, presuppongono un accertamento di responsabilità.

Così, con la sentenza n. 85 del 2008, la Corte costituzionale restituiva all’imputato il potere di appellare le sentenze dibattimentali di proscioglimento, osservando come tale categoria di sentenze non costituisce «un genus unitario» ma comprende «ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto». Accanto a decisioni «ampiamente liberatorie», pronunciate con le formule il fatto non sussiste e l’imputato non lo ha commesso, la suddetta categoria abbraccia sentenze che, pur non applicando una pena, comportano «un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo»: dunque la limitazione dei poteri di appello dell’imputato, accomunando situazioni assai diversificate, veniva a negare un secondo grado di giurisdizione di merito anche in ipotesi, come quelle suddette, che rendono configurabile un interesse del prosciolto all’impugnazione, mentre al pubblico ministero veniva riconosciuta la facoltà di appellare la sentenza di condanna che abbia accolto solo in parte le sue richieste.

Da tale declaratoria di illegittimità erano tuttavia escluse le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa: ammettere l’imputato ad appellare simili sentenze sarebbe stato «palesemente irrazionale» visto che l’art. 593 comma 3 gli precludeva l’appello della sentenza di condanna che avesse irrogato la sola pena dell’ammenda. In tal modo, però, la Consulta aveva creato a sua volta una dissimmetria perché, dopo la sentenza n. 26/2007, il pubblico ministero, diversamente dall’imputato, poteva appellare ogni sentenza di proscioglimento e, dunque, pure quelle riguardanti contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Non a caso, la stessa Corte aveva segnalato al legislatore «l’opportunità» di eliminare l’incongruenza, escludendo l’appellabilità di questa categoria di sentenze pure per il pubblico ministero.

I diversi interventi della Corte costituzionale avevano sostanzialmente rimodulato i confini applicativi dell’art. 593 c.p.p. non senza creare incongruenze che rendevano necessaria una riscrittura della disposizione normativa.

Riscrittura che il legislatore ha realizzato con il decreto legislativo sopra citato in forza del quale l’art. 593 c.p.p. prevede ora che, salve le limitazioni stabilite negli artt. 443 comma 3 c.p.p., 448 comma 2 c.p.p., 579 e 680 c.p.p, l’imputato ha il diritto di appellare tutte le sentenze di condanna; mentre il pubblico ministero dispone del potere di appello avverso le sentenze di condanna qualora esse mutino il titolo del reato, escludano una circostanza ad effetto speciale o stabiliscano una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, cioè in quelle ipotesi in cui «le determinazioni del giudice incidono in maniera significativa sulla prospettazione accusatoria anche e soprattutto in punto di quantificazione della pena» [6].

Riguardo alle sentenze di proscioglimento è, invece, ora previsto che possano essere sempre oggetto di appello da parte del pubblico ministero; mentre per quanto concerne l’imputato l’esperibilità del­l’ap­pello è circoscritta alle pronunce che recano formule diverse da quelle più favorevoli (perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso).

Memore degli insegnamenti della Corte costituzionale il legislatore ha, dunque, mantenuto il potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento e, al fine di compensare il rischio di una prima condanna nel giudizio di secondo grado, ha contestualmente riformulato la disciplina della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, ora prevista come obbligatoria ogni qualvolta il pubblico ministero abbia proposto impugnazione «per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa» (art. 603 comma 3-bis c.p.p.) [7].

Riguardo all’imputato, risulta confermato il limite all’appellabilità delle decisioni di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, coerentemente con l’impostazione che tende a far coincidere la legittimazione con l’interesse all’impugnazione. Rimane, però, irrisolto il problema di quelle condanne che, pur recando queste formule, siano state pronunciate ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p. rispetto alle quali l’imputato conserva un interesse, in quanto pronunce potenzialmente prive di efficacia nei giudizi civili e amministrativi di danno.

L’ultimo comma dell’art. 593 c.p.p. stabilisce, infine, che siano inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e così pure – in linea con gli insegnamenti della Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 85/2008 – le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la pena dell’ammenda o con pena alternativa.


2. Le censure di incostituzionalitā e gli argomenti della Corte

Sebbene le scelte operate dall’ultima riforma siano state fortemente influenzate dalle indicazioni del giudice delle leggi [8], anche sui nuovi limiti ai poteri di appello del pubblico ministero fissati dall’attuale art. 593 c.p.p. è stata richiamata l’attenzione della Corte costituzionale.

Tali limiti rappresentano solo in apparenza una novità, essendosi esteso al giudizio ordinario lo schema previsto per le sentenze emesse all’esito del rito abbreviato [9], seppure con qualche maggiore apertura per il primo, posto che la sentenza di condanna pronunciata nel giudizio ordinario può essere censurata non solo nel caso di modifica del titolo del reato, come nella disciplina dell’abbreviato, ma anche se esclude la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Peraltro, secondo una parte della dottrina [10], si tratterebbe addirittura di limitazioni che il legislatore avrebbe potuto anche non prevedere in quanto, riguardando casi in cui in concreto difetta l’interesse, l’impugnazione sarebbe comunque inammissibile.

Diversi i profili di censura sollevati.

Innanzitutto, è stato ravvisato un contrasto con il principio di parità tra le parti in quanto, in forza del nuovo regime, mentre l’imputato è posto nella condizione di impugnare qualsiasi sentenza che non sia satisfattiva dei suoi interessi, il pubblico ministero non può dolersi, se non attraverso il ricorso per Cassazione, di decisioni di condanna che rechino pene talmente irrisorie da farle assomigliare ad una assoluzione. E anche se il vulnus al potere di impugnazione del pubblico ministero recato dal d.lgs. n. 11 del 2018 appare, di per sé, inferiore rispetto a quello inferto dalle modifiche apportate all’art. 593 dalla l. 40/2006, posto che la parte pubblica conserva il potere di appellare le sentenze di assoluzione, venendogli impedito solo l’appello contro le sentenze di condanna, la differenza risulta «esigua quantitativamente ed inesistente qualitativamente». In molti casi, infatti, la condanna potrebbe essere talmente ingiusta, per l’esiguità della pena inflitta, da «somigliare moltissimo» a una assoluzione, tanto da determinare l’assurdo per cui l’imputato dovrebbe sperare di essere condannato a una pena particolarmente tenue, piuttosto che di essere assolto.

Peraltro, sebbene per la giurisprudenza costituzionale il principio della parità delle parti, che concerne anche l’accesso al giudizio impugnatorio, non implichi che debba esservi una piena corrispondenza tra facoltà del pubblico ministero e facoltà dell’imputato ma richieda una ragionevole giustificazione per le differenze stabilite dalla legge, nella specie non vi sarebbero fattori idonei a giustificare un trattamento tanto deteriore per la pubblica accusa: non un fine di ragionevole delimitazione, non un fine di deflazione.

A tal proposito, la norma censurata si porrebbe addirittura in contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, non essendo idonea a ridurre il numero degli appelli, considerato che quelli proposti dagli uffici di procura rappresentano una percentuale minima dei giudizi di secondo grado.

Per il giudice a quo, infine, i limiti al potere di appello del pubblico ministero fissati nell’art. 593 c.p.p. contrasterebbero con il principio della necessaria finalizzazione rieducativa della pena, stante l’impossibilità di effettuare un controllo di merito sulla quantificazione della pena effettuata dal giudice di primo grado. La pena irrogata, invero, in base all’art. 27 Cost., deve essere proporzionata al fatto e alla capacità criminale del suo autore e tale obiettivo risulta frustrato nel caso di errore del primo giudice nella determinazione del trattamento, stante l’impossibilità di effettuare un successivo controllo sulla quantificazione della pena.

Nessuna delle censure sollevate ha trovato accoglimento: la Corte costituzionale ha, infatti, concluso per l’infondatezza delle questioni di legittimità proposte.

Essa ha ritenuto in linea con i parametri costituzionali l’impostazione della legge di riforma per la quale il pubblico ministero, una volta ottenuto il riconoscimento della pretesa punitiva con la pronuncia di condanna, non può più dolersi dell’entità della pena, salvo che in alcune ipotesi tassative.

L’idea è che quando il giudice di prime cure abbia accolto le richieste dell’accusa per quel che concerne la qualificazione giuridica del fatto, la sussistenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale o la specie di pena da applicare, la risposta sanzionatoria non possa essere sindacata dal pubblico ministero, dovendosi ritenere che le sue pretese siano state complessivamente accolte. Ciò naturalmente sempre che i profili di censura sulla pena non derivino da una violazione di legge o da un vizio della motivazione, casi in cui il pubblico ministero attraverso il ricorso per cassazione può ancora dolersi della quantificazione della pena purché ravvisi un vizio che ricada nel catalogo dei motivi tassativi di cui all’art. 606 c.p.p.

Ma vediamo quali sono le argomentazioni della Consulta.

Riguardo alla violazione degli artt. 3 e 111 Cost., la Corte ricorda che, per costante orientamento, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» [11].

Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali. Le differenze che connotano le rispettive posizioni, «correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali (...) le parti stesse sono portatrici impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Al contrario, alterazioni di tale simmetria sono da ritenersi compatibili con il principio di parità a condizione che trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale e risultino comunque contenute entro i limiti della ragionevolezza» [12].

La validità di tali affermazioni di principio, calata nel peculiare settore delle impugnazioni risulta sorretta da altre considerazioni: la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale [13]; il diritto a far riesaminare la decisione da una giurisdizione di seconda istanza, a livello sovranazionale [14] è previsto solo a favore della persona dichiarata colpevole o condannata per un reato: dunque, esclusivamente a favore dell’imputato, senza far menzione del pubblico ministero. Ne discende che il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero può presentare «margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato» [15].

Poste queste premesse di ordine generale, la Corte si sofferma sulla previgente formulazione dell’art. 593 c.p.p., quale termine di paragone, per sottolineare come il limite posto ai poteri di appello del pubblico ministero, cui era preclusa l’impugnazione di ogni sentenza di proscioglimento, generasse una dissimmetria «radicale», che per il fatto di essere «generalizzata» nonché «unilaterale» non poteva essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità.

Di diverso tenore sono, invece, le modifiche alla disciplina delle impugnazioni recate dal d.lgs. n. 11 del 2018 che, in quanto accomunate dall’obiettivo fondamentale della deflazione e della semplificazione, nell’ottica di garantire la ragionevole durata dei processi, pur impongono dei sacrifici ai poteri delle parti. Nello specifico, l’art. 593 c.p.p. tiene fermo il potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, ma introduce un limite generale all’appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna: il gravame è ammesso solo quando tali sentenze «modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato». La riforma estende, in sostanza, al giudizio ordinario il limite già previsto in rapporto al giudizio abbreviato (art. 443, comma 3, c.p.p.), attenuandone i contenuti. Non è dubbio che la previsione generi una dissimmetria tra le parti, impedendo al pubblico ministero la formulazione di censure direttamente o indirettamente attinenti alla determinazione del trattamento sanzionatorio: la quantificazione della pena entro la cornice edittale, l’esclusione di aggravanti comuni o la concessione di attenuanti, il bilanciamento tra circostanze, l’applicazione dell’istituto della continuazione, la concessione di benefici.

Sul versante opposto, l’imputato conserva invece, come regola generale – oltre al potere di appellare, senza limiti, le sentenze di condanna – anche quello di appellare le sentenze di proscioglimento, con la sola eccezione delle sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso (art. 593 comma 2, c.p.p.). Tale eccezione – già contemplata dalla norma originaria del codice di rito – non vale, di per sé, a riequilibrare la posizione delle parti, attenendo a sentenze di assoluzione con formula ampiamente liberatoria, rispetto alle quali può presumersi carente lo stesso interesse dell’imputato a impugnare, che condiziona l’ammissibilità del gravame (art. 568 comma 4, e 591 comma 1, lettera a, c.p.p.). D’altro canto, anche a volere tenere conto del fatto che tale limite investe pure l’assoluzione pronunciata per insussistenza di sufficienti elementi di prova (art. 530 comma 2, c.p.p.), rispetto alla quale l’imputato può conservare – almeno secondo una parte della giurisprudenza – un interesse ad appellare, essendo tale declaratoria priva di effetti preclusivi nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari, la limitazione del potere di appello dell’imputato risulta, comunque, nettamente meno significativa di quella che sconta il pubblico ministero.

Esiste, dunque, una dissimmetria tra i poteri di impugnazione delle parti generata dalla nuova formulazione dell’art. 593 c.p.p. ma essa non deborda dall’alveo della compatibilità costituzionale.

Intanto, perché la limitazione del potere di appello della parte pubblica ha l’obiettivo di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d’appello, ma soprattutto perché la preclusione, diversamente dal passato, riguarda sentenze che hanno accolto, nell’an, la “domanda di punizione” proposta dal pubblico ministero e che non hanno, altresì, inciso in modo significativo sulla prospettazione accusatoria.

Chiarito ciò la Corte si sofferma su un altro profilo che potrebbe indebolire le sue argomentazioni.

Le limitazioni poste ai poteri di appello del pubblico ministero richiamano quelle previste nel­l’am­bito del giudizio abbreviato, le quali hanno già superato il vaglio di legittimità costituzionale [16]. Sennonché, mentre nel rito speciale questi limiti sono compensati dalle rinunce in termini di facoltà che incontra l’imputato e dal correlato privilegio di cui gode il pubblico ministero nell’ambito del giudizio abbreviato, destinato per lo più ad essere definito sulla base del materiale probatorio da questi acquisito, questa contropartita manca del tutto nel giudizio ordinario.

Ecco che la Corte costituzionale si premura di evidenziare che l’esistenza di una simile “contropartita” non rappresenta una condizione imprescindibile per il riconoscimento della legittimità costituzionale di dissimmetrie tra le parti in subiecta materia, considerato che in altre fasi del procedimento il pubblico ministero fruisce di una posizione di indubbio vantaggio che non trova un riscontro paragonabile dal lato della difesa.

Riguardo alla denunciata inidoneità della norma censurata a realizzare gli obiettivi di economia processuale che la ispirano e, dunque, al suo contrasto con il principio del buon andamento (art. 97 Cost.), la Corte evidenzia come la valutazione in ordine alla capacità della disposizione di produrre effetti deflativi debba essere effettuata tenendo conto anche delle altre misure poste in campo dalla riforma [17] accomunate dalla medesima ratio. A tali osservazioni si aggiunge il dirimente rilievo che, per costante giurisprudenza costituzionale, il principio del buon andamento è «riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale» [18].

Con riguardo, infine, all’ultima censura relativa alla compromissione della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.), la Corte si limita a ricordare che tale parametro non è pertinente alla tematica della limitazione dei poteri di appello del pubblico ministero [19] e che, a prescindere da ogni altra considerazione, non è possibile ritenere che la funzione rieducativa della pena postuli imprescindibilmente che sia assicurato un controllo di merito sulla quantificazione della sanzione operata dal giudice di primo grado, intesa segnatamente a evitare che siano inflitte pene sproporzionate per difetto [20].


3. Riflessioni a margine

Il percorso seguito dalla Corte nella pronuncia in esame prende le mosse da una considerazione preliminare: il principio della parità delle parti non esige una simmetria assoluta tra i poteri, essendo possibili e legittime diversificazioni giustificate in primis dalla differente posizione e dal diverso ruolo rivestito dalle parti nel processo [21].

Posta questa premessa di ordine generale, la Corte, non prova neppure a sostenere che sussista un certo equilibrio tra le limitazioni imposte ad entrambe le parti.

Un tentativo che avrebbe potuto forse fare, valorizzando, ad esempio, il fatto che il limite all’appello delle sentenze di proscioglimento recanti una formula ampiamente liberatoria rappresenta una sperequazione ai danni dell’imputato in quanto, potendo riguardare anche quelle pronunciate ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p., impedisce l’impugnazione di sentenze comunque pregiudizievoli perché inidonee a precludere l’azione in sede civile o amministrativa [22]. Gli artt. 652 e 653 c.p.p. collegano, infatti, l’efficacia di giudicato all’«accertamento» contenuto in sentenza, sicché qualora l’assoluzione, benché pronunciata con le formule più favorevoli, risulti avvenuta per mancanza o insufficienza di prove, il giudicato penale non è ostativo «all’introduzione del giudizio civile [ed è rimesso] al giudice (…) accertare, previa interpretazione del giudicato penale sulla base della motivazione di esso, se l’esclusione della responsabilità dell’imputato sia stata certa o dubbia, di conseguenza, stabilire se l’azione civile ne sia rispettivamente preclusa o meno» [23].

Non è un caso che in sede di redazione dello schema di decreto legislativo in materia di impugnazioni penali fosse stata proposta una modifica dell’art. 652 c.p.p. in modo che l’eliminazione della legittimazione all’appello valesse solo per le sentenze effettivamente liberatorie e non per quelle pronunciate ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p. «in ragione del pregiudizio che da esse può derivare collegato all’esclusione degli effetti extrapenali» [24]. L’intervento normativo era volto a evitare che la limitazione dei poteri di appello dell’imputato potesse esporsi a censure per violazione dell’art. 24 Cost., considerata la posizione assunta dalla Corte costituzionale riguardo alle norme che sancivano l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento comunque contenenti una sostanziale affermazione di responsabilità penale [25].

La Corte preferisce, invece, ammettere che sia stato introdotto un regime differenziale, convinta di poter dimostrare che, indipendentemente da un corrispondente sacrificio della posizione dell’imputato, ci si trovi dinnanzi ad un assetto che «non deborda dall’alveo della compatibilità con il principio di parità».

Ecco che il fine ultimo della motivazione diviene quello di dimostrare perché il potere di impugnazione del pubblico ministero può presentare «margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato» [26].

E per fare questo la Corte muove dai principi che governano l’azione penale e ripropone l’ar­go­mento secondo cui il potere di impugnazione del pubblico ministero non gode di copertura costituzionale, non potendo considerarsi come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà enunciato dall’art. 112 Cost. [27].

Tale rilievo, unito alla considerazione che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale ed è prevista a livello sovranazionale [28] solo a favore della persona dichiarata colpevole o condannata per un reato, permettono alla Corte di giustificare e ritenere legittima la fissazione ex lege di limiti al potere di impugnazione del pubblico ministero, quando ciò sia funzionale ad assicurare altri valori, tra cui la ragionevole durata del processo e l’efficienza del sistema punitivo.

Un fine quest’ultimo, per la cui realizzazione l’ordinamento, di fronte al sostanziale soddisfacimento della pretesa punitiva, può decidere di fare un passo indietro e rinunciare ad un controllo di merito sulla pena, anche se ciò può significare accettare il rischio che tale pena non sia proporzionata alla gravità del fatto e alla pericolosità del soggetto, anche perché questo rischio è temperato – almeno secondo la Corte – dalla possibilità per il pubblico ministero, seppure nei limiti del sindacato possibile in sede di legittimità, di ricorrere per Cassazione.

Insomma, la Corte costituzionale pare sposare l’idea del legislatore delegato per cui la domanda del pubblico ministero nel procedimento penale ha ad oggetto soltanto il riconoscimento della fondatezza della pretesa punitiva che si attua attraverso la sentenza di condanna e non anche l’entità della pena inflitta.

Ne consegue la legittimità costituzionale della scelta di prevedere che il pubblico ministero conservi il potere di proporre appello solo quando la pretesa punitiva di cui è portatore sia stata totalmente smentita ovvero quando le statuizioni del giudice di prime cure abbiano scalfito in modo pregnante la prospettazione accusatoria, con rilevanti e consequenziali ripercussioni in punto di qualificazione della pena.

Nelle rimanenti ipotesi di sentenze di condanna, invece, stante l’avvenuto riconoscimento della fondatezza dell’azione, la legittimazione all’appello può essere limitata, in nome di altri valori.

Anche a condividere le argomentazioni della Corte resta da dimostrare che le restrizioni ai poteri di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna siano realmente idonee a soddisfare le esigenze di economia processuale di cui il sistema ha bisogno.

Se la logica è quella del bilanciamento di interessi occorre, infatti, che la limitazione dell’uno sia funzionale al soddisfacimento dell’altro.

La Corte non ha dubbi al riguardo: anche se la statistiche evidenziano un ridotto numero di appelli proposti dalla parte pubblica, l’idoneità della previsione censurata a contenere i tempi processuali deve essere valutata tenendo conto della sua interazione con gli altri strumenti messi in campo dalla stessa riforma e diretti al comune obiettivo della semplificazione, quali la previsione –con riguardo alla generalità delle impugnazioni– dell’onere di specifica enunciazione dei motivi, a pena di inammissibilità (art. 581 c.p.p.), la reintroduzione dell’istituto del concordato sui motivi di appello (art. 599-bis c.p.p.) o la previsione che il procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello possa appellare solo nei casi di avocazione o di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado, così da evitare una duplicazione di impugnative in capo alla medesima parte (art. 593-bis c.p.p.).

Si tratta di affermazioni non del tutto convincenti, non tanto per la scarsa incidenza degli appelli del p.m., ma piuttosto in ragione dell’esistenza nel sistema di meccanismi che consentono di aggirare i limiti fissati dall’art. 593 c.p.p. [29].

L’esperienza maturata con riguardo all’art. 443 c.p.p. dimostra che se il pubblico ministero propone ricorso per cassazione contro la sentenza di condanna per ottenere una riforma in punto di esatta quantificazione della pena e l’imputato propone invece appello per ottenere un provvedimento a lui più favorevole, opera il meccanismo della conversione del ricorso in appello [30]. E, sebbene il ricorso conservi la propria natura di impugnazione di legittimità, la cui ammissibilità deve essere sindacata secondo i parametri dell’art. 606 c.p.p., a fronte di una censura fondata la Corte d’appello riprende la propria funzione di giudice del merito avente cognizione piena [31].

Secondo costante giurisprudenza [32], poi, il meccanismo della conversione opera anche nei giudizi cumulativi, quando una stessa parte processuale, in ragione dell’esistenza di limiti alla proposizione delle impugnazioni, presenta per alcuni capi della sentenza appello, e per altri, ricorso per cassazione.

Peraltro, nei casi in cui il pubblico ministero può proporre appello avverso la sentenza di condanna, il giudizio di secondo grado che si instaura può avere ad oggetto qualsiasi statuizione adottata, sicché la diversa qualificazione giuridica, l’esclusione di aggravanti ad effetto speciale o l’irrogazione di pena di specie diversa, rappresentano solo il presupposto per una indiretta riespansione dei poteri d’appello del pubblico ministero, i quali non risultano circoscritti dall’oggetto della domanda [33].

Insomma, ove gli orientamenti richiamati fossero confermati, le limitazioni poste ai poteri di appello del pubblico ministero, risultando facilmente aggirabili, risulterebbero inidonee a restituire al sistema una maggiore efficienza, posto che in concreto gli ambiti di sindacato del giudice d’appello risulterebbero circoscritti solo formalmente.

Ma la scarsa capacità delle modifiche apportate all’art. 593 c.p.p. a realizzare gli scopi voluti dalla delega non è l’unico appunto che può farsi al nuovo assetto dato ai poteri di impugnazione del pubblico ministero.

Come evidenziato da una parte della dottrina, le limitazioni ai poteri di appello della pubblica accusa, combinate con altre scelte adottate contestualmente, hanno generato importanti ricadute sul piano ordinamentale, accentuando fortemente il ruolo di parte del pubblico ministero [34].

Si è scelto di prevedere, infatti, che quando la domanda sia stata sostanzialmente accolta perché il giudice ha pronunciato una condanna, anche se la pena dovesse essere ingiusta ciò non riguardi più il pubblico ministero, il cui interesse, quale organo dell’accusa, può ritenersi soddisfatto, avendo egli dismesso, almeno in sede di impugnativa di merito, le vesti di organo di garanzia che assicura la corretta applicazione della legge [35].

In questa direzione muove, infatti, anche la previsione che preclude al pubblico ministero ogni appello che sia diretto a sortire qualsivoglia effetto favorevole per l’imputato [36], diretta conseguenza dell’inserto, nell’art. 568 c.p.p., del comma 4-bis, disposizione che consente al pubblico ministero di impugnare a favore dell’imputato solo mediante ricorso per cassazione.

È pur vero che il ruolo di garanzia del pubblico ministero non è del tutto negato, dal momento che egli conserva «la legittimazione al ricorso per cassazione, lo strumento, peraltro, oggetto di espressa garanzia costituzionale» che può utilizzare anche in funzione diversa da quella propria di parte processuale esclusivamente antagonista, avversaria dell’imputato [37].

Si tratta però di verificare se i poteri di cui dispone in sede di legittimità compensino le limitazioni poste ai suoi poteri di appello e se l’effetto compensativo si realizzi senza che risulti alterata la sua figura di organo che, nel nostro sistema, incarna istituzionalmente due anime [38]: quella di parte tout court, simbolo dell’accusa e della pretesa punitiva, interessato solo alla condanna e all’applicazione di una pena esemplare, e quella di organo super partes che agisce con sovrano distacco al solo scopo di realizzare il giusto [39].

Anime che si manifestano alternativamente nei diversi momenti processuali, secondo una logica dettata dallo sviluppo del procedimento in cui i poteri delle parti sono diversamente modulati: così, mentre nella fase delle indagini prevale il ruolo di garante e il pubblico ministero è tenuto a raccogliere tutti gli elementi necessari alle sue determinazioni, compresi gli esiti di accertamenti in favore dell’indagato, considerato il marginale apporto della difesa e la necessità istituzionale di evitare l’instaurazione di processi superflui [40], nella fase processuale, dominata dalla logica della contrapposizione dialettica e da un più equilibrato riparto dei poteri tra accusa e difesa, prevale la veste di parte e il pubblico ministero, pur non potendo occultare gli elementi di favore per l’imputato, è unicamente obbligato a chiedere l’acquisizione delle prove capaci di validare l’ipotesi accusatoria, non anche di quelle idonee a smentirla, perché a ciò è tenuto l’imputato.

Orbene, se di per sé non può ritenersi in contrasto con il profilo istituzionale del pubblico ministero limitare la sua possibilità di appellare le sentenze di condanna lasciando che, quando la sua domanda sia stata sostanzialmente accolta, sia l’imputato a provocare un controllo sull’esito decisorio per lui sicuramente pregiudizievole, purché ciò avvenga entro un rapporto di equilibrato bilanciamento con altri valori di rango costituzionale, pare che questa scelta, combinata con quella più incisiva di impedire all’organo pubblico ogni appello volto a sortire effetti favorevoli per l’imputato [41], abbia alterato non poco l’assetto complessivo.

Certo, le uniche limitazioni accettabili potevano riguardare l’impugnazione di merito, posto che il ricorso per cassazione, strumento di garanzia per eccellenza, diversamente dall’appello, gode di copertura costituzionale, nondimeno permettere al pubblico ministero di azionarsi nell’interesse pubblico di tutela della legge solo con tale mezzo è una scelta che, almeno simbolicamente, sposta il baricentro verso una figura di pubblico ministero che diviene eminentemente espressione del potere di accusa.

Nella fase di legittimità, egli conserva il potere di impugnare ogni sentenza sia essa di condanna o di proscioglimento, ma entro gli ambiti del giudizio di cassazione e per le sole doglianze con esso proponibili [42], mentre si è sempre ritenuto che non dovessero esservi limiti per la parte pubblica alla proposizione dell’impugnazione nell’interesse della legge [43], per rimuovere qualsiasi profilo di ingiustizia della decisione, anche se non derivante da errori di diritto [44].

E, invece, ora questi limiti sono stati posti e, anche se sembrerebbero dettati dalla volontà di preservare da censure di incostituzionalità l’impianto normativo che avrebbe potuto sembrare irragionevole ove avesse consentito al pubblico ministero di appellare a favore dell’imputato, negandogli al contempo la possibilità di proporre il gravame per dolersi di una sentenza di condanna che, senza modificare il titolo del reato, fosse risultata comunque ingiusta [45], restituiscono un quadro normativo tutt’altro che coerente, da cui emerge un pubblico ministero sminuito nel suo ruolo di garante della legalità.


NOTE

[1] Così E. Lorenzetto, Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, in M. Bargis - H. Belluta, La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Giappichelli, Torino, 2018, p. 239.

[2] A. De Caro, La deflazione delle impugnative, in A. Scalfati, La riforma delle giustizia penale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 344.

[3] In generale, sulla riforma, v. AA. VV., Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, a cura di A. Scalfati, Milano, Ipsoa, 2006; AA. VV., Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di M. Bargis - F. Caprioli, Torino, Giappichelli, 2007; R.E. Kostoris, Le modifiche al codice di procedura penale in tema di appello e ricorso per cassazione introdotte dalla cd. «legge Pecorella» in Riv. dir. proc., 2006, p. 637.

[4] C. cost., sent. 6 febbraio 2007, n. 26, in Giur. cost., 2007, p. 221 con osservazioni di A. Bargi - A. Gaito, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria (a proposito della funzione del p.m. nelle impugnazioni penali), ivi, p. 240 e di F. Caprioli, Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e ‘parità delle armi’ nel processo penale, ivi, p. 250. A commento della decisione si veda M. Ceresa-Gastaldo, Non è costituzionalmente tollerabile la menomazione del potere di appello del pubblico ministero, in Cass. pen., 2007, p. 1894; P. Ferrua, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2007, p. 611; V. Grevi, Appello del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione, in Cass. pen., 2007, p. 1414; A. Scalfati, Work in progress sui poteri d’appello delle parti “necessarie”, in L. Filippi (a cura di), Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, Padova, Cedam, 2007, p. 9; P. Tonini, La illegittimità costituzionale del divieto di appellare il proscioglimento. Una pronuncia discutibile che genera ulteriori problemi, ivi, p. 349.

[5] C. cost., sent. 4 aprile 2008, n. 85, in Giur. cost., 2008, p. 1046 con commento di M. Bargis, L’imputato può nuovamente appellare (con un limite) le sentenze dibattimentali di proscioglimento: la Corte costituzionale elimina (e nel contempo crea) asimmetrie; v. altresì A. Natalini, Legge Pecorella, ennesima incostituzionalità. Illegittima l’inappellabilità per l’imputato delle sentenze di proscioglimento, in www.dirittoegiustizia.it, 23 aprile 2008; P. Ventura, «Legge Pecorella» di nuovo sconfessata per completare il ripristino di simmetria, in Guida dir., 2008, n. 21, p. 60.

[6] Così M. Bargis, Impugnazioni, in M. Bargis, Compendio di procedura penale, Milano, Wolters Kluwer – Cedam, 2019, p. 907.

[7] Il sistema non rinuncia dunque alla possibilità di reiterare i giudizi di responsabilità degli imputati, in linea con la tendenza a considerare il sistema dei gravami come uno strumento di garanzia. Sul punto, v. G. Spangher, Sistema delle impugnazioni penali e durata ragionevole del processo, in Corriere giur., 2002, n. 10, p. 1261.

[8] Secondo, S. Ciampi, sub art. 593, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, V ed., tomo II, Wolters Kluwer, Milano, 2017, p. 3116, le sentenze della Corte costituzionale contengono direttive esegetiche suscettibili di travalicare ampiamente i confini della riforma normativa cui si riferiscono. Nella Relazione illustrativa del decreto legislativo (approvato in esame definitivo dal Consiglio dei ministri il 19 gennaio 2018, in www.quotidianogiuridico.it) si legge che la scelta di delega «ha chiaramente prescritto la riduzione dell’area della legittimazione all’appello sia per il pubblico ministero che per l’imputato, in modo da calibrare equamente il sacrificio in termini di accesso all’impugnazione».

[9] La scelta è criticata da M. Ceresa-Gastaldo, La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflative, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2017, 3, p. 171, secondo il quale solo nel giudizio abbreviato il limite al potere di appello del pubblico ministero risulta compensato dal ‘vantaggio’ di posizione di cui la parte pubblica gode sul piano probatorio.

[10] Così A. Trinci, Le nuove impugnazioni penali (d. lgs. 6 febbraio 2018, n.11), Il Penalista, Milano, Giuffrè, 2018, p. 37, secondo cui l’art. 593 c.p.p. risulterebbe addirittura ridondante, potendosi le limitazioni ai poteri di appello del p.m. ricavarsi dal canone dell’interesse a impugnare. Secondo A. Ciavola, Rimodulati i confini di appellabilità delle sentenze di proscioglimento e di condanna, in A. Pulvirenti (a cura di), Le impugnazioni penali dopo la riforma, Torino, Giappichelli, 2018, p. 116 «l’aver spostato sul piano della legittimazione oggettiva un requisito tipico dell’ammissibilità dell’impugnazione, può essere finalizzato a garantire un trattamento uniforme, che altrimenti, non è detto si riesca ad assicurare in sede di controllo a posteriori».

[11] Vedi C. cost., sent. 20 luglio 2007, n. 320, in Giur. cost., 2007, p. 3096; nello stesso senso C. cost., sent. 25 luglio 2008, n. 298, in Cass. pen., 2009, p. 138.

[12] Così, C. cost., sent., 6 febbraio 2007, n. 26, cit.

[13] Vedi, ex plurimis, C. cost., sent. 29 ottobre 2009, n. 274, in Cass. pen., 2010, p. 482; C. cost., sent. 24 luglio 2009, n. 242 in Cass. pen., 2010, p. 557.

[14] Vedi l’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.

[15] Così C. cost., sent. 6 febbraio 2007, n. 26, cit.

[16] Vedi C. cost., sent. 23 luglio 1991, n. 363, in Giur. it., 1994, I, c. 114.

[17] Ci si riferisce alla previsione (con riguardo alla generalità delle impugnazioni) dell’onere di specifica enunciazione dei motivi, a pena di inammissibilità (art. 581 c.p.p., come sostituito dall’art. 1, comma 55, della legge n. 103 del 2017), alla reintroduzione dell’istituto del concordato sui motivi di appello (art. 599-bis c.p.p., aggiunto dall’art. 1, comma 56, della legge n. 103 del 2017) o alla previsione secondo cui il procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello può appellare solo nei casi di avocazione o di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado, così da evitare una duplicazione di impugnative in capo alla medesima parte (art. 593-bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 3 del d.lgs. n. 11 del 2018).

[18] In questo senso, vedi, tra le altre, C. cost. sent. 17 aprile 2019, n. 90, in Giur. cost., 2019, 2, p. 1044; C. cost. sent. 27 aprile 2018, n. 91, in Cass. pen., 2019, p. 688.

[19] C. cost., sent. 23 luglio 1991, n. 363, in Giur. it., 1994, I, c. 114.

[20] C. cost., sent. 21 giugno 2019, n. 155, in Giur. cost., 2019, p. 1663.

[21] Si legge in C. cost., sent. 7 maggio 2001, n. 115 che il principio di parità delle parti «non comporta una necessaria identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato» tenuto conto della peculiare posizione istituzionale del p.m. in relazione alla sua funzione e alle esigenze di corretta amministrazione della giustizia.

[22] Si tratta di un argomento utilizzato nel Parere (favorevole) approvato dalla Commissione giustizia della Camera (in Atti Camera, XVII leg., Commissione giustizia, seduta 15 novembre 2017, p. 48) a dimostrazione dell’esistenza di un equilibrio tra i poteri di appello delle parti: così come il pubblico ministero non può appellare la sentenza di condanna per dolersi del quantum di pena, in quanto la sua pretesa è stata sostanzialmente accolta, l’imputato non può appellare quando abbia ottenuto una assoluzione ampiamente liberatoria, benché priva di effetti preclusivi sul piano extrapenale.

[23] Così Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 40049, in Cass. pen., 2009, p. 883, con nota di G. Santalucia, L’errore nell’uso della formula assolutoria: quale spazio per l’impugnazione della parte civile? Sul tema, v. A. Diddi, L’impugnazione per gli interessi civili, Padova, 2011, passim.

[24] Così G. Santalucia, Il futuro dell’appello nelle ragioni di compatibilità costituzionale della riforma Orlando,in Sistema penale, 2020, 5, p. 393. Sul punto, si sofferma, anche A. Marandola, la Riforma Orlando si completa: approvato il decreto legislativo sulle impugnazioni, in Dir. pen. cont., 2017, n. 10, p. 261.

[25] Ci si riferisce alle pronunce con cui la Corte costituzionale, vigente il codice abrogato, aveva dichiarato incostituzionali quelle disposizioni che precludevano all’imputato la possibilità di proporre appello avverso sentenze che, pur formalmente di proscioglimento, appaiono lesive «degli interessi morali e giuridici del prosciolto»: C. cost., sent. 25 marzo 1975, n. 70; C. cost., sent. 5 giugno 1978, n. 73; C. cost., sent. 16 luglio 1979, n. 72; C. cost., sent. 7 aprile 1981, n. 53; C. cost., sent. 21 luglio 1983, n. 224; C. cost., sent. 22 novembre 1985, n. 299; C. cost., sent. 18 luglio 1986, n. 200; C. cost. sent., 8 marzo 1989, n. 140; C. cost., sent. 28 luglio 1988, n. 922; C. cost., sent. 18 maggio 1989, n. 249, tutte consultabili in www.cortecostituzionale.it.

[26] Così C. cost., sent., 6 febbraio 2007, n. 26, cit.

[27] Sul punto v. C. cost., sent. 28 giugno 1995, n. 280, in Giur. cost., 1995, p. 1973; altresì C. cost., sent. 13 luglio 2017, n. 183, in Giur. cost., 2017, 4, p. 1707; C. cost., sent. 24 luglio 2009, n. 242, in Giur. cost., 2009, 4, p. 3073; C. cost., sent. 9 maggio 2003, n. 165, in Giur. cost., 2003, p. 3. In dottrina, v. C.U. Dal Pozzo, Le impugnazioni penali. Parte generale, Padova, Cedam, 1951, p. 149 secondo cui «il diritto all’impugnazione penale deve essere concepito come autonomo dal concetto più generale di azione e da quello specifico di “azione penale”». Sul punto, si vedano, le osservazioni critiche di V. Grevi, Appello del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in Cass. pen., 2007, p. 1404 e di M. Ceresa Gastaldo, Non è costituzionalmente tollerabile la menomazione del potere di appello del pubblico ministero, ivi, 2007, p. 1904, secondo i quali è comunque difficile sostenere che, dopo la sentenza di primo grado, l’ulteriore esercizio dell’azione penale sia rimesso al potere discrezionale del pubblico ministero, dovendosi dimostrare che ciò che, per una certa fase è pubblico, doveroso, irretrattabile, si può trasformare in un diritto disponibile. Secondo A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2010, p. 98, il principio di obbligatorietà non deve essere interpretato in modo assoluto, in quanto ormai da tempo esso non rappresenta un dogma intangibile.

[28] Vedi l’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.

[29] In merito, A. Ciavola, Rimodulati i confini di appellabilità delle sentenze di proscioglimento e di condanna, cit., p. 120.

[30] Cass., sez. III, 3 luglio 2018, n. 43649, in CED Cass., n. 274416; Cass., sez. II, 11 maggio 2007, n. 18253, in CED Cass., n. 236404; Cass., sez. VI, 16 dicembre 1997, n. 2620, in CED Cass., n. 210583; nel senso che la conversione del ricorso per cassazione in appello opera anche nel caso in cui l’impugnativa di merito sia dichiarata inammissibile per carenza di interesse v. Cass., sez. III, 22 maggio 2018, n. 41709, in CED Cass., n. 274303.

[31] Cass., sez. II, 21 giugno 2019, n. 34487, in CED Cass., n. 276739; Cass., sez. IV, 24 giugno 2008, n. 37074, in Casspen., 2009, p. 3920; conf. Cass., sez. VI, 25 settembre 2002, n. 42810, in CED Cass., n. 223788; Cass., sez. I, 14 febbraio 2006, n. 15025, in CED Cass., n. 234040. Secondo A. Trinci, Le nuove impugnazioni penali, cit., p. 38 non si può escludere che l’imputato corra il rischio di una reformatio in peius considerato che l’orientamento che ritiene illegittimo un aggravamento di pena nel caso di appello del p.m. contro la sentenza di condanna per modificazione del titolo del reato è del tutto isolato (Cass., sez. I. 27 novembre 2001, n. 331, in CED Cass., n. 220437).

[32] Cass., sez. IV, 27 febbraio 2018, n. 18656, in CED Cass., n. 273252; Cass., sez. I, 12 dicembre 2007, n. 2446, in CED Cass., n. 238813.

[33] Cass., sez. VI, 17 novembre 2010, n. 6274, in Cass. pen., 2012, p. 195; Cass., sez. V, 5 aprile 2006, n. 21276, Santonocito, in Cass. pen., 2007, p. 1133.

[34] Al riguardo v. le osservazioni di E. Lorenzetto, Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, in M. Bargis – H. Belluta (a cura di) La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Torino, Giappichelli, 2018, p. 246, secondo la quale l’intento effettivo della nuova previsione è quello di incidere sullo stesso ruolo della magistratura requirente per anticipare trasformazioni più radicali sul piano ordinamentale. In proposito vedi l’intervento del sen. Giovanardi (in Atti Senato, XVII leg., Commissione giustizia, res. somm. seduta del 15 novembre 2017) il quale osserva, con riferimento all’art. 568 comma 4 bis c.p.p., che «dalla lettura della norma in questione dovrebbe evincersi la tendenza del legislatore delegato a ipotizzare una futura separazione delle carriere dei magistrati».

[35] Secondo A. Ciavola, Rimodulati i confini di appellabilità delle sentenze di proscioglimento e di condanna, p. 117, l’aver circoscritto la possibilità di far valere la pretesa alla corretta applicazione della legge penale ove il giudice di primo grado abbia pronunciato la condanna, riduce il compito istituzionale di garante della legalità del pubblico ministero, indicato dall’art. 73 ord. giud. Nel senso che la previsione sia chiaramente indicativa della volontà di esasperare l’antagonismo tra imputato e pubblico ministero v. Relazione illustrativa cit., p. 1; altresì, le osservazioni di A. Trinci, Le nuove impugnazioni penali, cit., p. 32.

[36] V. la Relazione illustrativa, cit. p. 2 secondo cui la previsione servirebbe a «spiegare che l’accentuazione del ruolo di parte determina conseguenze non soltanto sulla fisionomia della legittimazione all’appello, ma anche sull’interesse all’impugnazione che è requisito di ammissibilità della domanda». Nel senso che l’interesse si configuri come la «‘concretizzazione’ della titolarità in abstracto», v. C. Valentini, Le disposizioni sulle impugnazioni in generale, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, vol. I, Torino, Utet, 1998, p. 223.

[37] Così A. Marandola, L’attuazione della delega sulle impugnazioni, in Studium Iuris, 2018, n. 3, p. 287, secondo la quale il ruolo di parte pubblica del pubblico ministero non è del tutto compresso, in quanto «non è oggetto di modifica, né di limitazione, la legittimazione al ricorso per cassazione lo strumento, peraltro, oggetto di espressa garanzia costituzionale utilizzabile dal pubblico ministero anche in funzione diversa da quella propria di parte processuale esclusivamente antagonista, avversaria dell’imputato».

[38] In questo senso, per tutte, v. C. cost., sent. 26 marzo 1993, n. 111 in Giur. cost., 1993, p. 915; C. cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88, in Giur. cost., 1991, p. 590.

[39] S. Carnevale, L’interesse ad impugnare nel processo penale, Torino, Giappichelli, 2013, p. 327.

[40] C. cost., ord., n. 86 del 1997 ha ritenuto l’art. 358 c.p.p. compatibile con il modello tendenzialmente accusatorio e quindi con il processo di parti, perché quella norma non mira né a realizzare il principio di eguaglianza tra accusa e difesa, né a dare attuazione al diritto di difesa, ma si innesta sulla natura di parte pubblica del pubblico ministero e soprattutto sulla necessità che al principio di obbligatorietà dell’azione si dia attuazione evitando l’instaurazione di processi superflui.

[41] Secondo R. Fonti, Interventi e ripercussioni sul ricorso per cassazione nel “secondo tempo” della riforma delle impugnazioni, in La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, cit., 2018, p. 260, la novella incide su una facoltà che pur avendo una sperimentazione pratica contenuta riveste un notevole significato simbolico, dal momento che si collega al ruolo istituzionale del pubblico ministero al quale l’art. 73 ord. giud. attribuisce il compito di vegliare sulla «osservanza della legge» e sulla «pronta e regolare amministrazione della giustizia».

[42] Affidare al ricorso per cassazione l’eliminazione di ogni ingiustizia nella decisione è piuttosto illusorio: esistono ipotesi di reato in cui la stessa fattispecie-base consente di determinare in concreto la pena, spaziando tra limiti edittali molto distanti, per cui la mera scelta del minimo può rendere la condanna gravemente ingiusta. Tra l’altro, dal momento che questa scelta sottintende delle valutazioni sul fatto, è difficilmente censurabile in sede di legittimità.

[43] Sul punto, v. M. Bargis, Impugnazioni, in M. Bargis, Compendio di procedura penale, cit., p. 874; S. Carnevale, Interesse ad impugnare nel processo penale, cit., p. 334; G. Petrella, Le impugnazioni nel processo penale, vol. I, Le discipline generali, Milano, Giuffrè, 1965, p. 225; M. Pisani, Riflessioni sul principio dispositivo nel processo penale di secondo grado, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, p. 850; Gius. Sabatini, Impugnazione del P.M. con effetti favorevoli per l’imputato,in Giust. pen., 1950, III, c. 83; G. Tranchina, Considerazioni in tema di interesse all’impugnazione nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1968, p. 266.

[44] In merito v. G. Spangher, Impugnazione del pubblico ministero nell’interesse della legge e concomitante impugnazione dell’im­pu­ta­to, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1972, p. 849; M. Gialuz, Il ricorso straordinario per cassazione, Milano, Giuffrè, 2005, p. 309. In giurisprudenza, nel senso che il pubblico ministero possa impugnare «tutte le volte in cui egli ravvisi nell’emesso provvedimento una decisione in qualsiasi modo ingiusta», v. Cass., sez. VI, 15 febbraio 1995, in Cass. pen., 1996, p. 3041.

[45] Sul punto v. R. Fonti, Interventi e ripercussioni sul ricorso per cassazione nel “secondo tempo” della riforma delle impugnazioni, in La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, cit., p. 259, la quale scrive in merito all’art. 568 comma 4bis c.p.p. che esso «viene presentato nella Relazione di accompagnamento, come un innesto sintonico e coerente con la filosofia di fondo della legge delega che sarebbe viceversa tradita se il pubblico ministero potesse avere accesso all’impugnazione di merito in una veste diversa da quella di antagonista alla quale è parametrata la nuova disciplina della legittimazione all’appello. (…) Da questi rilievi traspare l’intento del legislatore delegato di voler fugare mediante la norma de qua taluni dubbi di costituzionalità cui il novellato assetto dei limiti all’appello si sarebbe potuto esporre in presenza di un potenziale tertium comparationis che si è pertanto provveduto ad eliminare».

Fascicolo 5 - 2021